Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    La Solitudine

    Pien d’un caro pensier, che mi rapiva,
    Giunto io mi vidi ove sorgean d’antica
    Magion gli avanzi su deserta riva.
    Cinge le mura intorno alta l’ortica,
    E tra le vie della cornice infranta
    L’arbusto fischia, e tremola la spica.
    Scherza in cima la vite, o ad altra pianta
    In giù cadendo si congiunge e allaccia,
    E di ghirlande il nudo sasso ammanta:
    E con verde di musco estinta faccia
    Sculto Nume qui giace, e l’umil rovo
    Là gran pilastro rovesciato abbraccia.
    M’arresto; e poi tra la folt’erba movo:
    Troppo di cardo o spina al piè non cale,
    E nel vóto palagio ecco mi trovo.
    Stillan le volte, e per l’aperte sale
    Passa ululando l’Aquilon, nè tace
    Nel cavo sen dell’ozïose scale.
    E pender dalle travi odo loquace
    Nido, entro cui tenera madre stassi
    I frutti del suo amor covando in pace.
    Quindi sul campo con gli erranti passi,
    Per via diversa dalla prima, io torno.
    Veggo persona tra i cespugli e i sassi.
    Sedea sovra il maggior masso, che un giorno
    Sorse nobil meta d’alta colonna:
    Abbarbicata or gli è l’edera intorno.
    M’appresso; ed era ossequïabil Donna:
    Scendea sul petto il crine in due diviso,
    E bianca la copria semplice gonna.
    Par che lo sguardo al ciel rivolto e fiso
    Nelle nubi si pasca, e tutta pósi
    L’alma rapita nel beato viso.
    Chi sei? le dico; ed ella, i rai pensosi
    Chinando, Solitudine m’appello:
    O Diva, sempre io t’onorai, risposi.
    Mettea dal mento appena il fior novello;
    Ed uscendo, tu sai che parlo il vero,
    Dal folleggiar d’un giovanil drappello,
    In disparte io traeva; e se un sentiero
    Muto e solingo a me s’apria, per esso
    Mi lasciava condur dal mio pensiero.
    Poscia delle città lodai più spesso
    Rustico asilo, e più che loggia ed arco,
    Piacquemi un largo faggio e un brun cipresso.
    Questo so ben: ma che sovente al varco
    Un Nume t’aspettò, pur mi rammento,
    Rispose, e che per te sonar fe’ l’arco.
    E stato fora allor parlar col vento
    Il parlarti de’ campi, e morte stato
    Far un passo lontan dal tuo tormento.
    Ma tutto de’ tuoi giorni era il gran fato
    Seguir la tua giovine Maga, e meno
    Curar la vita, che lo starle a lato,
    E dal torbido sempre, o dal sereno
    Lume degli occhi suoi pendendo, berne
    L’incendïoso lor dolce veleno.
    È vero, è ver: ma chi mirar l’eterne
    Può in man d’Amor terribili quadrella,
    E non alcuna in mezzo al cor tenerne,
    S’egli al fianco si pon d’una donzella,
    Che ad una fronte, che qual astro raggia,
    Giunga in sè stessa ogni virtù più bella,
    Che modesta ci sembri, e non selvaggia,
    Varia, nè mai volubile, che l’ore
    Viva tra i libri, e pur rimanga saggia?
    Ora l’età, l’esperïenza, e il core
    Già stanco, ed il pensier, che ad altro è vólto,
    Di me stesso potran farmi signore.
    Sorrise allor sorriso tal, che al volto
    Senza tor maestà crebbe dolcezza,
    La casta Diva; e così dir l’ascolto:
    Molti di me seguir punge vaghezza;
    Ma vidi ognor, come a poche alme infondo
    Fiamma verace della mia bellezza.
    Alcun mi segue, perchè scorge immondo
    Di vizj e di viltà quantunque ei mira:
    Questi non ama me, detesta il Mondo.
    Non ama me, chi del suo Prence l’ira
    Contro destossi, ed in romita villa
    Esule volontario il piè ritira;
    Ma la luce del trono, onde scintilla
    Su lui non balza, egli odia, odia l’aspetto
    Del felice rival, che ne sfavilla.
    Non chi la lontananza d’un oggetto
    Piange, che prima il fea contento e pago,
    E gli trasse partendo il cor del petto;
    Ma d’un romito ciel si mostra vago,
    Per poter vagheggiar libero e oscuro
    Pinta nell’aere l’adorata imago.
    Questi voti d’un cor, che non è puro,
    Odio; e di lui, che in me cerca me stessa,
    Solo gli altari e i sagrifizj io curo.
    Ma quanto a pochi è dagli Dei concessa
    Alma, che sol di sè si nutre e pasce?
    Che ogni dì, che a lei spunta, è sempre dessa?
    Che ognor vive a sè cara? Uom, che le ambasce
    Del rimorso, torcendo in sè la vista,
    Paventerà, questi per me non nasce.
    Questi sol qualche ben nel vario acquista
    Tumulto, perchè in lui strugge e disperde
    La conoscenza di sè stesso trista.
    Ma su lucido colle, o per la verde
    Notte d’un bosco, co’ pensieri insieme,
    E co’ suoi dolci sogni, in cui si perde,
    Passeggia il mio fedele, e duol nol preme,
    Se faccia d’uom non gli vien contro alcuna,
    Perchè sè stesso ritrovar non teme;
    E nel silenzio della notte bruna
    Estatiche fissar gode le ciglia
    Nel tuo volto soave, o argentea Luna;
    E per l’ampia degli astri aurea famiglia
    Gode volar, di Mondo in Mondo passa,
    Passa di meraviglia in meraviglia.
    Levando allor la fronte trista e bassa,
    Deh! grido, se ti spiace il culto mio,
    E che pensi di me, saper mi lassa.
    Il tuo culto sprezzar, no, non poss’io:
    Ma scosso appena dalle gialle fronde
    Avrà l’Autunno il lor ramo natio,
    Che tu darai le spalle a queste sponde,
    E d’altro filo tesserai la vita
    Ove Città sovrana esce dell’onde.
    Nè però dal tuo core andrà sbandita
    La voglia di tornare al bosco e al campo,
    Tosto che torni la stagion fiorita.
    E se nol vieta di due ciglia il lampo,
    Se una dolce eloquenza non ti lega,
    Ti rivedrò; nè temo d’altro inciampo.
    Ciò detto, in piè levossi; ed io: Deh! spiega,
    Se ancor mi s’apparecchia al core un dardo.
    Ella già mossa: Il labbro tuo mi prega
    Di quel, che dubbio pende anco al mio sguardo.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact