Edizione Italiana
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    Leon Battista Alberti

    Protesta

    La plebe et i vulgari fiorentini vi saluta come huomini, molto generosissimi segretarii appostolici. Se i vostri studii sono, qual voi gli affermate, studii d'umanità, e sempre fu ofizio d'umanità porgersi facile e trattabile verso qualunque da lui chieggia esser fatto più costumato e più emendato in ogni sua vita, diteci: saremo noi da biasimare, se in queste lettere non peritamo domandarvi di cose da volerle sapere, quali non da altri meglio si possono che da voi intendere?

    Diteci: chi propuose questo certame coronario, in nel quale voi fusti constituiti iudici già più e più mesi, non comunicò egli (cioè messer Batista degli Alberti) con voi il suo pensiero, e parsevi che fosse cosa utile alla nostra gioventù, cosa degna alla patria nostra, cosa ancora lodata presso a tutte le genti? Se direte: «Non ci parse né degna, né lodata», guardate non siate da essere reputati levissimi presso di chi si maravigliassi onde fusse che tanto, domandati, allora la lodavate, se dentro a' vostri animi altro sentavate. E forse sarebbe chi vi giudicherebbe né buoni cittadini, né interi huomini, dove non proibisti in tempo quello che vedevi et per vostre divina sapienza conoscevi essere dannoso. Et noi certo non possiano credere vi paresse cosa da nolla volere, poiché 'nsino quando in que' prossimi dì doveano pronunziare e' certatori, voi, chiamati da chi con voi si consigliò, l'approvasti, et per vostro consiglio in publico editto, col precone e insigni publichi, si notificò al popolo. Et se a voi quanto stimiamo pur parse cosa da 'seguirla, diteci: per che cagione fu tra voi chi prima tanto in ogni modo la perturbasse, et poi tanto la vituperasse, quando il certame, più che niuno sperava, era riuscito et gratissimo al popolo e in sé degnissimo? Diteci: che cagione mosse alcuno di voi a ire disuadendo e' concertatori e amonendogli, non s'afaticassero in quello che voi e lodasti et nulla potete biasimare? Fue di questo (quello che alcuni maledici disono) cagione la 'nvidia che vi dolesse vedere in la terra nostra cittadini quali, simili a' suoi maggiori, ben meritando della sua patria curassero la fama, dignità et ben publico? O fu pure (come alcuni credono), che, udendo voi essere alcuni studiosi parati a producere in mezzo commedia, e forse tragedie, voi diliberasti proibire questa ottima principiata consuetudine, per quale la terra nostra molto ne fosse onestata, e questo solo però che voi conoscevi che tacendo eravate vituperati, e dicendo eravate scorti? O fu pure (come alcuni di voi referisce) cagione di questo non volere che simile certame si 'seguisse, ché non vi degnavate in questo modo venire al giudicio di noi huomini plebei et vulgari?

    Diteci: se in voi sta quanto noi stimiamo prudenzia et erudizione, dorrav'egli forse essere conosciuti da qualunque minimo plebeo? se vi conoscete da non poter sattisfare alle expettazioni nostre et rendervi pari alla oppinione quale abbiamo di voi come d'omini eruditissimi, onde viene che voi giudicate fanciulli e pazzi, che non solo a noi vulgari, ma et a tutti e' senatori patritii et a voi ancora satisfece, quando fra voi più che uno e un altro publicò et affermò essere tra ' certatori chi fosse da non posporlo a' primi ottimi passati poeti toscani? Se questo così vi parse, non può parervi se non ingiuria testé appellargli fanciulli e pazzi; se non vi parea da tanto lodarli, come può a noi parere questa vostra lauldazione se non levità e assentazione servile?

