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Ippolito Pindemonte
Hoc erat in votis
Hoc erat in votis.
ORAZIO, sat. IV. l. II.
Eccomi finalmente ove desiderai tanto di essere: in mezzo d’una bella campagna. Colline e boschetti, prati e ruscelli, soggiorno di tranquillità e di pace, posso finalmente vivere nel tuo seno, contentar posso una sete da lungo tempo sì ardente, e non soddisfatta mai. Quel ritiro campestre, che la fantasia dipingevami, io l’ho trovato: il più caro de’ miei sogni non è più sogno.
Che aria è questa ch’io qui respiro! Qual profumo, freschezza, soavità! Come l’anima s’alza e s’allarga in questo aperto e bel cielo! Parmi ancora che la campagna rinforzi le facoltà nostre intellettuali, e più grande ci renda e più necessario il piacer di pensare. Qual folla di sensazioni e d’idee, di rapimenti, e d’affetti! Quante cose, che io credea dimenticate per sempre, or m’appariscon di nuovo, si riuniscono tutte, e mi stanno innanzi alla mente, che si maraviglia di rivederle!
No, non c’è uomo, che le bellezze della natura, qualche volta almeno, non abbian colpito. Voglio anche, ch’egli s’interni nella notte diurna, se così posso chiamarla, d’un folto bosco, e nulla senta di quel sacro e dolce orrore che inspira; voglio che miri con indifferenza l’immensità di quelle interminabili praterie, in cui l’occhio, come in un verde oceano, piacevolmente si perde; voglio che resista a cento altri oggetti non inferiori: non resisterà certo a quell’effetto, che tutti provan più o meno su l’alte montagne, per cui ci pare altri esser divenuti, nobilitandosi e sublimandosi ogni nostro sentimento, e più celere scorrendoci e più vigorosa per le alleggerite membra la vita. Ma per ben godere della campagna, bisogna esserci liberi e soli. Non ci si dee, no, trovare lo strepito cittadinesco, il giuoco, i gran pranzi, i passeggi in carrozza, le notti vegliate, le aurore dormite, i racconti frivoli, gli sdegnuzzi amorosi, la maldicenza: non conviene, come disse colui, portar la città nella villa.
Ma la solitudine è insopportabile a molti. La solitudine? Eglino insopportabili sono a sè stessi: sè stessi, che non videro mai, ritrovano allora, e spiace a loro la lor compagnia.
Ma l’uom nasce alla società, non a sè medesimo. Sì: ma parlo io forse d’un deserto dell’Arabia, e penso io di vivere in un albero incavato, come un Giapponese? Lascio, che spesso col bel nome di vita pubblica e attiva non si fa che coprir l’avarizia, o l’ambizion propria; e dico che anche il solitario può rendersi utile agli altri, e più virtuosamente, perchè nulla aspetta dagli altri, perchè non cambia, ma dona. È lepida cosa vedere, come gli abitanti delle città stimano fuor del Mondo chi non vive con essi; quasi fuor delle città nè spezie umana più siavi, nè Mondo. Ove non può rendersi utile il saggio? Ove lo può meglio il ricco, che nelle campagne, in cui quella porzione alberga dell’uman genere, che più abbisogna degli altrui soccorsi, e che li merita più? Parmi anzi che qui, lunge dal dimenticarsi degli uomini, s’impari più presto ad amarli, e a servirli meglio, quando nelle città sei nel rischio, e nella tentazion d’ingannarli, onde non venire ingannato. Parmi che l’anima, in un’aria libera e pura, più pura anch’essa diventi, e più facilmente dalle affezioni men belle si disviluppi; che anch’essa pongasi in libertà.
L’amor della solitudine nasce da indole trista e rinchiusa: può essere in molti. Nasce dalla noja del Mondo; o questa derivi dal ben conoscerlo, e però da un disinganno totale; o dal conoscerlo poco, e quindi dal non saper vivere in esso: anche questo esser può. Nasce da quel senso fino de’ falli e difetti umani, unito ad una passion forte per le doti della mente e del cuore, che a formar viene ciò che dicesi misantropía: anche questo. Nasce da passione di studio, massime ove si tratti di quelle facoltà, che più comodamente coltivar si possono in villa: e questo ancora. Ma la libertà del vivere, l’amor del riposo, il piacer della meditazione, la cura della propria salute, lo spettacolo de’ lavori e della rustica economia, son motivi anche questi di considerazion degni; a nulla dire di quell’incantesimo per alcuni così possente, che su la faccia sparso veggiamo della natura.
