Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Ludovico Ariosto

    Satira I

    A Messer Alessandro Ariosto et a Messer Ludovico da Bagno.


    Io desidero intendere da voi,
    Alessandro fratel, compar mio Bagno,
    s’in corte è ricordanza più di noi;

    se più il signor me accusa; se compagno
    per me si lieva e dice la cagione
    per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

    o, tutti dotti ne la adulazione
    (l’arte che più tra noi si studia e cole),
    l’aiutate a biasmarme oltra ragione.

    Pazzo chi al suo signor contradir vole,
    se ben dicesse c’ha veduto il giorno
    pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

    O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno,
    di varie voci subito un concento
    s’ode accordar di quanti n’ha dintorno;

    e chi non ha per umiltà ardimento
    la bocca aprir, con tutto il viso applaude
    e par che voglia dir: «anch’io consento».

    Ma se in altro biasmarme, almen dar laude
    dovete che, volendo io rimanere,
    lo dissi a viso aperto e non con fraude.

    Dissi molte ragioni, e tutte vere,
    de le quali per sé sola ciascuna
    esser mi dovea degna di

    Prima la vita, a cui poche o nessuna
    cosa ho da preferir, che far più breve
    non voglio che ’l ciel voglia o la Fortuna.

    Ogni alterazione, ancor che leve,
    ch’avesse il mal ch’io sento, o ne morei,
    o il Valentino e il Postumo errar deve.

    Oltra che ’l dicano essi, io meglio i miei
    casi de ogni altro intendo; e quai compensi
    mi siano utili so, so quai son rei.

    So mia natura come mal conviensi
    co’ freddi verni; e costà sotto il polo
    gli avete voi più che in Italia intensi.

    E non mi nocerebbe il freddo solo;
    ma il caldo de le stuffe, c’ho sì infesto,
    che più che da la peste me gli involo.

    Né il verno altrove s’abita in cotesto
    paese: vi si mangia, giuoca e bee,
    e vi si dorme e vi si fa anco il resto.

    Che quindi vien, come sorbir si dee
    l’aria che tien sempre in travaglio il fiato
    de le montagne prossime Rifee?

    Dal vapor che, dal stomaco elevato,
    fa catarro alla testa e cala al petto,
    mi rimarei una notte soffocato.

    E il vin fumoso, a me vie più interdetto
    che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna,
    e sacrilegio è non ber molto e schietto.

    Tutti li cibi sono con pepe e canna
    di amomo e d’altri aròmati, che tutti
    come nocivi il medico mi danna.

    Qui mi potreste dir ch’io avrei ridutti,
    dove sotto il camin sedria al foco,
    né piei, né ascelle odorerei, né rutti;

    e le vivande condiriemi il cuoco
    come io volessi, et inacquarmi il vino
    potre’ a mia posta, e nulla berne o poco.

    Dunque voi altri insieme, io dal matino
    alla sera starei solo alla cella,
    solo alla mensa come un certosino?

    Bisognerieno pentole e vasella
    da cucina e da camera, e dotarme
    di masserizie qual sposa novella.

    Se separatamente cucinarme
    vorà mastro Pasino una o due volte,
    quattro e sei mi farà il viso da l’arme.

    S’io vorò de le cose ch’avrà tolte
    Francesco di Siver per la famiglia,
    potrò matina e sera averne molte.

    S’io dirò: «Spenditor, questo mi piglia,
    che l’umido cervel poco notrisce;
    questo no, che ’l catar troppo assottiglia»

    per una volta o due che me ubidisce,
    quattro e sei mi si scorda, o, perché teme
    che non gli sia accettato, non ardisce.

    Io mi riduco al pane; e quindi freme
    la colera; cagion che alli dui motti
    gli amici et io siamo a contesa insieme.

    Mi potreste anco dir: «De li tuoi scotti
    fa che ’l tuo fante comprator ti sia;
    mangia i tuoi polli alli tua alari cotti».

