Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    I sepolcri

    Qual voce è questa, che dal biondo Mela
    Muove canora, e ch'io nell'alma sento?
    questa, Ugo, la tua, che a te mi chiama
    Fra tombe, avelli, arche, sepolcri, e gli estri
    Melanconici e cari in me raccende.
    Del Meonio Cantor su le immortali
    Carte io vegghiava; e dalla lor favella
    Traeva io nella nostra i lunghi affanni
    Di quell'illustre pellegrin, che tanto
    Pugnò pria co' Troiani, e poi col mare.
    Ma tu, d'Omero più possente ancora,
    Tu mi stacchi da Omero. Ecco già ride
    La terra e il cielo, e non è piaggia, dove
    Non invermigli april vergini rose.
    E tu vuoi ch'io mi cinga il crine incolto
    Di cipresso feral; di quel cipresso
    Che or di verde sì mesto invan si tinge,
    Poscia che da' sepolcri è anch'esso in bando.
    Perchè i rami cortesi incurvi, e piagni,
    O della gente, che sotterra dorme,
    Salice amico? Nè garzon sepolto,
    Che nel giorno primier della sua fama
    La man sentì dell'importuna Parca,
    Nè del tuo duolo onorerai fanciulla,
    Cui preparava d'lmenéo la veste
    L'inorgoglita madre; e il dì, che ornarle
    Dovea le membra d'lmenéo la veste,
    Bruno la circondò drappo funèbre.
    Della fanciulla e del garzon sul capo
    Cresce il cardo e l'ortica; e il mattutino
    Vento, che fischia tra l'ortica e il cardo,
    O l'interrotto gemito lugùbre,
    Cui dall'erma sua casa innalza il gufo
    Lungo-ululante della Luna al raggio,
    La sola è che risuoni in quel deserto
    Voce del Mondo. Ahi sciagurata etade,
    Che il viver rendi ed il morir più amaro!

    Ma delle piante all'ombra, e dentro l'urne
    Confortate di pianto è forse il sonno
    Della morte men duro? Un mucchio d'ossa
    Sente l'onor degli accerchianti marmi,
    O de' custodi delle sue catene
    Cale a un libero spirto? Ah non è solo
    Per gli estinti la tomba! Innamorata
    Donna, che a brun vestita il volto inchina
    Sovra la pietra che il suo sposo serra,
    Vedelo ancora, gli favella, l'ode,
    Trova ciò, ch'è il maggior ne' più crudeli
    Mali ristoro, un lagrimar dirotto.
    Soverchio alla mia patria un tal conforto
    Sembrò novellamente: immota e sorda
    Del Cimitero suo la porta è ai vivi.
    Pure qual pro, se all'amoroso piede
    Si schiudesse arrendevole? Indistinte
    Son le fosse tra loro, e un'erba muta
    Tutto ricuopre: di cadere incerto
    Sovra un diletto corpo, o un corpo ignoto,
    Nel core il pianto stagnerìa respinto.
    «Quell'urna d'oro, che il tuo cener chiude,
    Chiuderà il mio, Patroclo amato: in vita
    Non fummo due, due non saremo in morte».
    Così Achille ingannava il suo cordoglio,
    Ed utile a lui vivo era quell'urna.

    Il divin figlio, se talor col falso,
    Che Grecia immaginò, dir lice il vero,
    Il divin figlio di Giapèto volle
    L'uman seme formar d'inganni dolci,
    D'illusïoni amabili, di sogni
    Dorati amico, e di dorate larve.
    Questa, io sento gridar, fu la sua colpa;
    Ciò punisce l'augel, che il cor gli rode
    Su la rupe Caucàsea, e non le tolte
    Dalla lampa del ciel sacre faville.
    Quindi l'uomo a rifar Promètei nuovi
    Si volgono, e dell'uom, non che il pensiero,
    L'interno senso ad emendar si danno.
    Perdòno appena da costoro impetra
    Quel popol rozzo, che le sue capanne
    Niega d'abbandonar, perchè de' padri
    Levarsi, e andar con lui non ponno l'ossa.
    Perdòno appena la selvaggia donna,
    Che del bambin, cui dalle poppe Morte
    Le distaccò, va sulla tomba, e spreme,
    Come di sé nutrirlo ancor potesse,
    Latte dal seno e lagrime dagli occhi:
    O il picciolo ferètro all'arbor noto
    Sospende, e il vede, mentre spira il vento,
    Ondeggiar mollemente, e agli occhi illusi,
    Più che di bara, offrir di culla aspetto.