Quelle valli e montagne, que’ boschi e prati, quell’ombra e quel sole, que’ contrapposti di ameno e di selvaggio, di ridente e di orrido, quel biondo de’ campi in mezzo alle tante gradazioni della verdura, e sotto un gran cielo azzurro, o di nubi riccamente dipinto, e talora nelle onde lucide ripetuto, e gli augelli, e gli armenti, e i coltivatori che dan moto e vita a tutta questa sì gentile, sì grande, sì varia scena... ah! chi può descriverla? Chi può parlare di quegli enti nuovi, onde popolata m’apparisce, di quegli enti fatti secondo il mio cuore? E che importa che fantastici sieno, se la lor compagnia mi torna sì cara, e mi gitta nell’estasi la più deliziosa? Il qual genio per essi, anzi che sentire di misantropía, veggano quelli, che l’accusan di ciò, non indichi più presto un cuor delicato ed affettuoso, che non contento del Mondo reale, ricorre alla cortese immaginativa, la quale gliene dipinge uno, chimerico sì, ma d’un pascolo ad esso il più omogeneo per la qualità, ma l’ambrosia sua ed il suo nettare per la squisitezza.
Tra i vantaggi poi, che annoverar potrei molti, della vita solitaria, questo mi par sommo, che impariamo a conoscer bene le forze del nostro animo. Finchè siam nel Mondo, gli amici e i parenti si prendono un certo pensiero di noi, ci danno la mano, dirò così, per camminare ne’ sentieri anche men difficili della vita; e intanto noi andiam perdendo la facoltà di muoverci da noi stessi. Solo al contrario e abbandonato a sè medesimo, potrà uno sapere ciò ch’egli vale, ed anche un nuovo vigor morale acquisterà egli; perchè ciò, che sul corpo guasto fa una ragionevole astinenza, la quale lo rinvigorisce, faranno sul cuore, che difficilmente nel Mondo si mantien sano, alcuni mesi di solitudine appunto chiamata dalla savia antichità la dieta dell’anima.
Queste due maniere di vivere sono così diverse, che s’io non temessi ora di parere lodar me stesso, direi che ove l’uom mediocre, e senza virtù può goder nel Mondo di qualche bene, la solitudine al contrario non convien propriamente che ad uno spirito non comune, e ad una conscienza non agitata. Certo parecchi non dubitarono d’asserire, che la felicità umana consiste nell’uscire il più ch’è possibile di sè stessi, onde sentire il men ch’è possibile l’insufficienza propria; la qual diffinizione, come che non abbia nulla di nobile e di consolante, non lascia però, considerata la più parte degli uomini, d’esser vera. Vedete là colui, ch’esce di casa sì frettoloso? Non è tanto per cercar gli altri, quanto per fuggir sè medesimo. Ma che felicità infelice è mai quella, che dagli altri dipende? Il solitario all’incontro, che ha un bene non precario, ma suo, o sarà un selvaggio, e una fiera più che altro, o non volgare uomo: perchè come vivere con sè stesso, se non è contento di sè, se ha rimorsi, se non basta a sè medesimo, e non sa nutrirsi, per così dire, della sua propria sostanza? Quindi il pensier d’Aristotile, ch’esser dee o da meno, o da più che uomo; pensiero poeticamente rinforzato dal Milton, ove cantò, che la perfetta solitudine è propria del solo Dio.
O campagna, o soggiorno di quiete pieno e d’ammaestramento, di voluttà pura e d’ozio erudito, dammi ch’io possa nel riposato e sicuro tuo seno quella salute riavere, che da qualche tempo ho perduta. Da te sola io l’aspetto; giacchè è pur tua la fresca e purgata atmosfera, nella quale io passeggio, tue sono le acque, in cui soglio entrar giornalmente, de’ tuoi armenti è quel latte, di cui fo uso, e tu stessa m’inviti a quel cibo Pitagorico e verde, quale sei tu: oltre che qui la mia vita, come tranquillo lago ed immobile, non sarà, dirò così, da molesto pensier veruno increspata. Ma da te aspetto più ancora: ma v’è un’altra salute ancor più importante e più bella. Te dovrò ringraziare, se, come corretta l’acrimonia de’ miei umori, così le inclinazioni del cuore avrò migliorate; se, come il villano taglia i rami, e netta il campo da’ pruni, così io reciderò gl’inutili desiderj, ed ogni pungente cura dall’animo, estirperò, dall’animo sereno e ridente, come questo cielo: perchè tu sei madre di raccoglimento e meditazione; perchè ci richiami all’antica semplicità ed innocenza; perchè lo spirito, dopo essersi allargato e sparso su la varia tua immensità, torna e si ristringe in noi più vigoroso e più attivo; finalmente perchè prendendo a considerar gli uomini, cui sciolto da tante catene, e come da isolata specula posso veder meglio, imparo a conoscer meglio gli altri, e me stesso.