    Io, per la mala servitude mia,
    non ho dal Cardinale ancora tanto
    ch’io possa fare in corte l’osteria.

    Apollo, tua mercé, tua mercé, santo
    collegio de le Muse, io non possiedo
    tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

    «Oh! il signor t’ha dato...» io ve ’l conciedo,
    tanto che fatto m’ho più d’un mantello;
    ma che m’abbia per voi dato non credo.

    Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello
    voglio anco, e i versi miei posso a mia posta
    mandare al Culiseo per lo sugello.

    Non vuol che laude sua da me composta
    per opra degna di mercé si pona;
    di mercé degno è l’ir correndo in posta.

    A chi nel Barco e in villa il segue, dona,
    a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi
    nel pozzo per la sera in fresco a nona;

    vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi
    se levino a far chiodi, sì che spesso
    col torchio in mano addormentato caschi.

    S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
    dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio;
    più grato fòra essergli stato appresso.

    E se in cancellaria m’ha fatto socio
    a Melan del Constabil, sì c’ho il terzo
    di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio,

    gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo
    mutando bestie e guide, e corro in fretta
    per monti e balze, e con la morte scherzo.

    Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta
    con la lira in un cesso, e una arte impara,
    se beneficii vuoi, che sia più accetta.

    Ma tosto che n’hai, pensa che la cara
    tua libertà non meno abbi perduta
    che se giocata te l’avessi a zara;

    e che mai più, se ben alla canuta
    età vivi e viva egli di Nestorre,
    questa condizïon non ti si muta.

    E se disegni mai tal nodo sciorre,
    buon patto avrai, se con amore e pace
    quel che t’ha dato si vorà ritorre.

    A me, per esser stato contumace
    di non voler Agria veder né Buda,
    che si ritoglia il suo sì non mi spiace

    (se ben le miglior penne che avea in muda
    rimesse, e tutte, mi tarpasse), come
    che da l’amor e grazia sua mi escluda,

    che senza fede e senza amor mi nome,
    e che dimostri con parole e cenni
    che in odio e che in dispetto abbia il mio nome.

    E questo fu cagion ch’io me ritenni
    di non gli comparire inanzi mai,
    dal dì che indarno ad escusar mi vienni.

    Ruggier, se alla progenie tua mi fai
    sì poco grato, e nulla mi prevaglio
    che li alti gesti e tuo valor cantai,

    che debbio far io qui, poi ch’io non vaglio
    smembrar su la forcina in aria starne,
    né so a sparvier, né a can metter guinzaglio?

    Non feci mai tai cose e non so farne:
    alli usatti, alli spron, perch’io son grande,
    non mi posso adattar per porne o trarne.

    Io non ho molto gusto di vivande,
    che scalco io sia; fui degno essere al mondo
    quando viveano gli uomini di giande.

    Non vo’ il conto di man tòrre a Gismondo;
    andar più a Roma in posta non accade
    a placar la grande ira di Secondo;

    e quando accadesse anco, in questa etade,
    col mal ch’ebbe principio allora forse,
    non si convien più correr per le strade.

    Se far cotai servigi e raro tòrse
    di sua presenza de’ chi d’oro ha sete,
    e stargli come Artofilace all’Orse;

    più tosto che arricchir, voglio quïete:
    più tosto che occuparmi in altra cura,
    sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

    Il qual, se al corpo non può dar pastura,
    lo dà alla mente con sì nobil ésca,
    che merta di non star senza cultura.

    Fa che la povertà meno m’incresca,
    e fa che la ricchezza sì non ami
    che di mia libertà per suo amor esca;

    quel ch’io non spero aver, fa ch’io non brami,
    che né sdegno né invidia me consumi
    perché Marone o Celio il signor chiami;

    ch’io non aspetto a mezza estade i lumi
    per esser col signor veduto a cena,
    ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;

    ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
    il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
    le bisaccie gli attacco su la schiena.