    Ma questi grati ed innocenti errori
    Non fûro ancor ne' popoli più dotti?
    Ma non amò senza rossor le tombe
    Roma, Grecia ed Egitto? — A te sia lieve
    La terra, o figlio, e i bassi tuoi riposi
    Nulla turbi giammai, dice una madre,
    Quasi alcun senso, una favilla quasi
    Di vita pur nel caro corpo creda.
    Tenere memorie alzando in marmo
    Tu vai pascendo, satollando vai
    L'acre dolor, che men ti morde allora.
    Men da te lungi a te paion quell'alme,
    Di cui le spoglie, ond'eran cinte, hai presso.
    Che dirò delle tue, Sicilia cara,
    profonde Sale Sepolcrali, dove
    Co' morti a dimorar scendono i vivi?
    Foscolo, è vero, il regno ampio de' venti
    lo corsi a' miei verd'anni, e il mar Sicano
    Solcai non una volta, e a quando a quando
    Con pié leggier dalla mia fida barca
    Mi lanciava in quell'isola, ove Ulisse
    Trovò i Ciclopi, io donne oneste e belle.
    Cose ammirande io colà vidi: un monte
    Che fuma ognor, talora arde, e i macigni
    Tra i globi delle fiamme al cielo avventa.
    Templi, che vider cento volte e cento
    Rïarder l'Etna spaventoso, e ancora
    Pugnan con gli anni, e tra l'arena e l'erba
    Sorgon maestri ancor dell'arte antica.
    Quell'Aretusa, che di Grecia volve
    Per occulto cammin l'onda d'argento,
    Com'è l'antico grido, e il Greco Alféo,
    Che dal fondo del mar non lungi s'alza,
    E costanti gli affetti e dolci l'acque
    Serba tra quelle dell'amara Teti.
    Ma cosa forse più ammiranda e forte
    Colà m'apparve: spazïose, oscure
    Stanze sotterra, ove in lor nicchie, come
    Simulacri diritti, intorno vanno
    Corpi d'anima vôti, e con que' panni
    Tuttora, in cui l'aura spirar fur visti.
    Sovra i muscoli morti e su la pelle
    Così l'arte sudò, così caccionne
    Fuori ogni umor, che le sembianze antiche,
    Non che le carni loro, serbano i volti
    Dopo cent'anni e più: Morte li guarda,
    E in tema par d'aver fallito i colpi.
    Quando il cader dell'autunnali foglie
    Ci avvisa ogni anno, che non meno spesse
    Le umane vite cadono, e ci manda
    Su gli estinti a versar lagrime pie,
    Discende allor ne' sotterranei chiostri
    Lo stuol devoto: pendono dall'alto
    Lampadi con più faci; al corpo amato
    Ciascun si volge, e su gli aspetti smunti
    Cerca, e trova ciascun le note forme;
    Figlio, amico, fratel trova il fratello,
    L'amico, il padre: delle faci il lume
    Così que' volti tremolo percuote,
    Che, della Parca immemori, agitarsi
    Sembran talor le irrigidite fibre.
    Quante memorie di dolor comuni,
    Di comuni piacer! Quanto negli anni
    Che si ratti passâr, viver novello!
    Intanto un sospirar s'alza, un confuso
    Singhiozzar lungo, un lamentar non basso,
    Che per le arcate ed eccheggianti sale
    Si sparge, e a cui par che que' corpi freddi
    Rispondano: I due Mondi un picciol varco
    Divide, e unite e in amistà congiunte
    Non fur la vita mai tanto e la morte.