    Voi quanto que' poeti certatori fussero a noi grati et a tutti e' cittadini accetti lo potesti comprendere el dì del certame, se voi stesti con buona modestia attenti, sì per la moltitudine qual vi concorse, sì per la actenzione qual servorono, sì per voce e commendazione qual sino a testé ne fa il popolo, sì per lo studio di ciascuno qual cerca d'avere apresso di sé scritti tutti e' detti di qualunque concertatore, e per imparare da loro quello forse non sapevano, e per rendere questo premio alle vigilie loro, commendando i lor nomi a posterità, che infra dieci dì già sono più che dieci volte venti copie trascritte di tutto il certame, e per tutta Ytalia volano a tutti i principi, et chieste da tutti i litterati, lodate da tutti i buoni. Solo tra voi sentiamo essere chi vitupera questa principiata nostra laude, e dice essere cosa indegna che uno vulgare con uno nobilissimo literatissimo contenda, e per questo in prima doversi vietare questi certami. Nollo crediamo che tra alcuni di voi, huomini dottissimi, sia tanta ineptia, sendo in voi questo comune detto che tutti siamo da Giove, e tutti comperiamo il sale tanto l'uno quant'e l'altro; essendo comune sentenzia di tutti e' prudenti che la virtù, non la fortuna, fia quella che noi nobilita, e così il vizio fa ignominioso in cui e' sia. E se pur fusse chi perseverasse vituperandolo, il domanderemo se questo fu usato costume sempre presso agli antichi, quali voi tanto proponete et aprovate in ogni fatto e detto, che nulla altro può non dispiacervi se non quanto e' sente dell'antico. E domanderemo se in que' tempi si trovarono huomini generosi, huomini dotti, et vuomini che avessono l'orecchie delicatissime pari a voi. Et domanderemo se, quando Plauto venia in scena tutto polveroso e colle mani callose, que' principi latini lo fastidiavano, se a que' patricii stomacava l'odore del pristino in quale quel poeta se exercitava per pascersi. Et se sarà in la terra nostra chi con gesti gravissimi risponda sé essere simili a quelli censori e moderatori delle legge e d'ogni relegione, noi con ogni reverenza pregherremo ci dica qual prestanza lo faccia, in quello di che e' fa professione, dissimile a que' maggiori tanto da sé lodati. E diremo: qual tuo studio d'umanità, o huomo, t'insegna tanto fastidire chi si dia alle virtù, alle cose grate a' suoi cittadini, alle quali cose noi altri, pure vuomini come voi, diventiamo più dotti e più atti a ben vivere? Quanti sono fra noi, per opera di questi concertatori, che ora sanno che prima non sapevano che cosa sia amicizia? quanti saranno fra ' nostri nipoti e posteri quinci fatti in questo più dotti? E diteci, priegovi, o huomini excellentissimi: duolv'egli che noi ora intendiamo questa parte di filosofia, la quale non intendavamo? Se risponderete: «Duolci», vi reputeremo invidiosi e pessimi cittadini; se risponderete: «A noi piace», domanderemo: «Perché vietasti voi tanta nostra utilità e vostro piacere?» Et chi non odiasse il fastidio di chi pure affermasse non esser lecito a un prebeo concorrere a questi certami? Ditemi: s'egli è in quel certame astile pericolosissimo licito a qualunque infimo acorrere in mezzo, e certando percuotere, aterrare e fugare di vita qual vuoi primario e nobilissimo contrastatore, sarae vietato in simile luogo publico a noi altri comparire dove voi dotti convenisti? saracci proibito il favellare quando altrove sia licito uccidere? saracci egli interdetto mostrare il nostro ingegno, dove sieno allettati con premio tutti gl'ingegnosi? ché direte brutta esser cosa che uno imperito venga in mezzo ridicolo della scena, se vedesti non rarissimo armato chi venne per certare e partissi empiuto l'elmo della cena passata? Fu però che 'l certame astile sia per questo da vituperallo? Et fra voi si dice che tanto premio, degno di coronare e' sommi et ottimi poeti, troppo sarebbe indegno premio a noi vulgari. Diteci: se lo meritasse, non faresti voi ingiuria a nollo contribuire? se nollo meritasse, derestigliel voi? Quale inetto stimasse sé essere coronato in quel certame astile, perché e' superò chi in cosa niuna fu degno d'amirazione? Così in questo certame coronario: come non era non licito a qualunque convenirvi, così era degno premiare chi superasse e' migliori; né sappiamo come in questo e' dotti et litterati possino essere certando inferiori a chi sia imperito