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Ippolito Pindemonte
I cimiteri
Le anguste case e i bassi e freddi letti
Ove il raggio del sol mai non penètra,
E quella che Verona ai suoi negletti
Figli concede ultima stanza tetra,
Pria che a terra me pur la Parca getti,
Metter vogl'io su la sdegnata cetra.
Vieni, o Dea, vieni a me dal tuo Permesso,
E il crin mi cingi di feral cipresso.
tendesi dentro alla mia patria un campo,
Di rozze mura ignobilmente cinto,
Dove, sparito della vita il lampo,
Ciascun sotterra a farsi polve è spinto.
Sesso, età, grado non ha quindi scampo,
Questo corpo con quel giace indistinto:
Ignoranza o saver, colpa o virtude
Una sola vil tomba inghiotte e chiude.
Vergine forse, a cui beltà fioriva
Pura e celeste per le membra intatte
Nella faccia ancor lubrica e lasciva
Della più infame Taide s'abbatte.
Colui, che una volgar madre nutriva
Di stoltezza e viltà più che di latte,
Dorme appo il saggio illustre o il vate santo
Che mercenario mai non sciolse il canto.
Cuoprono il campo intier l'ortica e il cardo
Nè un marmo sol, nè una sentenza sola,
Il passaggier concittadino sguardo
Fermando, le dolenti ombre consola,
E a chi di morte l'infallibil dardo
Non ancora sentì, di morte è scuola.
Ahi sciagurata età, quando rnen caro
Il viver torna, ed il morir più amaro!
Era la notte, e verso il Cimitero
Con piede io giva inavvertito e lento:
Spargea dal sommo ciel su l'emisfero
L'amica Luna i raggi suoi d'argento,
E muto rassembrava il mondo intero,
Se non se in quanto udivasi il lamento
Che alzava in alto dal solingo tufo
L'afflitto ognor lungo-ululante gufo.
L'aer tranquillo, e il solitario loco,
E la faccia del mondo inargentata
Cader l'alma rapita a poco a poco
Mi fero in una trista estasi grata.
Ma fu questa da un suon confuso e fioco
Di gemiti e di laì tosto turbata,
E ti celò in quel punto un fosco velo,
Bella Reina del notturno cielo.
Venìa dal Cimitero il suon dolente,
Tacque allor della,notte il mesto augello.
Vado alla casa della morta gente,
E al chiuso m'avvicino alto cancello.
Tra legno e legno il guardo avidamente
Spingo, e veggio spettacolo novello:
Uno stuol d'Ombre pallide e di Larve
D'ira atteggiate, e di dolor m'apparve.
Siede, e si copre con le man la faccia
L'una e i gomiti posa in sui i ginocchi:
In piedi è l'altra, e verso il ciel le braccia
Solleva, e verso il ciel solleva gli occhi.
Questa percuote il sen, le chiome straccia,
E par che fuoco dalla vista scocchi:
Quella parte, ritorna e incerto resti
Se più l'usato albergo ami o detesti.
Ombre, io grido, il destino vostro orrendo
È macchia eterna della mia cittade.
Ma s'io sognassi, o no, ben non comprendo,
Tanta la meraviglia è che m'invade.
Una di quelle allor ver me traendo:
V'ha dunque chi di noi sente pietade?
V'ha, disse, dunque ancor nel secol rio,
Cui non prese di noi barbaro oblio?
Sino a quel dì, che ci disvelse Morte
Dal corpo, che tuttora è a noi diletto,
Non fummo a voi padre, figliuol, consorte,
O s'altro v'ha tenero e dolce oggetto?
Se il fato ci colpì di noi più forte,
Fallimmo, onde infreddasse il vostro affetto
Quando que' corpi, in che avevam dimora,
Freddi del colpo non giaceano ancora?
Taccio, che qui da' morti invan si chiegga
L'usato onor d'uno scolpito sasso:
Taccio, che un volto qui mai non si vegga
Sovra quest'ossa lagrimoso e basso.
Scorgi tu, che quest'ossa almen protegga
L'ombra ospitale d'un funèbre tasso,
O che presso ad un rivolo, che il bagna,
Salice amico i rami incurvi e piagna?
Così almen di funèbre inno pietoso
S'udrebbe invece il mormorar dell'onde,
S'udrebbe il vento che per l'acre ombroso
Fremerìa flebilmente in fra le fronde,
E dell'anno quel giorno, in cui riposo
Sui rami forse un tenero usignolo
S'intuona ai trapassati, e si risponde,
Sciorrebbe il canto, e scorderebbe il volo.
Seguiva, io credo, i detti suoi quell'Ombra,
Ma un'altra incontro a me s'era già mossa,
Che di pensieri ancor più acerbi ingombra
Sembrava, e da maggior torto commossa,
Non è sì buia della notte l'ombra
Che nel fianco allo spettro aperta e rossa
Una piaga veder non mi conceda:
Par nebbia il crin, ch'era del vento in preda.