    Ma stringer troppo e scompigliar qualche alma
    Questa scena potrìa. Ne' campi aviti
    Sorge, e biancheggia a te nobil palagio
    D'erbe d'acque, di fior cinto e di molta,
    Che i tuoi padri educaro, inclita selva?
    Riposi là, se più non bee quest'aure,
    L'adorata tua sposa. Un bianco marmo,
    Simbol del suo candor, chiudala, e t'offra
    Le sue caste sembianze un bianco marmo.
    Ma il solitario loco orni e consacri
    Religïon, senza la cui presenza
    Troppo è da mirarsi orribile una tomba.
    Scorra ivi e gema il rio, s'imbruni il bosco,
    E s'incolori non lontan la rosa,
    Che tu al marmo darai spiccata appena.
    Non odi tu per simil colpo il fido
    Pianger vedovo tortore dall'olmo?
    Quando più ferve il dì, quando più i campi
    Tacciono, il verde orror della foresta,
    Che il Sole indora qua e là, ti accolga.
    Nel rio che si lamento, e in ogni fronda
    Che il vento scuota, sentirai la voce
    Della tua sposa: con le amiche note,
    Sotto il suo busto nella pietra incise,
    Ti parlerà: Pon, ti dirà, pon freno,
    Caro, a tanto dolor; felice io vivo.
    E quando il più vicino astro su i campi
    La smorta sua luce notturna piove,
    Pur t'abbia il bosco; candida le vesti,
    E delle rose, che di propria mano
    Per lei spiccasti, incoronata il capo,
    La tua sposa vedrai tra pianta e pianta;
    Ambo le guance sentirai bagnarti
    Soavissime lagrime, e per tutta
    Scorrerti l'alma del dolor la gioia.

    Così eletta dimora e sì pietosa
    L'Anglo talvolta, che profondi e forti,
    Non meno che i pensier, vanta gli affetti,
    Alle più amate ceneri destina
    Nelle sue tanto celebrate ville,
    Ove per gli occhi in seno, e per gli orecchi
    Tanta m'entrava e sì innocente ebbrezza.
    Oh! chi mi leva in alto, e chi mi porta
    Tra quegli ameni, dilettosi, immensi
    Boscherecci teatri? Oh! chi mì posa
    Su que' verdi tappeti, entro que' foschi
    Solitarii ricoveri, nel grembo
    Di quelle valli ed a que' colli in vetta?
    Non recise colà bellica scure
    Le gioconde ombre: i consueti asili
    Là non cercano invan gli ospiti augelli;
    Nè Primavera s'ingannò, veggendo
    Sparito dalla terra il noto bosco,
    Che a rivestir venía delle sue frondi.
    Sol nella man del giardinier solerte
    Mandò lampi colà l'acuto ferro,
    Che rase il prato ed agguagliollo, e i rami,
    Che tra lo sguardo e le lontane scene
    Si ardivano frappor, dotto corrèsse.
    Prospetti vaghi, inaspettati incontri,
    Bei sentieri, antri freschi, opachi seggi,
    Lente acque e mute all'erba e ai fiori in mezzo
    Precipitanti d'alto acque tonanti,
    Dirupi di sublime orror dipinti:
    Campo e giardin, lusso erudito, e agreste
    Semplicità, quinci ondeggiar la mèsse,
    Pender le capre da un'aerea balza,
    La valle mugolar, belare il colle,
    Quinci marmoreo sovra l'onde un ponte
    Curvarsi, e un tempio biancheggiar tra il verde;
    Straniere piante frondeggiar, che d'ombre
    Spargono Americane il suol Britanno,
    E su ramo, che avea per altri augelli
    Natura ordito, augei cantar d'Europa;
    Mentre superbo delle arboree corna
    Va per la selva il cervo, e spesso il capo
    Volge e ti guarda, e in mezzo all'onde il cigno
    Del piè fa remo, il collo inarca, e fende
    L'argenteo lago: così bel soggiorno
    Sentono i bruti stessi, e delle selve
    Scuoton con istupor la cima i venti,
    Deh perchè non poss'io tranquilli passi
    Muovere ancor per quelle vie, celarmi
    Sotto l'intreccio ancor di que' frondosi
    Rami ospitali, e udir da lunge appena
    Mugghiar dei Mondo la tempesta, urtarsi
    L'un contro l'altro popolo, corone
    Spezzarsi e scettri? Oh quanta strage! Oh quanto
    Scavar di fosse, e traboccar di corpi,
    E ai condottier trafitti alzar di tombe!

