Edizione Italiana
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    Ippolito Pindemonte

    Lucentemque globum Lunae, Titaniaque astra Spiritus intus alit

    Lucentemque globum Lunæ, Titaniaque astra
    Spiritus intus alit
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    VIRGILIO. Æneid. lib. VI


    Mentre i miei concittadini si stanno seduti ad una scenica rappresentazione, io godo d’altro spettacolo: di quello d’una notte serena e tranquilla. Conviene, a ben goderne, esser nell’aperto d’una taciturna campagna. Che beltà! che magnificenza nel cielo! Qual ricchezza, qual lusso e pompa di maraviglie sotto l’apparenza d’innumerabili diamanti, che fiammeggiano attaccati alla celeste volta! E quanto non è soave questa universal quiete, quanto non è eloquente questo silenzio della natura, che dorme! La notte ha un certo che di sublime insieme e di dolce, ch’è un vero incanto dell’anima; la quale, non so se più amante di ciò che la colpisce, o di quello che la intenerisce, allora particolarmente sentesi commossa, che si destano in lei ad un tempo, e si confondono i sentimenti teneri, e i grandi. Ma qual ordine, quale armonia nella fabbrica dell’Universo! Quale sapienza nell’architetto! Viaggiai, mi disse un filosofo, per molte parti d’Europa, e di molte singolari e forti cose fui testimonio: ma la più strana per me fu il vedere un celebre astronomo, che facea profession pubblica d’ateismo. Dio buono! con quale occhio vedea mai costui muoversi intorno al Sole i pianeti, or più veloci ed or meno, giusta le più invariabili e costanti leggi, e con tante reciproche attrazioni tra loro, e tra ciascun di loro, ed il Sole, che quindi è sforzato a cambiare alquanto di luogo continuamente, onde quell’apparente disordine, da cui più bella emerge e più maravigliosa la regolarità di tutto il sistema? Ma questo non era abbastanza grande e magnifico: comparve un uomo nella dotta Inghilterra, il quale, data una perfezion maggiore ai Newtoniani strumenti, scoperse un nuovo pianeta, che tanto a un dipresso è più in là di Saturno, quanto Saturno dal Sole gira lontano. E perchè in questo secondo spazio sì esteso non crederò esser qualche altro viaggiante globo, che si tolse finora per la sua minore grandezza, o luce, alla vista dell’osservatore Inglese, cui non però si tolse il globo novello, che vince in chiarezza Saturno, benchè tanto più, che Saturno, da quella general fonte della luce lontano? Del che come sarà lecito lo stupire, se Giove, che n’è discosto più ancor del doppio, che Marte, manda nondimeno più lume, che non fa Marte? E non dee venir forse la maggiore o minor lucentezza, più che dalla distanza del Sole, dalla qualità particolare del corpo celeste, che i raggi solari più o men riceve, più o men ripercuote? E tu, o bellissima Luna, tu ancora, malgrado delle irregolarità, de’ capricci, per dir così, del tuo corso, tanto più grandi, che senti sì fortemente l’attrazion della terra, e quella del Sole ad un tempo, dovesti pur sottometterti finalmente ai calcoli umani, nè già più ti trovi in alcun sito del cielo, che gli uomini prima non sappiati determinarlo. La filosofia par convenire sul tuo conto con la mitologia: ritrosa per lungo tempo ed indocile, fu Newton il vero Endimione, che al fin ti vinse. Ma oggi sei tu forse inerte e agghiacciata, o piena ancora di movimento e di vita? variano, o no, le tue ineguaglianze così nella forma, come nella