Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    La fata Morgana

    Racconto a Temira

    Temira, udisti mai la meraviglia,
    Che nel Siculo mare a i giorni estivi
    Tra il lito di Messina e quel di Reggio
    Il fortunato passeggier consola?
    Su la cetra io l'ho posta; odila: quando
    L'ora, e il loco al cantar ne invita, e quando,
    Come tutto è quaggiù mutabil cosa,
    Più di me non ti piace ormai che il canto.

    Ne la stagion che di mature spighe
    Ondeggia il campo, e sussurrando il curvo
    Ferro del mietitor par che richieda,
    Io pien corra de le memorie antiche
    L'onda Sicania, or con Ulisse, Ulisse
    Cui cinsi il piè d'Italian coturno
    Giovane audace, or con Enea varcando,
    E qui le grotte di Calipso, e i boschi
    Là di Circe io chiedeva, e il roseo prato
    De le Sirene, ed or volea col dito
    Il bruno antro mostrar di quel Ciclope,
    Cui seppe ingentilir Ninfa marina.
    Dolci menzogne, inganni dolci e sogni,
    Voi la delizia, di me tolto io grido,
    Foste de gli anni primi, e voi sarete
    De gli estremi il conforto. Allor voltaro
    La prora, ed ecco incontro a me l'antica
    Venir città de la Calabria, assisa
    A i piè de l'Appennin fatto collina,
    E a l'Italia confin da Nereo imposta,
    La bella Reggio. E qui piegar le vele,
    E dar ne' remi, ed afferrar la sponda,
    E l'ancore andar giù, fu quasi un'opra.
    Pera chi dirne osò nulla giammai
    Mostrar di peregrino e di gentile
    Quei Cittadin: falso n'è il grido, e in loro
    Greche faville ardono pur, cui soffio
    Di malvagio destin non tutte ammorza.

    Stanco il giorno languiva: io mando; ed ecco
    Cortese abitator giunge, e m'invita
    A la cena ospital. Gli ornava i Lari,
    Qual suol vergine rosa ornar giardino,
    Una tenera figlia, e tal, che s'era
    Del buon Zeusi a l'età, sola fra tutte
    Fanciulle Calabresi avria bastato.
    Io la vidi, e nel cor sì dolce un moto
    Sorse, che ricordar gli feo del tempo
    De' nostri amor, Temira, e nel suo volto
    L'antico io ravvisai poter del tuo.
    Vidila, e tacqui; e il periglioso ospizio
    D'un motto non offesi, e non d'un guardo.

    Tolte le mense, e giù dal ciel la notte
    Precipitando , a spiar l'aure uscimmo,
    E l'uom cortese: o ch'io m'inganno, o pago
    Sarà tosto il desìo. Ma la Fanciulla
    Gìa con la Madre a ritrovar le piume,
    E parve il ciel più brun, l'aura men cheta.
    Intanto io era ad un balcon col Padre
    Del parlar vario a i cadenti occhi inganno
    Facendo; e in me, ver la sorgente Aurora,
    Tu se' desta, io dicea, ma qui, nè il sai,
    Qui più bella di te dorme un'Aurora.
    E già nato era il Sol: quand'ecco in fretta
    Donne e fanciulli, ogni uom correre al mare
    Veggio, e gridar Morgana odo, Morgana,
    E Morgana iterar gli scogli e l'onde.
    Precipitiam le scale, e in erto loco
    Su l'orme del mio duce i passi affretto.

    Qui l'alto a gli occhi miei prodigio nuovo
    S'offerse: fiato non movea di vento,
    E quale specchio era il mar terso e immoto:
    Oh cara vista! un lungo in prima io vidi
    E sul mare e ne l'aria ordin fuggente
    Di colonne con archi, e dense torri,
    E castella, e palagi a cento e cento,
    L'uno appo a l'altro e l'uno a l'altro imposto:
    Poi la scena mutando, ecco sfilarsi
    Mille viali di ben culte piante,
    E fiorir sotto a innumerevol greggia
    Mille colline: indi mutando ancora,
    Schiere di Fanti e di Cavalli armate
    Muover come ad assalto, e le faville
    Di vicina battaglia in cor volgendo:
    Ed altre varie forme e pinti aspetti,
    Che vengono e che van, tornan, dan loco
    A pinti aspetti e ad altre varie forme,
    Qual fosse pe i deserti ampli del cielo
    Un rapido varcar di mondo in mondo:
    Spettacol solo, e in faccia a cui son nulla
    Quanti ornare il Sebeto, ornar la Senna
    Ludi scenici udiam, nulla fur quanti
    Brillar di Scauro e di Perìcle a i giorni
    Vider, classiche terre, Atene e Roma.
    Nè appo lui vanterò quei che Natura,
    Quei ch'Arte, od ambe congiurando insieme
    Sanno in parco e in giardin conforti offrire
    De' non lieti Monarchi al ciglio oscuro:
    Che Idelfonso, Marlì, Sembrun, Versaglia
    Non pur, ma gli orti, onde la gran Reina
    Babilonese, infamia e onor del sesso,
    Inghirlandò le temerarie mura,
    Su cui, sdegnoso invan, spinse l'Eufrate
    Alto qual di Marlì lo spruzzo ascende,
    Spettacol men gradito, e men gradito
    Spettacol fora la gran festa, quando
    Sul Cidno apparve la Niliaca Donna.
    Vele d'ostro, aurea poppa, e argentei remi,
    Mossi al tenor di flauti e sistri e cetre,
    E il padiglion trapunto, ov'era a l'ombra,
    E d'abito e beltà lucenti intorno
    Donne e Garzon, tutto parer la feo
    Tra le Grazie e gli Amor Venere Diva
    Sorta di nuovo fuor de l'onda: ed ecco
    Ch'offre al Drudo Latin la bella cena:
    Pendean d'alto ben mille e mille faci,
    Per cui quell'onda, in raddoppiarle, ardea,
    E sue ragion notte usurpava al giorno.
    E Antonio intanto a così allegre mense
    Bevea quel venen dolce, onde poi stando
    Qui due begli occhi ed un accorto labbro,
    Là Roma, Italia, Europa e il gran Senato
    E i grandi Iddii, vinsero gli occhi e il labbro.

    Svanito era l'incanto, e mare e cielo
    Tornati il cielo e il mar di prima, e gli occhi
    Pur larghi e fissi io per veder tenea:
    Quando a la voce di mia fida scorta
    Mi scossi e risensai: lungo il marino
    Lito prendemmo allora, e tai parole
    Fea la scorta fedel volar dal petto.

    Fra queste, che or ti vedi al destro fianco
    Sorger colline, ha una gran Fata albergo.
    Morgana è il nome; e chi la dice in Colco,
    E chi nata in Tessaglia. Un giovinetto
    Figlio di questa terra, ed il più bello
    Ch'occhio vibrasse mai, sciogliesse chioma,
    Qui vide, e sì cocente amor ne trasse,
    Che a null'altro pensò: rapillo, e in chiusa
    Grotta il ripose tra que' monti; e gli anni
    L'arte gli accrebbe, e infuse a i nervi e a l'ossa
    Lungo vigor di giovinezza. È antico,
    Ma non ritien men di sua forza il grido.
    Non resse al duol l'antica Madre; e quante
    Vergini ha qui non immature, e ancora
    Qualche straniera Vergine le tronche
    Speranze lacrimò di sì bel letto.
    Ma la Maga infiammata il Garzon caro
    Tinsi e la notte e il dì presso, con pari
    A tal foco d'amor ghiaccio di tema;
    E sol fuor de la grotta un cotal poco
    Gire il lascia a diporto: i pastor nostri
    Giuran che l'han talora inverso sera
    Visto passar tra bianche spoglie avvolto,
    E sventolante i bei crin d'oro a l'aura.
    Ma perchè alfin le crude noje, e prole
    De le noje inquieta i desir nuovi
    Non guidi al Vago laconforme vita,
    E i giorni d'un color sempre ritinti,
    Tai moltiplici vist e care scene
    La illustre Maga immaginò, che furo
    Da noi pur colte, e che pel suo Filino
    (Tale ha nome il Garzon) sol finge e addita.
    E però quando il vede sazio e lasso
    Dal ripetuto careggiar, da i lunghi
    Abbracciamenti giacer freddo e muto,
    Gli offre il vago spettacolo, ed il volto
    Rallegra giovanil. Come ciò s'opri,
    Chi più vanta d'ingegno in queste piagge
    Narra che tal n'è il magistero e l'uso.