    Nè già conforto sol, ma scuola ancora
    Sono a chi vive i monumenti tristi
    Di chi disparve. Il cittadin che passa,
    Gira lo sguardo, il piede arresta, e legge
    Le scritte pietre de' sepolcri, legge:
    Poi, suo cammin seguendo, in mente volge
    Della vita il brev'anno e i dì perduti,
    E dice: Da qual ciglio il pianto io tersi?
    Non giovan punto, io sollo, i Carraresi
    Politi sassi a una grand'alma in cielo,
    Dove altro ha guiderdon, che gl'intagliati
    Del Lazio arguti accenti, o le scolpite
    Virtù curve su l'urna e lagrimose.
    Ma il giovinetto, che que' sassi guarda,
    Venir da loro al cor sentesi un foco,
    Che ad imprese magnanime lo spinge.
    Figli mirar, di cui risplenda il nome
    Ne' secoli futuri, o mia Verona,
    Non curi forse? Or via, que' simulacri
    Che nel tuo Foro in miglior tempi ergesti,
    Gettali dunque al suol: cada dall'alto
    Il tuo divino Fracastor, dall'alto
    Precipiti, e spezzato in cento parti
    Su l'ingrato terren Maffei rimbombi.
    Bello io vorrei nelle città più illustri
    Recinto sacro, ove color che in grande
    Stato, o in umíl, cose più grandi opraro,
    Potesser con onor pari in superbo
    Letto giacer sul lor guancial di polve:
    Quell'umano signor, per la cui morte
    Piangenti sol non si vedran que' volti,
    Che del cenere regio adulatrice
    L'arte di Fidia su la tomba sculse;
    Quel servo, che recò la patria in corte,
    E fu ministro e cittadino a un tempo;
    Quel duce, che col nudo acciaro in pugno
    L'uomo amar seppe, e che i nimici tutti,
    Se stesso ed anco la vittoria vinse;
    Quel saggio, che trovò gli utili veri,
    O di trovarli meritò; quel vate,
    Che dritto ebbe di por nel suo poema
    La virtù, che nel petto avea già posta.
    Scarpello industre i veri lor sembianti
    Ci mostrería: nella sua sculta imago
    Questi, mirate, ha la bontà, che impressa
    Nel cor portò; quegli la fronte increspa,
    E al comun bene ancor pensa nel marmo.
    Qui nelle vene d'un eroe, che trasse
    Dagli occhi sol de' suoi nemici il pianto,
    Scorre il bellico ardir; là un oratore
    Così stende la man, così le labbra
    Già muover par, che tu l'orecchio tendi:
    E in quella faccia, che gli è presso, il sacro
    Poetico furor vedi scolpito.
    La pietra gode, e si rallegra il bronzo
    Di ritrar qua e là scettri clementi,
    E giusti brandi, e invïolati allori,
    Cetre soavi, e non servili o impure.
    Quando la scena dei corrotto Mondo
    Più i sensi attrista, ed il cor prostra, io entro
    Nel cimitero augusto, e con gli sguardi
    Vado di volto in volto: a poco a poco
    Sento una vena penetrar di dolce
    Nell'amaro, che inondami, e riprende
    Le forze prime, e si rïalza l'alma.
    Ma in quel vôto colà, 've monumento
    Non s'erge alcun, quali parole nere
    Correr vegg'io su la parete ignuda?
    Colui, che primo di que' Grandi ad uno,
    Che nel bel chiostro dormono, con l'opre
    Somiglierà, deporrà in questo loco
    La testa, e in marmi non minori chiuso,
    Sonni anch'ei dormirà non meno illustri.
    Così le non mal nate alme dai lacci
    D'un vile ozio sciorriansi; e di novelli
    O in guerra o in pace salutari eroi
    Feconda tornería la morte polve.

