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Ippolito Pindemonte
Templa serena
templa serena,
Despicere nude queas alios, passimque videre
Errare, atque viam palanteis quaerere vitae.
LUCREZIO. l. II. V. 8.
La casa, ch’io abito, s’appoggia ad una collina, la quale ha il nome di san Leonardo dalla chiesa di questo, ed abitazione già di Monaci Lateranensi, che siede su l’alto. Bella catena di colli dalla parte destra, che dagl’insulti difendono della tramontana: a sinistra, o sia a mezzogiorno, vedesi la città, ed in faccia una pianura vastissima con l’Adige per mezzo che la divide, e montagne azzurre nel fondo, dietro le quali cade il Sole, che a tergo mi sorge. Questi colli parte son coltivati, ed a maraviglia, parte, come petrosi, non possono essere. Quindi varietà di scene; scorgendosi fianchi squarciati dai lavori delle cave, e nude pendici solamente ospitali alle capre, e vicino ridentissime coste, dai festoni delle viti sino alla sommità inghirlandate, festoni che dal giallo della messe tramezzati sono: mentre in altra parte si contrappone il verde pallido degli ulivi a quello più vivo di varie maniere di piante, qua sparse, e là insieme aggruppate, molte anche adorne d’ottime frutta, come sarebbe di fichi forse non inferiori a quelli, che d’Affrica portò Catone, ed avea in Senato nel sen della toga. Tutto è poi seminato pittorescamente di biancheggianti case, alcune delle quali son nobilissime abitazioni, che rompono colla verdezza de’campi, e le masse distinguono del gran quadro.
I passeggi o son piani, e tra i molti, che ho di tal fatta, quelli primeggiano in riva all’Adige, le sponde del quale han curvità commendabilissime, per cui un sempre vario presentasi di montagne prospetto: o son diseguali, e quindi più comodi ancora secondo l’espression di Celso, che altamente loda tali passeggi; dicendo che quella varietà del salire, e discendere, muove assai meglio la nostra persona. Che se talvolta, lasciando sotto di me le vallette ed i poggi, tento il più erto del monte sino al tuo giogo, o santo Mattia, qual teatro non mi si apre allora, qual sublimità, qual varietà, qual magnificenza? Oltre i molti oggetti nuovi che s’aggiungono ai conosciuti, questi medesimi, più riuniti, vestono apparenze nuove: ma sopra tutto fa stupore veder l’Adige trasformato in alcuni laghetti sparsi qua e là nel gran seno della campagna.
Le passeggiate tra i monti vantano anche questa prerogativa; che non si torna mai per la medesima strada, benchè si torni per la strada medesima, avendo sempre gli angoli delle montagne aspetti diversi: oltre che basta la differente ora dal giorno, basta qualche nuvoletta nel cielo, che ad una porzione de’ raggi del Sole chiuda la via, a generar varietà, e a farci nuovi sembrare gli oggetti ancora più noti. E questo non so se fosse avvertito da Celso, il quale ne dice ancora, che del passeggio all’ombra torna più salubre quel sotto il Sole: ma non è ciascuno Solibus aptus, come di sè medesimo scrive Orazio. Benchè almen questo io abbia comune con Orazio, direi non pertanto esser quello il miglior passeggio, che di sole componesi e d’ombra, la qual certo non manca qui, abbondando le piante e le siepi più folte ed alte, e rigogliosissima essendo la vegetazione. Giardino alcun non è qui, benchè paja vederne uno in alcune muricce diritte e lunghe con sopravi bei filari di vigne, e la coltura del terreno intorno alla casa sia ortense più che altro: ma l’amenità del sito non lascia accorgersi di tal mancanza, ovvero direm tutto questo sito un giardino sul gusto di quelli d’Inghilterra, che si chiamano irregolari, e non sono che un’imitazione delle bellezze della natura condotte ad una perfezion maggiore. Non so per altro se maggiore ancor sia il diletto che ne risulta. Certo, quando io veggo un bello campestre, il piacer mio vien non poco accresciuto da quella rapida riflessione, che il caso accozzò insieme i diversi oggetti, onde formasi quella scena: ma se ciò, ch’io veggo, è frutto dell’arte, nutrendo noi di questa un’opinion grande, e più esigendo da lei, che dal caso, il qual pare non aver forza niuna, crederei che la scena artifiziale, benchè più bella della naturale, dovesse tuttavolta colpirci e dilettar meno.
Che che parer possa di questo, certo è che d’in cima ad una delle suddette colline spunta picciol convento abitato da otto Eremiti, che non so perchè si dicano Eremiti, otto essendo. Piuttosto io, che sto solo, son l’Eremita. È circondato da non pochi cipressi, che gli vanno piramidando intorno, e dannogli un’aria melanconica e grave, la quale combatte non senza molta grazia col ridente de’ circostanti luoghi. Vado a visitarlo, non già per consultare su qualche lavoro poetico que’ Romiti: allora là vado, che voglio scorgere un orizzonte più vasto, e pascer l’anima di que’ pensieri soavemente tristi, che un’abitazion fuor del Mondo e divota non lascia mai d’ispirare. Senza che contiene alcuni bei quadri, tra quali uno di Paolo, e due di Pasquale Ottini. È questa delle maraviglie d’Italia, che là si trovino, dove men si crederebbe, i lavori più belli delle bell’arti. Quello di Paolo non però va tra i migliori suoi: ma nobilissimi mi sembrano gli altri due. Uno è nel refettorio, e rappresenta secondo il costume una cena: l’altro nella chiesetta, ed ha una deposizione di croce. Gran robustezza di pennello, e gran forza d’espressione, nel che si distinse detto pittore, massime nella testa della Vergine e in quella di Cristo: guasta alquanto la composizione il ritratto del divoto, che ordinò il quadro, ma ritratto sì bello, che fa quasi perdonar quel difetto.