    Sparse da pria l'accorta Maga in questa
    Riva di mar tale una sua d'ignote
    Materie, che antimonio, e quarzo, e dirle
    Selenite ascoltai, tessuta arena,
    E sue terre anco per que' monti ed erbe
    Pose, le braccia e il piè vagando ignuda,
    E i carmi aggiunse, onde travolti andaro
    Dal corso i rivi, e impallidisti, o Luna.
    E tal de' carmi sacri è il suono arcano,
    Che le parti minor d'essa mistura,
    Sol che raggio Febèo le punga alquanto,
    Ciascuna si risente, anima, e come
    Sciolta da lungo sonno, o messe l'ale ,
    Si muove, in alto vola, e su quell'onde
    S'aggira; e un viver morto, un nido angusto
    Muta in libero albergo, e in nobil vita.
    Sì disposte le cose, attende il punto,
    Che su quel mare il Sol, che nasce, obliquo
    Ferisca; ed ogni vento allora, ogni aura
    O ne l'ingrato ozio incatena, o manda
    A increspar le vicine onde Tirrene.
    Allor, qual se di noi pendesse a fronte
    Gran tela di cristallo, ecco reflessi
    Veggiam d'esta riviera in lei gli obbietti,
    Però che il Sol ne sorge a tergo, e addensa
    Umida notte que' vapor, cui dietro
    S'ergono di Messina i monti opachi,
    Che, se lice affrontar col meno il sommo,
    Son pur del vaporoso aereo specchio
    Gli argenti o i piombi, artefice Natura.
    Ma qual fu quello, cui su l'altra riva
    Levò per acciecar l'Augel Latino
    Il gran Siracusano, o quel cui drizza
    Ne gli erbosi eruditi orti reali
    Il Gallico pittor de la natura,
    Tale il pendolo specchio è in mille specchj
    Partito; e sì pini ben cento un pino
    Produce, ed in cento archi un arco solo
    Meravigliando si raddoppia, come
    S'uom divenisse un Briareo. Poi sia
    Del mobile cristallo uso nativo,
    O che dietro la Maga industre il mova
    Come più vuol, sì che il vibrato raggio
    Con tenor vario in lui fera e rimbalzi,
    Qual noi veggiam da gli aurei palchi a un fischio,
    Tale anche muta quella scena, ed ove
    Città sedea, frondeggian selve; queste
    Fuggono, e move ampio di Marte un campo.