grandezza loro? s’inganna, o no, chi scorge in te dei vulcani? chi non ti nega un’atmosfera? influisci tu su la nostra, e sul nostro suolo, come dominar sembri sul mare, attraendolo a te, quasi per avvicinarti alquanto l’immenso specchio, in cui miri te stessa? Ma più, che l’andarti con mente filosofica considerando, mi giova, abbandonato a’ miei sensi, ricever nell’occhio a un tempo e nell’anima, che ti apro tutta, quella soave e nobile melanconia, che piove dalla tua faccia; massimamente in quest’ora, che, l’ardente Sol tramontato, tu ci ridoni il suo lume, ma spogliato della sua fiamma, ed un più dolce e più mansueto giorno spargi sopra la terra; mi giova o vederti passar lentamente dietro quelle nubi, che ora mi ti celano, ed ora scuoprono, o nell’azzurra volta serena contemplarti immobile e trionfante, mentre cade continuo di pallidetti raggi un diluvio, l’aria biancheggia tutta all’intorno, e il colle ed il piano si mostrano tinti di bella luce argentina. E voi, o lucidissime stelle, onde il gran manto della notte sembra trapunto, non siete voi forse altrettanti Soli, e non s’aggirano intorno a voi altri sconosciuti Mondi da voi animati, che voi attraete, e da cui siete attratte, attraendovi anche tra voi medesime scambievolmente? Io non mi sazio di spaziar colla mente tra voi; ed un vile atomo osa tutto trascorrere l’Universo. Giungo ad Urano, ch’è tanto più in là di Saturno, e non ho fatto che un breve passo: entro in una cometa, che volgesi intorno al Sole a una distanza infinitamente maggiore, ed ho appena cominciato il mio viaggio. Passo da questa, ov’è il nostro pianeta, in un’altra sfera, in quella di Sirio, che non è forse men grande; e da questa in altra, e poi ancora in altra, e così in infinito; poichè innumerabili son queste sfere, e par l’Universo senza confini. Che immensità! il centro è per tutto, la circonferenza in niun luogo. E tutta questa gran macchina si muove per quel solo principio, la cui forza determina il cadere d’un sasso. Ma tutti que’ Mondi sono essi abitati? havvi una spezie particolare di creature in ciascuno? Quanti diversi ordini di natura e di provvidenza! quanti disegni profondi d’intelligenza e bontà! Nell’uno si trovan per avventura enti men perfetti di noi, più perfetti nell’altro: quelli hanno un numero minore di sensi, questi un maggiore. Nulla però immaginar posso fuor di quello, che la natura mostrami qui: posso immaginar solamente un udito più o meno fino, una vista più o meno ampia, uno spirito più o men comprensivo; e quindi, parlando delle nostre arti, un’altra eloquenza in parte, un’altra musica, un’altra architettura. Supponendo poi le stesse facoltà, le stesse passioni, che abbiamo noi; che bel Mondo non sarebbe quello, ove ci avesse questa condizion sola, che ciascun coltivasse il talento suo proprio, e collocato fosse ciascuno secondo l’indole del proprio talento? O abitanti di Giove, e Saturno, noi degli eclissi de’ vostri satelliti facciam tavole, che voi stessi forse non siete ancor giunti ad avere: forse in Venere e Marte per lo contrario il nostro Galilei sarebbe un fanciullo. Quanto in questi pianeti non potrebbe aver portato innanzi la scienza un solo strumento, che rendesse visibili le più minute parti de’ corpi? Quanto una memoria sì vasta e tenace, che i pensieri tutti d’un filosofo, e tutte le cose da lui dette, e operate da lui, aver gli facesse a un sol tempo presenti, come in un quadro?