Qua qua, corvi, avoltoi, falchi e sparvieri,
Diceva, e quale altro havvi ingordo rostro:
Meglio, che in sì profani cimiteri,
È l'entrar, crudi augei, nel ventre vostro.
La spoglia, oggetto ancor de' miei pensieri,
Deh chi fuor trae di questo turpe chiostro,
E nel fiume la scaglia, ove travolta
Pur miglior sorte avrà, che qui sepolta?
Se la mia man su l'indigenza onesta,
Cieca, s'aperse, il sa cui pòrsi aita.
Per via movendo un dì scura, e non pesta,
Mi fur l'ôr tolto con mortal ferita.
Poi fiera tra i ladron lite si desta,
E quel, che me ferì, perde la vita.
Credi tu, che or la pia mano innocente
Dall'omicida man toccar si sente?
Mentre l'Ombra che tace, io pure ascolto,
Fuori uscìo della nube, ond'era cinta,
E illuminò la bianca Luna il volto
Di tal, che da me fu tosto distinta.
Sì non la offende nè il capello incolto,
Nè il pallor, di che l'ha Morte dipinta,
Che di quella beltade ancor non serbi,
Di che i suoi, non già ella, ivan superbi.
Te dunque non salvâr dall'odïoso
Carcer, Serega, i tuoi Penati illustri?
Di pianto universal, di prezïoso
Sepolcro degna, e di scultori industri,
Nè il tuo letto orna pure un odoroso
Di giacinti tappeto e di ligustri,
Nè sul tuo letto altro cadèo finora
Pianto, che quel della nascente Aurora?
Così parlava; e perchè m'era accorto
Che non conobbe allor la voce mia,
Entro valle amenissima a diporto
Sovra noto sentier, soggiunsi, io gìa
Tutto ne' miei pensieri allora assorto,
E mormorando i sogni miei per via,
Quando da un lume alla mia volta mosso
E da un dolce saluto io fui percosso.
Eri tu, che solevi alcun soggiorno
Talvolta far nella paterna villa.
Io poi seguo il mio calle, ed il contorno,
Per cui dianzi passò la tua pupilla,
Contemplo e veggio, che quell'aere intorno
Di te ancor ritenea qualche favilla;
Più verdi eran le siepi e più ridenti,
E fragranza maggior spargeano i venti.
Ed ella allor: Quei, che mio sposo visse,
Come la morte mia, dimmi, ha sentito?
È, risposi, stupor non ti seguisse,
Da sì barbaro duol venne colpito.
Ma del tuo disparir chi non s'afflisse?
Non fu per la cittade è morta udito,
Che il ciel men chiaro, ed all'Oceano giunto
Parve il Sol, che nell'Orto era in quel punto
Rasserenossi alquanto, e da me torse
Più contenta il bel piè dopo il mio detto,
E tosto a me davanti un altro sorse
Dolce di donna e doloroso aspetto.
Di ciò che in vita fu, non lascia in forse
Quel, che il capo le cinge, e quel che il petto
Pudico velo e vestimento sacro,
E il volto più degli altri umile e macro.
Quando all'ingannator secolo immondo
Demmo, dicea, le spalle fuggitive,
Chi avria creduto, che tornar nel mondo
Morte dovremmo, onde fuggimmo vive?
Se riposar si vietò a noi nel fondo
Del tempio sin che il giorno ultimo arrive,
Perchè c'invidiar sino il conforto
Di riposar sotto al domestic'orto?
Perchè se fu la vita ignota e oscura,
Non è la morte tacita e secreta?
E se la cella fu tranquilla e pura,
Non è la tomba inviolata e cheta?
Mal si teme d'aver soverchio in cura,
Poichè vestilla un Dio, la nostra creta,
Poichè a quella d'un Dio rassomigliante
Dee risorgere un dì bella e raggiante.
Ho nell'orecchio ancora i sensi rei,
Ho le sconce parole ed inoneste,
Onde trattaro, straziaro i miei
Libitinari la mia fredda veste,
Mi ritenea l'antico amor per lei,
E ad un tempo le voci empie e moleste
Mi respingeano; e dir non posso tutta
L'ambascia ch'io sentiva in quella lutta
Ma che, diss'io, che i solitari chiostri
Tranquilli furo, e i dolci asili illesi?
0 rozze lane, in ch'io mutava gli ostri
M'annunziaste voi, quando vi presi,
Che dalla militar licenza i nostri
Occhi sarian, sarian gli orecchi offesi,
Che gente alle battaglie usa ricetto
Tra le nostre pareti avrebbe a letto?
Misere, in che peccammo, allorchè, molta
Notte vegghiando, ritirate e sole,
Le mani ergemmo alla celeste vôlta,
Per voi pregando e per la vostra prole,
Chiamando coi digiun su la ricolta
Vostra or l'estiva pioggia, ed ora il sole
E scongiurando il demon della guerra,
Che ogni colpa e sventura in grembo serra?
Dov'è, non dico quell'amor d'altrui,
Che gente alle battaglie usa, ricetto
Tra le nostre pareti avrebbe e letto?
Scompagnate non van l'alme più fiere?
Agi piacer quanto dà il mondo, a lui
Tutto lasciammo, e non cen dee dolere;
Poche sol ricercammo ore quïete,
Barbari! e questo ancor tolto ci avete.
La mia Vestale con più forte tuono
Appena le voci ultime finìo,
Ch'io mi sentii dopo le spalle un suono
Di parole, e di piedi un calpestio.
Volgo subito il capo, e dove io sono,
Gente con ratto piè giunger vegg'io:
E diversa l'età, diverso il sesso,
Ma in tutti appar di fuor l'affetto istesso.
Domando, ascolto, ridomando, e sento,
Che ognun, che volse al cimitero il piede,
O l'amico, o la sposa, o il figlio spento
Ha in quella di miste ossa orrida sede,
Cui tornò l'occhio mio: ma l'occhio intento,
Nè Larva più, nè più Fantasma vede.
Tema, che forse non verrian credute,
Mi rinchiuse nel sen l'Ombre vedute.
E rivolto a coloro io dico invece:
Qual vano desiderio a voi fu scorta,
Poichè in questo recinto entrar non duca,
Che ai portatori della gente morta?
Secreto, atto poter venir noi fece,
Rispose un d'essi a questa sorda porta,
Pur qual pro', che pietosa anco ci fosse,
Se distinte tra lor non son le fosse?
Sempre dubbioso nel funesto prato
Di cader su colei che amai cotanto
O sovra uno stranier corpo non grato,
Mi sgorgherìa dalle pupille il pianto.
E quando io stessi ancor sul corpo amato,
Gli occhi miei nulla incontrerian di quanto
Nutre il cordoglio, e a un tempo il disacerba,
Ma una muta soltanto inutil erba.
Mentre così il suo duolo ei fea palese,
Sospirar forte io da vicin gli udìa.
Uom, che di stato umìl parmi all'arnese
E che a me, che il fissai, tai detti invia:
Fiamma che al tetto rapida s'apprese,
La scarsa divorò ricchezza mia,
E rimaser col resto anche distrutti
Dell'arte, ond'io vivea, gli ordigni tutti.
Con quattro figli, ed una moglie grossa
Su la pubblica via mi vidi a un tratto,
E già, s'io voglio pur regger quest'ossa,
Stendo la man di chi domanda in atto.
Ma da tal, ch'ebbe il cor pari alla possa,
Ogni danno mi fu tosto rifatto.
Egli or là giace, ed una grata stilla
Sparger su lui notai può la mia pupilla.
Piaga non v'ha maggior, proruppe allora
Donna di forme nobili e leggiadre,
Che quando estinto alcun da noi si plora,
E più, quando chi geme è un'orba madre.
Pur morte in questa età non parve ancora
Di sembianze abbastanza oscure ed adre.
Lasciava i corpi, se toglieasi l'alme:
Or perder ci conviene anco le salme.
So che talor, se l'ultimo mattino
Sorse a un de' nostri cari in loco estrano,
Si volle il caro estinto a noi vicino,
E varcò questo l'Alpi, e l'Oceàno:
Ma chi colto appo noi fu dal destino,
Giammai non si scacciò da noi lontano.
Colà rinchiuso, o in un remoto esiglio,
Disgiunta al par non sono io dal mio figlio?
Selvaggi io certo non dirò que' cori
Là dove all'armonia, che il bosco rende
Il morto frutto de' suoi casti amori
La madre a un giovinetto arbor sospende.
Ne scuote i rami zefiro, e di fiori
Sul feretro, che ondeggia, un nembo scende:
Ora il Sole l'irraggia, ed or la Luna,
Nè vedi qual sia più, se tomba o cuna.
Tanto io non vo'. Mi basteria prostrarmi
Sovra una pietra in atto umile e pio,
Ed a traverso de' funerei marmi
Veder parriami ancora il figlio mio:
Parriami udirlo ancor, leggendo i carmi,
Che, come s'ei parlasse, altri scolpìo.
In pace, diria, vivi, o Genitrice,
Vivi, ti prego, in pace: io son felice.
Ed allora io lentando al pianto il freno,
Mi sentirei come una dolce vena
Nell'amarezza penetrar, che il seno
M'inonda tutto con immensa piena.
Delusa io fui, quand'io sperai, che almeno
Potrei qui disfogar l'acerba pena;
Ma tu vedi, che gli occhi a me non bagna
Il pianto, che nel cor tutto mi stagna.