    Così ne l'aria appar l'incanto: appare
    Spesso ad un tempo ancor ne l'onda, come
    Vedemmo a questa volta; e tal n'è il caso.
    La notte, che il prodigio alto precede,
    Va sotto il mar la Fata, e con Nettuno
    Si ristringe, ed or priega, ora minaccia.
    Nettuno ver Messina il mar rigonfia,
    E a se nel trae ver Reggio, e sì lo agguaglia,
    Che a Reggio, d'esto vagheggiarsi altera,
    Novello acquoso specchio offre ed assesta.
    Ciò innanzi avvien de i matutin reflussi,
    Le cui prime acque dal meriggio a l'Orsa
    Lente lente movendo, ecco partirsi
    Pur quello in cento specchj, e i cento in mille,
    E versatile anch'ei vantar la scena;
    Fin che l'acque seconde urtin le prime,
    E temendo via fuggano gli obbietti
    Al cruccio e al mormorio de l'onda in moto.
    Ma il fondo d'esso mar, che del cristallo
    È la foglia o la polve, a far ben nero,
    Proteo là sotto il gregge muto aduna,
    Mosso a tal da la Maga. E allor vegg'io,
    Quanto è in ciel, pur ne l'onda, e sol che un legno
    Ancorato sia qui, scorgo un'Armata,
    E non mi bastan gli occhi, e invidio un Argo,
    E col pensier volo a quei dì che Roma
    Questo medesmo mar contro una sola
    De l'Isola città cuoprio di vele,
    Che non conobber del ritorno i venti;
    E a quei, tepidi ancor di civil sangue,
    Quando il giovin Pompeo quest'onda corse
    Furioso così che furioso
    Men vola su quest'onda il suo tiranno
    Euro, superbo de i cavalli Eoi.

    Qui tacque, e in se pensoso alquanto e fosco
    Stette; e da noi richiesto, in mente, ei disse,
    Mi luce il foco marzial, ch'or arde
    Tra l'Indo ed il Britanno in altri mari,
    Ma che sul nostro mar tal manda infesto
    Reverbero e stridor, che impaurito
    Da i porti vuoti, e da i tacenti scanni
    Con l'oro in grembo, e l'Arti magre a tergo
    Fugge il Commercio, alma de' regni e vita,
    Anzi vero motor del mondo tutto.
    Ed io: l'uom sempre è uomo, e indarno ir vuole
    Più felice de gli Avi. A che mi vanti
    Quel che le nazion varie e remote
    Vincolo unì? piomba di tutte in capo
    Il mal sol d'una, e per quel nodo innoltra,
    Come fulmine va sul fil che il mena.
    Ed egli ancor: nè spero io pace; il Gallo
    Felice or già troppo sovrasta, e troppo
    Fermo ne' fati avversi è l'Anglo. Ed io:
    Non temer no ch'ei non risorga; come
    D'in su l'Etna vicin, padre fecondo,
    Cresce del potator sotto a la scure
    Gran selva, tale questa nobil gente
    Vivace torna quando appar più trista,
    E vigor trae sin da le piaghe. Verga
    Ferrea, cui torcer vuoi, più la costringi,
    Più sua forza natia desti, e più ardita,
    Sol che cedi un momento, ancor s'innalza.
    E già Vittoria su le stanche poppe
    Volare, e alfin vegg'io la Dea superba
    Militar co i Britanni: allor di cielo
    Scenderà l'alma Pace, allor fia pago
    L'American, già nuovi patti unendo,
    E qual gli detta in sen del nido avito
    E de l'Anglico nome amor risorto,
    Cui l'ira solo a sopir giunse, o Febo,
    M' inganna, o ancora un popol sol di due
    Veggio contra il comun nemico antico
    Formarsi, e ancor su i trionfati mari
    Del fier Tridente armar sola una destra.

    E già quegli seguia più lieto in viso:
    Quanto io parlai sinor, vedesti, e tua
    Fu ben ventura; ma più bello ancora
    Cotal volta è il teatro: i varj oggetti
    Pinti mostran talora i lor dintorni
    De' colori almi, onde la bella Nuncia
    Tesse l'arco piovoso, e il ciel rallegra.
    E allor, più torni l'aria inerte e spessa,
    Opra la Maga, che a que' monti affida
    Le magich'erbe, ond'escon gli olj e i sali,
    Ch'osan trattare i campi aurei del cielo
    Furtivi, e da l'amica aria coperti;
    E questa, a i caldi rai del Sol che monta,
    S'agita, si dissolve, e rugiadosa
    Venuta e luccicante, orna e ricinge,
    Come brillanti gemme opra d'intaglio,
    Quanti oggetti appresenta, invidia e duolo,
    Bella Nuncia di Giuno, in te destando,
    Che accrescesti talor, se vero è il grido,
    Di alquante lagrimette il tuo dolce arco.
    E quello è il grande, e da non dirsi, o invano
    Dirsi, spettacol è; ma rado incontra,
    E sol quando languente oltra l'usato
    Mira e scontento il Vago suo l'Amica,
    E maggior quindi è l'uopo: il giovinetto
    Semplice e rozzo a quel più raro incanto
    Pensier non è di libertà che serbi,
    Gode, festeggia, i morti spirti avviva,
    E d'un Titone un Cefalo ritorna,
    Come ha desìo l'innamorata Maga.