    Bella fu dunque, e generosa e santa
    La fiamma, che t'accese, Ugo, e gli estremi
    Dell'uom soggiorni a vendicar ti mosse.
    Perchè talor con la Febéa favella
    Sì ti nascondi, ch'io ti cerco indarno?
    È vero, ch'indi a poco innanzi agli occhi
    Più lucente mi torni e mi consoli.
    Così quel fiume, che dal puro laco,
    Onde lieta è Ginevra, esce cilestro,
    Poscia che alquanto viaggiò, sotto aspri
    Sassi enormi si cela, e su la sponda
    Dolente lascia il pellegrin, che il passo
    Movea con lui; ma dopo via non molta
    Sbucare il vede dalla terra, il vede
    Fecondar con le chiare onde sonanti
    Di nuovo i campi, e rallegrar le selve.
    Perchè tra l'ombre della vecchia etade
    Stendi lungi da noi voli si lunghi?
    Chi d'Ettór non cantò? Venero anch'io
    Ilio raso due volte, e due risorto,
    L'erba ov'era Micene, e i sassi ov'Argo:
    Ma non potrò da men lontani oggetti
    Trar fuori ancor poetiche scintille?
    Schiudi al mio detto il core: antica l'arte,
    Onde vibri il tuo stral, ma non antico
    Sia l'oggetto, in cui miri; e al suo poeta,
    Non a quel di Cassandra, llo ed Elettra,
    Dall'Alpi al mare farà plauso Italia.

    Così delle ristrette, e non percosse
    Giammai dal Sole sotterranee case,
    Io parlava con te, quando una tomba
    Sotto allo sguardo mi s'aperse, e ahi quale!
    Vidi io stesso fuggir rapidamente
    Dalle guance d'Elisa il solit'ostro,
    E languir gli occhi, ed un mortale affanno
    Senza posa insultar quel sen, che mai
    Sovra le ambasce altrui non fu tranquillo.
    Pur del reo morbo l'inclemenza lunga
    Rallentar parve; e già le vesti allegre
    Chiedeva Elisa, col pensiero ardito
    Del bel Novare suo l'aure campestri
    Già respirava, ed io credulo troppo
    Sperai, che seco ancor non pochi Soli
    Dietro il vago suo colle avrei sepolti.
    Oh speranze fallaci! Oh mesti Soli,
    Che ora per tutta la celeste volta
    Io con sospiri inutili accompagno!
    Foscolo, vieni, e di giacinti un nembo
    Meco spargi su lei: ravvisti a tempo
    I miei concittadin miglior riposo
    Già concedono ai morti; un proprio albergo
    Quindi aver lice anco sotterra, e a lei
    Dato è giacer sovra il suo cener solo.
    Ecco la pietra del suo nome impressa,
    Che delle madri all'ottima la grata
    Delle figlie pietà gemendo pose.
    Rendi, rendi, o mia cetra, il più soave
    Suono che in te s'asconda, e che a traverso
    Di questo marmo al fredd'orecchio forse
    Giungerà. Che diss'io? Sparì per sempre
    Quel dolce tempo, che solea cortese
    L'orecchio ella inchinare ai versi miei.
    Suon di strumento uman non v'ha che possa
    Sovra gli estinti, cui sol fia che svegli
    De' volanti dal ciel divini araldi
    Nel giorno estremo la gran tromba d'oro.
    Che sarà Elisa allor? Parte d'Elisa
    Un'erba, un fiore sarà forse, un fiore
    Che dell'Aurora a spegnersi vicina
    L'ultime bagneran roscide stille.
    Ma sotto a qual sembianza, e in quai contrade
    Dell'universo nuotino disgiunti
    Quegli atomi, ond'Elisa era composta,
    Riuniransi e torneranno Elisa.
    Chi seppe tesser pria dell'uom la tela
    Ritesserla saprà: l'eterno Mastro
    Fece assai più quando le rozze fila
    Del suo nobil lavor dal nulla trasse;
    E allor non fia per circolar di tanti
    Secoli e tanti indebolita punto,
    Nè invecchiata la man del Mastro eterno.
    Lode a lui, lode a lui sino a quel giorno.




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