    E credo che sia questo minor fallo
    che di farmi pagar, s’io raccomando
    al principe la causa d’un vasallo;

    o mover liti in benefici, quando
    ragion non v’abbia, e facciami i pievani
    ad offerir pension venir pregando.

    Anco fa che al ciel levo ambe le mani,
    ch’abito in casa mia commodamente,
    voglia tra cittadini o tra villani;

    e che nei ben paterni il rimanente
    del viver mio, senza imparar nova arte,
    posso, e senza rossor, far, di mia gente.

    Ma perché cinque soldi da pagarte,
    tu che noti, non ho, rimetter voglio
    la mia favola al loco onde si parte.

    Aver cagion di non venir mi doglio:
    detto ho la prima, e s’io vuo’ l’altre dire,
    né questo basterà né un altro foglio.

    Pur ne dirò anco un’altra: che patire
    non debbo che, levato ogni sostegno,
    casa nostra in ruina abbia a venire.

    De cinque che noi siàn, Carlo è nel regno
    onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro,
    e di starvi alcun tempo fa disegno;

    Galasso vuol ne la città di Evandro
    por la camicia sopra la guarnaccia;
    e tu sei col signore ito, Alessandro.

    Ecci Gabriel; ma che vuoi tu ch’ei faccia?
    che da fanciullo la sua mala sorte
    lo impedì de li piedi e de le braccia.

    Egli non fu né in piazza mai, né in corte,
    et a chi vuol ben reggere una casa
    questo si può comprendere che importe.

    Alla quinta sorella che rimasa
    n’era, bisogna apparecchiar la dote,
    che le siàn debitori, or che se accasa.

    L’età di nostra matre mi percuote
    di pietà il core; che da tutti un tratto
    senza infamia lasciata esser non puote.

    Io son de dieci il primo, e vecchio fatto
    di quarantaquattro anni, e il capo calvo
    da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.

    La vita che mi avanza me la salvo
    meglio ch’io so: ma tu che diciotto anni
    dopo me t’indugiasti a uscir de l’alvo,

    gli Ongari a veder torna e gli Alemanni,
    per freddo e caldo segui il signor nostro,
    servi per amendua, rifà i miei danni.

    Il qual se vuol di calamo et inchiostro
    di me servirsi, e non mi tòr da bomba,
    digli: «Signore, il mio fratello è vostro».

    Io, stando qui, farò con chiara tromba
    il suo nome sonar forse tanto alto
    che tanto mai non si levò colomba.

    A Filo, a Cento, in Arïano, a Calto
    arriverei, ma non sin al Danubbio,
    ch’io non ho piei gagliardi a sì gran salto.

    Ma se a voglier di novo avessi al subbio
    li quindici anni che in servirlo ho spesi,
    passar la Tana ancor non starei in dubbio.

    Se avermi dato onde ogni quattro mesi
    ho venticinque scudi, né sì fermi
    che molte volte non mi sien contesi,

    mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
    ubligarmi ch’io sudi e tremi senza
    rispetto alcun, ch’io moia o ch’io me ’nfermi,

    non gli lasciate aver questa credenza;
    ditegli che più tosto ch’esser servo
    torrò la povertade in pazïenza.

    Uno asino fu già, ch’ogni osso e nervo
    mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto
    del muro, ove di grano era uno acervo;

    e tanto ne mangiò, che l’epa sotto
    si fece più d’una gran botte grossa
    fin che fu sazio, e non però di botto.

    Temendo poi che gli sien péste l’ossa,
    si sforza di tornar dove entrato era,
    ma par che ’l buco più capir nol possa.

    Mentre s’affanna, e uscire indarno spera,
    gli disse un topolino: «Se vuoi quinci
    uscir, tràtti; compar, quella panciera:

    a vomitar bisogna che cominci
    ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
    altrimenti quel buco mai non vinci».

    Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
    Cardinal comperato avermi stima
    con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

    renderli, e tòr la libertà mia prima.




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