    Tai cose ragionava il dolce Amico,
    E tai cose, o Temira, io strinsi in metro.
    Indi tolse commiato, e a l'ospitale
    Cena invitommi nuovamente. Io mossi
    A rintegrar de la mia veglia il danno,
    E sognai mare, e sognai viste e incanti,
    E i penati sognai del caro Amico,
    E la mensa, e colei che sì l'ornava.
    Sorto, per la cittade a diportarmi
    Io trassi, che più grande e men raggiante
    Stava il Sol già cadendo: e il loco, e gli usi
    De gli abitanti io gìa spiando, e l'arti,
    E la viva ne l'uopo industria; ed ecco
    Bianco vestita, e di fior cinta il capo,
    La Verginetta a me venir sognata;
    E pria sentii battermi in volto un'aura
    Dolce, qual è la nunzia aura de l'Alba.
    Vagar tra un coro di fanciulle amiche
    La vidi, e vidi allor quanto era bella.
    Giunti a l'albergo, e rivestito il desco,
    Due ben nati Garzon figli del loco
    Vennero, sì ch'io sedei sesto. Fuma
    La mensa, e porporeggia il terso vetro.
    Nè la Murena, de i Roman conviti
    Già delizia, mancò, né l'aurea a gli occhi
    Siracusana Panacèa, che tosto
    Destò i motti leggiadri, e il riso arguto.
    Paga la natural voglia de' cibi,
    Fu più annodato il ragionar: ma come
    Non dir mai di Morgana? o incanto, o aspetto
    Sia casual, certo, io parlai, non rado
    E tra monti e su laghi appar tal sorta
    Di vaghi mostri, e quel tra gli altri è bello,
    Che fu d'in cima a Nordica montagna
    Visto, a la nostra età. Tacqui, e il desìo
    Dal volto uscir de la Fanciulla io vidi,
    E seguitai; dirollo, o bella, e forse
    Piacerà che un pò d'alto i detti io mova.

    Sagace e ardito esplorator del vero
    Scuoprio dal basso un'assai densa nube,
    Che su l'erto sedea Broken alpestro;
    E tolto un condottier, cui noto è il calle,
    Volle il monte salir. Dà forze al fianco
    L'amor del nuovo, e i bei sudor gli asciuga
    De la lode vicina il dolce vento.
    Giunto, tra spesse nebbie avvolto e chiuso
    Vedesi, e il duce invan cerca de gli occhi,
    E il chiama invan; che gli morìa sul labbro
    Tra quei vapor la voce, o uscìa, com'esce
    Da le nude ombre a Dite infranta e roca.
    Or che farà? tutto a sue pelli in seno
    Si stringe, si raggruppa, e sopra un sasso
    S'asside, al sasso indifferente: i dardi
    Eran del freddo assalitor sì acuti,
    Che il fiato a lui gelò tra labbro e labbro,
    Qual se visto avess'ei quella Medusa,
    Onde impietrava ogni d'uom polso e vena.
    E già morto vi fora, ostia a Sofia ,
    Qual fu d'altri tra il foco in altri monti,
    Onde infami son anco Etna e Vesevo;
    Ma dolce a un tratto meraviglia e nuova
    Non che a salvar, giunse a bearlo. In neve
    La nube si disciolse, a se d'intorno
    Vide nascer la neve: i fiocchi a un punto,
    Mirabil arte, fur tessuti, e primi
    I più alti vapori a ghiacciar furo,
    Rotto avendo da pria la nube in alto.
    Un vento indi levò, che quella al basso
    Spinse di balza in balza, ed ei si vide
    Cinto d'una serena aria, che un Sole
    Chiaro più ch'altro mai lustra e riscalda,
    E l'occhio infetto del vapor maligno
    Con ignoto piacer la cara luce
    Beve alto; quale chi da l'ombra inferna
    Sbucasse al cielo aperto, e a l'aura viva.
    Vide il suo duce allor, ch'ei pure indarno
    Fischiato avea, vide il fedel suo cane,
    Che avea latrato indarno, e per le balze
    Seguir credendo un capriuol, seguìa
    Parte di que' vapor densata e bianca
    Con disutile caccia a un vano spettro.

