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Ippolito Pindemonte
Il Mezzogiorno
I.
Là ’ve gode uno stuol di folte piante
Ramo con ramo unir, fronda con fronda,
Ora condur mi piace il passo errante,
E del fiume vicin premer la sponda:
Del fiume, a cui di verde ombra tremante
Quelle spargendo van la rapid’onda,
Mentre sul pinto suol tessono un arco,
Che alle fiamme del ciel chiude ogni varco.
II.
Di meriggiar tra il folto han pur costume
Ora i più vispi volator canori:
Ma tema alcuna dell’ardente lume
Non turba, o farfallette, i vostri errori.
Parte battendo in faccia al Sol le piume
Fa varia pompa di pitture e d’ori,
Parte di fiore in fiore si trastulla,
Come se tutto lor piacesse, e nulla.
III.
Ed ora, che l’acuto ardor del giorno
Fuori all’erbe ed ai fior l’ambrosia tragge,
Non più carche di cera, ma ritorno
Fanno gravi di mel le pecchie sagge.
Farfallette ozïose, il meglio adorno
Cedete a lor di queste verdi piagge:
Questa è gente operosa, e le giornate
Spende in util fatica; e voi scherzate.
IV.
Rassomigliate voi quelle donzelle,
Che, non salendo all’onor mai di donne,
Godon sol di mostrarsi ornate e belle,
E di varj color spiegar le gonne:
Ma gareggian le industri api con quelle,
Che, delle case lor vere colonne,
Sudano in bei lavori, e i frutti sanno
Mostrar delle lor cure al fin dell’anno.
V.
Sediam: della stagion non tempra il foco
Anche il solo mirar dell’onda fresca,
Su la cui faccia il ventolin del loco
La punta all’ali sue bagna e rinfresca?
Onda, che la città vedrai tra poco,
Dì, prego, al dolce IDALIO mio, ch’ei n’esca;
Lasci le ignite mura, e un giorno almeno
Tenti qui meco all’amistade in seno.
VI.
Che s’egli manca, e qua non drizza il piede,
Solo non io però vivo quest’ore:
Chè meco all’ospitale ombra qui siede
O il divin dell’Eridano cantore,
O quel, su le cui carte ancor si vede
Arder la più gentil fiamma d’amore,
Qual mai non arse in uom dopo, nè prima,
Nè fu versata così dolce in rima.
VII.
Tale è l’incanto del celesti carmi,
Tal dolcezza nel sen mi serpe ed erra,
Che un nuovo Mondo allor mi cinge, e parmi
Nuove forme vestir l’aere e la terra.
Già tutto mi s’avviva: i tronchi, i marmi,
Ogni erba e fronda un’anima rinserra;
„L’onda d’amor, d’amor mormora l’aura,
E intenerito il cor chiede una Laura.
VIII.
Nè men con l’altro di vagar mi giova
Per abitata, o per solinga strada,
E veder dame, e cavalieri in prova
Di cortesia venir, venir di spada,
Mostri di forma inusitata e nova,
Castel, che sorga d’improvviso, o cada,
Opre d’incanto, ove maggior si chiude,
Che tosto non appar, senso e virtude.
IX.
Poi rivolgo lo sguardo, e sul pendio
Della collina, ove son d’oro i campi,
Le falci in man de’ mietitor vegg’io,
Sotto il pendulo Sol, dar lampi e lampi.
Ma tu, buon mietitor, frena il desio,
E non dolerti, che di man ti scampi,
E alle povere man della pudica
Spigolatrice resti alcuna spica.
X.
Se, tua mercede, sostener nel verno
Potrà sè stessa tra le angustie avvolta,
Solleverà di te prece all’Eterno,
Che sempre quella d’un cor grato ascolta:
Ed anco di stagion nemica a scherno
La nuova tua s’indorerà ricolta,
E vedrai, che la tua d’altrui pietade,
Più che le piogge e il Sol, giova alle biade.
XI.
Ir leggendo talor mi piace ancora
Qualche bella d’amore istoria finta,
Cui di dolce eloquenza orna e colora
Penna in Anglici inchiostri, o in Franchi tinta
Qui più d’una mia propria, e più talora
D’una vicenda tua chiara e distinta
Zenofila gentil, legger m’è avviso;
E di lagrime dolci aspergo il viso.
XII.
O tu, tu, la cui sorte ai destin miei
Parea pur che dovesse ir sempre unita,
Chi detto avrebbe un dì, ch’io condurrei
Dalla tua sì diversa or la mia vita?
Mentr’io questo ragiono, appena sei
Tu forse di tue piume al giorno uscita,
Ed ora siedi al lungo specchio, dove
Mediti nuove fogge, e piaghe nuove.
XIII.
Visita un dì le mie romite sponde:
Ecco venirti ad incontrar per via
Con le più rosee frutta, e le più bionde
Le forosette della villa mia.
T’attende questo Zefiro, che l’onde
Agitar del tuo crin forse desia,
E più che da’ fior suoi, spera diletto
Da quanto ti fiorisce in volto e in petto.
XIV.
Meravigliando Cromi al dì novello
Parmi immobile star sovra l’aratro,
Veggendo il campo rivestito e bello,
Ove prima giacea più nudo ed atro.
Sai, gli dirò, qual magico pennello
Questo di colli rabbellì teatro?
Vedi tu questa rosa, e là quel giglio?
La mano qui posò, là volse il ciglio.
XV.
Frutto de’ suoi sorrisi, e non del Sole,
È quest’aere sì lucido e sereno.
De’ fiati suoi, non d’erbe e di viole,
Frutto è quest’aere di fragranza pieno.
Un dolce resto delle sue parole
Ondeggia ancor del liquid’aere in seno.
Deh serbi a lungo di quel suon la traccia,
E taccia intanto il rivo, e il bosco taccia.