    Mirabilmente perfezionate si sarebbero in que’ due globi tutte le scienze: ma se v’ha un Mondo, nel qual le nazioni non vengano a guerra tra loro, per l’ambizione, o il capriccio di chi le governa; nel qual gli uomini d’ogni nazione trovar non possano il privato lor bene, che nel ben generale, e i costumi alle leggi, l’opinione alla ragion non s’opponga; ove la virtù sia utile a chi la professa, ed amata più che tutt’altro la verità; ah perchè la provvidenza nascer non mi fece in quel Mondo?

    Ma se le parti tutte dell’Universo cospirano a formare un sol tutto, che non può quindi far senza una sola delle sue parti; com’è egli dunque, che più non si veggono alcune stelle, che la settima delle Plejadi disparve da sì gran tempo? Guardiamci dal credere, che tali stelle non sussistan per questo, che non le veggiamo. Che il nostro mare abbia coperte le più alte montagne, che l’Atlantide sia sparita, che un pianeta rimanga disabitato e sterile, di fecondo che era e animato, tali vicende possono non turbar l’ordine generale: ma se un Sole si spegne e sparisce dal cielo, che sarà di tutti que’ Mondi, che rotavano intorno ad esso? ove li trasporterà quella forza centrifuga, che solo allor regnerebbe? Anche l’attrazion più generale tra i Soli, o le sfere tutte, ne rimarrebbe scomposta. Perchè dunque più non si scorge quell’astro? Per qualche accidente, se le spiegazioni non piacciono, che di ciò si danno, o se creder non vuolsi, che spento sussista nel voto, per qualche accidente, che non m’è noto; come non so, perchè si riaccese taluno, che s’era spento. Intendo forse io meglio, come gli altri tutti si scorgano ancora, cioè come non iscemi nelle stelle, e nel nostro Sole la luce dopo tanta emanazione? Ci appagan forse quelle comete in questo lanciate a fin di nutrirlo? Quel lume, che i corpi celesti si tramandano scambievolmente, e di cui nulla sen perde? Ci appagano invece quelle dottrine Cartesiane, o piuttosto Malebranchiane, che furon dall’Eulero rimesse in piedi, e che alla luce di emanar vietano, e vibrar fanno l’etere, in cui si vuole che la luce sia quello, ch’esser crediamo il suono nell’aria scossa e ondeggiante?
    Comunque sia, lo studio dell’Universo non permette di pensar cosa, onde turbata verrebbe quell’armonia, che d’altra parte per tanti fenomeni è dimostrata. Tale armonia generale, quanto all’ordine fisico, ci conduce naturalmente a supporre del morale lo stesso: se non è da dire, che amendue non forman che un sistema solo. E chi sa, che oltre il morale ed il fisico, non entrino nel gran disegno della Divinità altri ordini ancora, per cui nè termini abbiamo, nè idée? Noi veggiamo un gran palagio, la cui regolarità esterna fede ci fa dell’interna, ma entrar non possiamo in esso: lo misuriamo anche in gran parte questo palagio, ma senza poter conoscerlo. Che se tutto, come sembra, è concatenato, l’anima nostra così umiliata, quando, slanciandosi fuor del suo caduco inviluppo, trascorre i cieli, e riguarda da quell’altezza il picciolo nostro globo, gran conforto ricever può dal pensare, che non solamente questo picciolo globo, ma ciascun di noi stessi è necessariamente a tutta la natura congiunto. La stessa contemplazione del cielo, che una certa umiliazion desta in noi, dee destare anche una nobile compiacenza. L’uomo, disse un grande ingegno, non è che debile canna: ma egli è una canna pensante. Quel Sole, che illumina, feconda e governa tutti que’ Mondi, che gli danzano intorno, niente sa degli effetti mirabili e sommi, ch’egli produce: l’uomo è un nulla, ma sa ch’egli è un nulla. La divina scintilla, da cui è animato, e per cui può rivolgere uno sguardo intelligente a quelle porzioni di materia lucida, lo rende ancora più grande e più nobile di tutti que’ cieli, ch’egli contempla, e dalla contemplazion de’ quali s’innalza sino al trono dell’Onnipotenza, di cui narrano i cieli la gloria, senza vederla e conoscerla, a lui, che la vede in questa, e che per conoscerla è fatto nell’altra vita. Sì, questa è la bella sorte dell’uomo, che saper posso anche senza il libro de’ filosofi, anche senza quel libro che ogni filosofia superò, benchè l’uno me la faccia sperare, e l’altro la mi prometta: bastami guardar nel mio cuore, ove trovo un principio non men naturale, che la ragione, ma più forte, più inalterabile, e più sentito; trovo un desiderio non mai pago, e rinascente sempre, d’una che sempre cerco, e non trovo mai, vera e perfetta felicità.

    FINE.


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