    Così Natura, grande ancor se giuoca,
    Spesso gode accoppiar l'orrido e il bello,
    Somma pittrice in contrapposti. E il vago
    Non appar forse di Morgana aspetto
    Tra due infamie del mar, Cariddi e Scilla?
    Pende su fresca valle arida rupe,
    Tra piagge di bei fior mugghia un torrente,
    E tal vedrai di giovinetta donna
    Sotto viso gentil rustiche voglie,
    E in Angelico petto un cor d'Inferno.

    Ma il prode Osservator s'arresta; ch'ivi
    Vuol la scena goder del Sol cadente.
    Dolce scena! ma cui pronta succede
    A cotai volte la più trista e amara.
    O Fanciulla, se mai ti punga amore,
    E quel felice sia lontan che tu ami,
    Fanciulla, ah non mirare un Sol che cada.
    Ed ecco allor che le più alte cime
    L'ultimo salutò purpureo raggio,
    Ecco pinto ne l'aria, e in faccia appeso,
    Qual da non viste funi altera mole,
    Ei si mira il gran monte, e la vicina
    Capanna, ed i pastor che gli fean cerchio
    Nota, e se stesso riconosce e accenna,
    Ed accennato ei pur viene in quel punto
    Da l'immagine sua, cui d'un sol tocco
    Compitamente il gran pennel del Sole
    Ritratto avea sopra l'aerea tela.
    Tal piacer non ti diè lo specchio, o bella,
    Il dì che più di te fosti contenta,
    Come in quel suo specchiarsi esultò il saggio
    Del bello Indagator: ma resta immoto
    Con ritte mani e semiaperta bocca
    Di stupore il Villan; latrano i cani;
    E pendente il fanciul bee da la madre
    Col guardo e con l'orecchio i dolci eventi,
    Che tra le bocche indi volando, faccia
    Prendono alfin d'un vero alto, di cui
    Fan conserva gradita il tempio e l'ara.

    Bella fu la tua storia, Ospite, e molto
    Debbiamti, disse la donzella; ed io:
    Fu assai più bello quel rossor che al cenno
    T'infocò de lo specchio ambe le gote.
    E qui di nuovo ella arrossì. Di voci
    Nacque in aria un frastuon confuso intanto,
    E bei fatti ciascun traea del capo,
    E ne ordian lor novelle. Al Tebro in riva
    Ecco d'Unni e Roman sì orrenda zuffa,
    Che d'ambo i campi rimanean già pochi;
    E sorger ecco i guerrier morti a un tratto,
    E rovinar l'un contra l'altro, e ancora
    Mescer le redivive armi, e una morte,
    Di notte ancor, dare o incontrar seconda.
    Tal la corrotta tabe, e il sangue negro
    De' corpi, onde fu pria gravato il campo,
    Bruttò quell'aure, che lor grembo pieno
    Han sempre de i vapor del padre Tebro.
    Nè t'increbbe, almo Sole, nè t'increbbe
    Il diro uffizio, o pia del Sol Germana?
    Quale è l'orecchio , a cui non sia mai giunta
    L'aerea danza di que' Dei campestri
    Entro le valli Mauritanie? ignudi,
    O di nebride cinti, e armonizzando
    Con tenor boschereccio alzan lor salti
    Al primo quei pastor sole e a l'estremo;
    E se il canto ed il suon tra i Dei campestri
    Par s'oda, è la fanciulla Eco che il duolo,
    Quel primo duol con l'innocente gioco,
    Duol crudo o scemar tenta, o fargli inganno.
    E quando il vecchio Imperator Latino
    Vide ne l'acque di quel bagno amaro
    L'ombra, che il minacciò col brando in alto?
    E quando Mario a l'Aniene in riva
    Levar da i rotti marmi il morto capo
    Vide l'agricoltor? con tai parole
    S'ingannavan da noi l'ore notturne,
    E su i vani timori, onde son l'alme
    De' miseri mortali afflitte e dome,
    Pietà dal cor, più che da i labbri riso
    Si riversava. L'uom cortese a i detti
    Tacito pende, e l'uno or guarda or l'altro,
    Poi si raccoglie in se, medita, e scorno
    Già par che il prema del narrato incanto.

