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Ippolito Pindemonte
Alla Salute
Figlia del Ciel, da quella
Gran mano uscita, allor che l’uom n’usciva,
Chi fia cotanto bella,
Che di beltà teco contenda, o Diva?
Sono le guance tue porpora viva,
Grande a mirar diletto,
Agile è il piè, sereno
L’occhio, e la fronte, e pieno
Di naturale orgoglio il colmo petto,
Ed aprirsi, e brillar suol nel tuo viso,
Qual fiore in prato, e in cielo stella, il riso.
In quella prima etade,
Non che mover preghiera, e templi alzarti,
Cieco alla tua beltade
Nè rivolgeasi pur l’uomo a mirarti.
Ma poi che aperto il fatal vaso, e sparti
Fur su la terra i mali,
Di te com’ei s’accese!
Come a seguir ti prese!
Te giusta ira premea contro i mortali,
E d’allor cominciasti a far che scenda
Frequente sul tuo viso invida benda.
Sorsero poi superbe
Rocche e città; ma più, che l’alte mura,
Piace a te il campo, e l’erbe,
Piace l’intatta vergine natura.
Qui sovente ti fai, Dea sobria e pura,
All’arator dappresso
Tra Fatica, cui mille
Escon del petto stille,
E Pace, che ognor serba un volto istesso:
Qui la gota a fanciul del tuo cinabro
Colorir godi, o a villanella il labro.
Mentre in lucente gonna,
Ma con tremuli nervi, e cor non sano,
Ricca nobile donna
Dalla città ti chiama, e chiama invano.
D’arcane tazze a lei medica mano
Invan mesce conforto,
Invan fra tepid’acque
Nuda discese e giacque:
Disfiorata è la guancia, e l’occhio è morto,
Cui par non basti a ravvivar l’usata
Di mentir tuoi color polve rosata.
Ti chiamò Dea nemica
L’umana gente, e il labbro tuo rispose:
Sai, che più destra e amica
M’ebber de’ padri tuoi le dure spose.
Sai, che raro io sedei sovra le rose
Del molle Sibarita:
Cinta di pelli intatte,
E un nappo in man di latte,
Più spesso sovra il carro errai del Scita.
Mentre la madre il fanciullin tuffava,
Per le fredde del Tanai onde io notava.
Deh qua rivolgi il passo,
E la schiera fedel ti cinga il fianco,
Il buon Vigor, non lasso
Del vagar mai, del meditar mai stanco,
Quella, cui fosco dì par sempre bianco,
Ed è Letizia il nome,
E il Gioco, e il Riso, e terzo
Il moltiforme Scherzo,
Con Venere creduti, io non so come,
Poi che quei tre, chiedo alla Dea perdono,
Se teco ella non è, con lei non sono.
Te fuggono le meste
Veglie, cui pioggia i sonni invan prepara,
Te le Nause moleste,
Cui non è tazza che non sembri amara.
Vienne: il campestre loco, e questa avara
Mia mensa, o Dea, ti chiama;
Nè alcun del tuoi nemici
Hanno queste pendici,
Tema inquïeta, impazïente Brama,
Nè Amor, nè Gelosía, che in suo tormento
Spalanca cento lumi, e orecchie cento.
L’Ira nè men, ch’esangui
Or ha le guance, or tutta in foco è tinta,
E non l’Invidia, d’angui
Che si rivolgon contra lei, ricinta.
O tu di natío minio i labbri pinta,
Tu vita sei del Mondo:
Ma, senza te, nel Saggio
Langue il celeste raggio,
E il lungo meditar torna ingiocondo,
Ma d’un Monarca in man pesa lo scettro,
Ma di man cade ad un Poeta il plettro.