e vulgare, se in queste vostre lettere sta tanta forza ad esornare ogni ingegno. E più, se Orfeo, Museo, Omero, Virgilio, Ovidio, Stazio, et ancora el vostro Appolline fusse in questa età e trovassero quello poeta concertatore qual vinse coronato, da che parte biasimerebbono essi chi l'avesse coronato? Se dicessero: «Questa, sì perch'ell'è corona, e perch'ell'è d'alloro, si disdice»; qui se voi, huomini facondissimi, fussi elingui et muti, noi vulgari loro per voi risponderemo: «E per che cagione fia la corona proprio vostro insigne, quale sia comune insieme alle meretrici? Se l'alloro fa voi essere poeti, ancora fieno le salsicce poetesse!» Fu costui coronato perché fra ' poeti fu in quel certame suppremo, et assai fu ottimo chi superò e' buoni; et voi, in questo, inferiori fusti agl'infimi e pessimi poeti tacendo. Già che, se chi scrive si chiama scrittore, e chi canta cantatore, et chi ara aratore, chi fa poemi fia non poeta più che chi tacendo, o solo biasimando gli altri, voglia essere reputato poeta e principe de' poeti? Ma fue mai che corona donata da qual si sia magistrato o popolo fosse altro che o segno di vittoria o premio alle fatiche? Donavansi dopo al conflitto a qual vuoi huomo militare, a' servi, secondo e' loro meriti, corone civica, murale, castrense, navale et simili, e d'ariento, e d'oro, e gemmate, secondo parea alla liberalità di chi distribuiva e' premii. Simile a' poeti. Et a qualunque certame palestrico era la corona segno di vittoria insieme e premio delle fatiche. Et chi dicesse una e un'altra libra d'argento troppo essere premio alle fatiche di qualunque studioso? Qual di costoro certatori, mentre che si exercitò in questo certame, non pospose ogni sua privata cura e domestica faccenda? Qual di loro non expuose più et più vigilie in elimare e esornare suo poemi? Se in voi sono ingegni divini, e potete estempore e subito produrre ottimi vostri poemi, meritate biasimo ché non convenisti dove senza dificultà potavate aonestare simile principiata consuetudine in la patria nostra, qual da voi era stata troppo commendata. Se conoscesti non si potea, senza molta e molta fatica, produrre in mezzo opera d'ingegno quale meriti in tanta conzione di huomini prestantissimi (quale concorse a questo spettaculo) essere ascoltata, sarà, crediamo, ingiuria la vostra, se alle summe fatiche di questi studiosi così negarete uno meno che mediocre premio. E diteci: a cavagli corridori si darà premio più libbre d'oro: a questi huomini onestissimi non si retribuiranno poche once d'argento? E se tanto in voi può la consuetudine, che a una bestia insensata si conceda premio pari a una ricchezza d'uno onesto cittadino, dovete non vietare questa ordita consuetudine alla patria vostra e a' vostri studiosi cittadini, ché a chi se esercita in virtù, pari si referisca premio douto a sua industria. Et se pure affermassi che veruno meritava fra questi concertatori tanto segno di prestantissima lode et che tutte furono cose puerili, non ardiremo non assentirvi et aquiescere al vostro iudizio, huomini gravissimi; ma dorremoci se forse voi volessi da questa nostra età quello non volsero quelli antichi dalla loro. Prima che la lingua latina fosse, quanto ella poi fu, culta, essi stettono contenti a que' primi poeti quali essi aveano forse ingegnosi, ma con poca arte. Così i poeti odierni potranno dirvi: «E noi per che cagione non vi satisfacciamo, faccendo quanto a noi fra studio e dottrina?» Se a voi pare meglio poter dire che quegli che certano, ché non exponete voi in mezzo vostra dottrina et perizia? Spregiate voi el premio qual voi affermate esser troppo grande e degno di coronare chi sia simile a voi eruditissimo? Fastidiav'egli favellare quella lingua qual favellorono e' vostri padri e avoli? Quali, se furono nobilissimi, quale aroganza sarà questa di chi, vituperando noi ch'abbiamo lingua simile a loro, vituperi insieme in questo ancora loro? se furono forse ignobili, chi sarà di voi da udirlo, quando e' dica non poter patire d'essere veduto in ceto fra ' plebei? Forse direte: «La nobilità nostra di noi litterati sta in cosa stabile, in la virtù e cognizione di molte ottime cose». Lodianvi et assentianvi così essere. Ma diteci: quale infortunio sarae a' mortali la povertà, se altri, niuno che solo e' fortunati.




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