    Ma la donzella dal rossor gentile,
    Che vide il cenno de la madre, a cui
    Gravi reggeansi le palpebre a stento,
    S'innalza, e dolce nel partir saluta,
    E a me propizio augura il vento. Ed io:
    Ben volgon gli anni che il materno letto
    Col letto nuzial muti, ed impari
    Novelli amplessi, e stile altro di sonni,
    E di piume un tepor forse più caro.
    E qui la terza volta ella arrossendo
    Ratta s'invola; ed un cotal sorriso
    Sorrise di piacer la cara Madre,
    Ed il passo senil dietro affrettolle.
    Ma il Padre: or saper dei che un Garzon vago,
    E in sen de le più vaghe Arti nodrito,
    Stranier, ma nato in città nostra, tosto
    Verranne, e sposa a le paterne case
    500La condurrà. Basta, diss'io, che alcuna
    Non lo vi tolga innamorata Maga.

    Allora un di que' due, che l'aurea cena
    Fur chiamati a cenar, feo tai parole
    Volar di bocca. Il labbro avea bruttato
    A quel torrente di scienza immondo,
    Che già da l'alpi a noi scese inondando,
    E franco il cor d'ogni paura, e un sordo
    Vantava orecchio d'Acheronte al fiotto.
    Forse d'egual tenor, disse, fu l'alto
    Portento, che al voltar mirò del sole
    L'infelice Siòn: cocchj per tutto
    Quel ciel ne l'aria roteanti, e in moto
    Tra l'alte nubi gran falangi armate;
    E tal fu quello, cui ne l'aspra pugna
    Vide, già nato il sol, d'Antioco il figlio:
    Cinque su bei destrier ricco addobbati
    Eroi dal cielo, e due di Giuda al fianco,
    La Greca fulminando oste nemica,
    Che inferma e cieca innanzi a lor cadea.
    Ciò non soffrìo l'altro Garzon più saggio,
    E riprese: che narri? allor che il primo
    Portento apparve, mosso ancor non era
    Dal condottier Romano a le divine
    Mura l'assalto: indi tra l'alte nubi,
    E in quel ciel tutto le falangi e i cocchj
    Come veder? che più? cento altri segni
    Dal ciel fur dati: l'ignea spada, il parto
    Nefando, il lume che l'altar ricinse,
    La porta de gl'interni aditi infranta,
    Vario di chi fuggia bisbiglio, e il prima
    Già risuonato vaticinio: voce
    Da l'Orto, voce da l'Occaso, voce
    Da i quattro venti, a Siòn voce e al Tempio,
    Voce ai sposi e a le spose, al popol tutto.
    Ciò dipoi, quanto a Giuda, abbiti solo,
    Che dardeggiar, che fulminar da l'alto
    Potea mal certo una reflessa imago,
    Un'ombra pinta, un colorito fumo.
    L'apparente ed il ver partir fa d'uopo,
    Nè quello a questo dee tor mai la fede.
    Quando a Vesulio ogni uom gelò per tema
    De l'armato guerrier che da le nubi
    Pendea con brando sguainato, e visto
    Fu poi l'Angiol marmoreo al tempio in cima,
    Chi miracol gridò? Forse l'inganno
    Pur sai di que' Peruviàn, cui spesso
    Il Dio loro Anazoth scendea del cielo
    Ed apparia? stolti! che presso un lago
    Giacente in chiusa valle al finto marmo
    550Van di quel Nume, e ne la nebbia opposta
    Miran sua forma, e le radici intanto
    De la religion ne'rozzi petti
    Poc'aria figurata indura e spande.
    Or negherai, che un Dio talor, quel Dio
    Che a scender non avea di ciel per questo,
    Monarca offeso, o consiglier placato
    Al caro si mostrasse instabil Giuda?

    Ed io per torli al periglioso calle,
    Deh come in accoppiar due grandi estremi,
    Lor dissi, di natura emulo il caso
    Andar suole talor! figliò nel Quito
    Grossa ignoranza quell' error più grosso,
    E de la terra fu pur là che Franchi
    Misuraro Argonauti il dubbio grado,
    Bella d'umano ingegno opra, acquistando
    Più nobil fede a quel che pria recaro
    Dal freddo polo altri Argonauti annunzio
    Con lo schiacciato in man globo tornati:
    E l'Angla di Neutono ombra volava
    Con piacer nuovo a le gran vele intorno
    Che andar vedea d'un suo trionfo altere.
    Qual v'ebbe mai clima più sconcio e infame
    Per aere crasso e per sinistro influsso
    Del Beotico cielo? e pur la dotta
    Grecia in que' monti, tra que' boschi e stagni,
    Non sotto il puro Attico ciel felice,
    Pose d'ogni bell'arte il tempio, e tutta
    La corte amò favoleggiar d'Apollo.

    Ecco il vento, ecco il vento: alto i Nocchieri
    Gridano a prova; ed io da lui partendo,
    Vivi, dicea, cortese alma, felice,
    E tua fede ospital compensi il Cielo.
    Dan l'aure ne la poppa, e ver l'altera
    Partenope solchiam l'onda, cui fea
    Lucida e crespa il bell'argenteo lume
    De la tacita Luna. Al fuggitivo
    Lito io spesso mirava, e di Morgana
    Non volgea sì le meraviglie in petto,
    Che non volgessi ed ancor più le care
    Mura, e il viso gentil, gli atti soavi,
    Lo sguardo in se raccolto, il parco labbro,
    E il rossor vago, e la pudica fuga;
    E tutta del compagno Astro, che piove
    Sì dolce in suo cheto vagar tristezza,
    Mesto e lieto io sentia nel cor la forza.

    Sorgiam, Temira: la notturna veglia
    T'aspetta, e grida ch'io dia fine al canto.
    Vanne, felice o tu, cui ride intorno
    Tutto e festeggia, e bear puoi beata.
    Tu ancor passeggi ne l'uman cammino
    Il sentier de le rose: io già tra foschi
    Arbori muovo; i giorni miei più vaghi,
    O che mi parver tai, passaro, e grave
    Benchè non sieda in me l'età, pur veggo,
    Ch'io non a lui, ma che a me vecchio è il Mondo,
    Ch'è pur giovin talora ad uom canuto.
    Or che più ti ritengo? Il sol vivace
    Diletto mio l'arte de' carmi è solo.
    Ma quest'inganno pur, ma pur quest'ombra
    Sarà in breve disciolta: odo le voci
    Non di quell'arti, che del nostro orgoglio
    Figliuole, e d'agi e di piacer son madri,
    Ma da quelle chiamarmi odo, che l'uomo
    Miglior, più caro altrui, più sempre il fanno
    Caro a se stesso, e de l'eccelsa rocca,
    Ove alberga Virtù, guidanlo in cima.
    O Virtù , bella Diva, unica e vera
    De l'uom felicità, chi te desia
    Forse vicino è al possederti: intanto
    Corona col tuo nome il mio lavoro.




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