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Ippolito Pindemonte
Al Signor Parsons
GENTILUOMO INGLESE
A Firenze.
Concittadin di Pope, e di Miltono
Degno concittadin, che d’Arno in riva
Guidi per mano le Britanne Muse,
E col bel suon delle straniere voci
Ogni attonita svegli eco Toscana,
O GUGLIELMO, mia cura, e in questa verde,
Ov’or men vivo, solitaria piaggia,
Lungo alla pensierosa alma soggetto,
M’è dolce il flebil suon d’un ruscel lento,
Dolce la gaja musica del bosco,
Ma più dolci a me fur quell’auree tutte,
Che volar festi a me, Delfiche note,
Cui bella cortesía del nettar suo
Sparse, e sparse amistà, ch’è ancor più bella.
Perchè la stessa via correr non posso,
E volarmene a te? Certo se l’anno
Cocente, e l’arte del figliuol d’Apollo,
Cui di mia vita vacillante in mano
Ho posto il fren, me scolorito e magro
Non consigliasse alla quïete, e il puro
A respirar de’ campi aere odorato,
Certo non mi starei; ma lunge i piani
Lombardi, e in cima d’Apennin ventoso,
Date a’ pronti corsier tutte le briglie,
Or sarei teco. O colli ameni, o rive
Care alle Grazie, al Genio Italo, all’Arti,
O già d’Ausonia, anzi del Mondo Atene,
Vaga Fiorenza, e agli occhi miei pel nuovo
Ospite tuo gentile ora più vaga,
Ben godrei rivederti, e la tua sacra
Ribaciar terra, che cotanta polve
Chiude di man famose, onde parlanti
Uscían le tele, uscía ne’ bronzi e marmi
Il pensier degli eroi fuso e scolpito.
Felice chi ammirar può l’opre grandi,
E di grande città l’aure respira,
La bella degl’ingegni, e al vulgo ignota
Vita vivendo. Ma felice ancora
Chi del bel di natura il core acceso
Sua gioja umìle, e che nessun gl’invidia,
Cela sotto le fresche ombre romite,
E or curvo su le prische illustri carte
I morti ascolta, e l’età scorse vive
Or pensoso tra il dolce orror de’ boschi
Rintraccia ogni dover del Saggio in terra,
Si raffronta con sè, tien sempre il mezzo,
E a viver caro a sè medesmo impara:
O quando regna la stellata Notte,
Tra i penduli dal ciel lucidi Mondi
Fa spazïar la liber’alma, ad essa
Ravvisar la sua patria, e creder certo
A que’ lidi, a que’ porti il suo ritorno.
E pur giocondo mi sarebbe, o nato
A me da sì remota isola Amico,
Amoreggiar con teco la soave
Terribil Diva d’Amatunta, or molle
Nel Greco marmo e respirante, ed ora
Ne’ Veneti color tepida e viva.
Quindi le logge passeggiar di Pitti
Braccio con braccio, e del maggior Fiammingo
Condannando ammirar le tinte audaci,
E quai veggiamo a Silia, ed a Quartilla
Tutti raccesi di cinabro i volti.
Ma dove lascio io te, non pinta, o sculta,
Ma viva e vera d’Albiòn Minerva,
Che ora di tua presenza orni il natío
Nido del Precursor del tuo Neutono?
Scarco mi sentirei del mortal peso,
Se Fortuna tra voi terzo mi fesse,
Qual già mi feo sovra l’Adriache sponde,
Dolce ed amara rimembranza! Oh come
Correria pronta la mia mano al plettro
Presso all’inclita Donna, e a quel, che donna
Giunse a chiamarla, sua, Spirto canoro,
Sovra le cui nettaree labbra, e sotto
Le cui tremole dita ogni più bella
Spunta e fiorisce Italica armonía.
Men dunque io stupirò, se in mezzo a tanta
Aura Castalia, che a te spira intorno,
Le neghittose ali Febée riapri.
Ma loderò, che alle lusinghe sordo
De’ Piacer, che sì dolce han la favella,
La qual sotto del molle Adriaco cielo
T’era forse nel core alquanto scesa,
Drizzi a più bello ed onorato segno
Quella mente, che a te, solo de’ vaghi
Per favellar misterïosi nulla,
Onde suo dire, il gentil Mondo intesse,
Non t’infuse nel capo il tuo Pianeta.
E loderò, che il più bel fior traendo
Dall’opre di Natura, una sovrana
Ideale beltà ti formi, e questa
Purissimo amator vagheggi e inchini;
E quindi passi a riguardarla in tela.
O in marmo espressa, e a meditar com’arte
La sua madre e maestra emuli e vinca:
Nè pago ancora, i lavor suoi più rari
Celebri in carte, che non temon notte.
Segui, GUGLIELMO: contra i tanti mali
Della vita mortal gli Dei pietosi
Non ci dier forse le celesti Muse?
Ma se movi talor per via solinga,
Al raggio amico di tacente Luna,
O tra le Imperïali erbe, o tra quelle
Di Boboli Dedaleo, e in folta selva
Con piè non consapevole ti metti,
Mormorando tuoi sensi, e col pensiero
Tutto levato sovra il corso umano,
Chi sa che al guardo non ti soffra un’Ombra,
Qual ben saresti di mirar contento?
Coteste rive dal Britanno Omero
Fur viste, e amate; e nel divin suo canto
Suona, e ognor sonerà Fiesole, ed Arno,
Ed i ruscei di Vallombrosa, e il nome
Del gran Saggio d’Etruria. Oh se la grande
Alma onorata veder puoi, ritienla
Tu che puoi farlo, e per me ancor le parla.
Dille come tra l’acque, e all’odoroso
Rezzo del suo cantato Eden io vado
Con piacer redivivo errando sempre:
Come spesso a veder torno e ritorno
Quelle caste bellezze, ond’ei le membra
Infiorar seppe dell’angelica Eva;
Gli atti, le grazie, e il portamento, e quella
Non finta ritrosía, pudor non finto,
Ritrosía dolce, e lusinghier pudore,
Ed i sospir non falseggiati, e ad arte
Gli occhi non volti, o meditato il riso;
E tanti vezzi d’innocenza pieni,
Leggiadrie tanto pure, o sieda, a mova,
O parli, o taccia, o stia pensosa, o lieta:
E dille al fin, come in un Eden vero,
Suoi canti udendo, la mia stanza io muto.
Poesie campestri