Questo Pasquale Ottini, detto anche Pasqualotto, fiorì nel principio del secol passato, e fu allievo di Felice Brusasorzi, di cui terminò vastissimo quadro nella chiesa di san Giorgio, ch’io pur visito alcuna volta, essendo la prima fabbrica che s’incontra, chi entra per questa parte in città. E già parmi d’esser tuttavia in campagna, usando presso che sola gente di contado nel detto tempio. Questo ha del venerando e del grande, e si compiace d’un’assai bella cupola del nostro celebre Sammicheli, non che di alcune eccellenti pitture, tra cui la tavola dell’altar maggiore, che vien reputata delle migliori cose di Paolo, e due gran dipinti uno di Paolo Farinato, che rappresenta il miracolo de’ pani e de’ pesci, e l’altro di Felice Brusasorzi, che la manna nel deserto, ed è quello dall’Ottini compiuto.
„Mentre con tarde ed allungate note
„Il solenne, profondo, maestoso
„Organo soffia.
„S’odan ivi del cupo organo al soffio
„Le piene voci del soggetto coro
„Rispondere in solenni alte parole
„D’antifone e di salmi, onde ne bea
„Tanta dolcezza il provocato orecchio,
„Che l’alma sciolta mi rapisca, e innanzi
„Visibilmente il ciel tutto mi porti!
„Nell’ampie ville popolose, in cui
„T’assembri, umana stirpe, il numeroso
„Organo soffi la profonda voce,
„E agli acuti temprando i bassi modi
„Le gravi pose ricrescente allunghi.
Di tali strumenti, che gl’Italiani non così pregiano come gl’Inglesi, e ch’io infinitamente amo, puoi sentirne uno in questa chiesa assai buono, e molto più grato delle voci nasali, monotone, e con lo strascico, onde recitano quelle ottime Religiose i mattutini lor salmi.
La casa, ch’è piuttosto grande, ebbe in pochissimo tempo destini diversi. Fu già de’ padri Gesuiti, che ci venivano a villeggiare, e a dare degli esercizj spirituali con quell’illuminato zelo, ch’era di loro: il celebre Bettinelli, che avea il carico delle meditazioni, scrisse qui buona parte delle sue bellissime opere. Convertiva i giovani a Dio nella chiesa, e all’arti belle e al buon gusto nella sua stanza. Appresso la tenne per alcun tempo una famiglia Inglese, che s’invaghì, passando per Verona, di queste colline: non potrebbesi dire abbastanza delle opere pie che vi fece, e delle sparse beneficenze nella parte più povera del contorno. Io stesso sentii benedirla più volte, e parlai con persone da lei provvedute di letto, di fasce pe’ loro bambini, ed anche, quel ch’è più raro ne’ gran Signori, di amorevoli e confortanti parole. In questa casa soggiornò ancora un fratello di Re, cioè il Duca di Clocester, al quale utilissima fu nell’ostinato male, che affliggevalo allora, l’aria ottima, che qui spira, e che, ripercossa da questi colli, induce nelle stanze anche ai mesi più caldi un’autunnale freschezza.
Alcuni potrebber dire, che là non si può avere il sapor vero della solitudine, donde scorgesi la città: ma mostrerebbero, così dicendo, non conoscer punto la forza de’ contrasti, e l’effetto indubitabile, che ne deriva. Parmi essere nel caso, di cui parla Lucrezio: parmi veder navi in travaglio; e non che l’altrui male mi piaccia, ma veder mi piace da questo porto cittadinesche tempeste, da cui sono in salvo. Così su le montagne più alte, e in un’aria serena e tranquilla, con diletto mi veggo radunarsi le nuvole sotto i piedi, e formarsi il fulmine e la gragnuola.
Dirò bene che non si crederebbe così vicino della città questo sito; il qual sembra piuttosto per una estension di campi vastissima con incontentabile diligenza cercato. Sien grazie al cielo, ch’ io possa qui finalmente
Nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis
Ducere sollicitæ jucunda oblivia vitæ:
ch’io possa ora contemplar la selvaggia bellezza d’un luogo alpestro e terribile, ed ora passeggiar con gli occhi la più ridente e meglio coltivata campagna; spettacolo fatto ancor più bello dal pensiero della privata e pubblica utilità. Chi può veder senza risentirsi il mieter del grano, il seccar del fieno, il pascolar della greggia? La vita pastorale e campestre ha sempre un non so che di tenero e commovente: risveglia in noi con le idee più pure e aggradevoli certo senso soave di quell’età, che si chiama dell’oro, e ci fa risonar nell’anima qualche avanzo delle languide sì, ma inestinguibili voci della natura.