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Luigi Alamanni
Favola di Narciso
Alma mia Pianta, in le cui belle fronde
Mille chiare virtù s'han fatto nido,
Là dove a l'ombre notte, e dì s'asconde
Senno e valor quasi in suo albergo fido,
Per cui più d'altre di Liguria l'onde
Udiran sopra 'l ciel volare 'l grido,
Tal che colmi vedrem d'invidia e duolo
L'Atlante e il Gange, e l'uno e l'altro polo;
Come saggia parlar v'od'io talora
Di quanto a bene oprar fra noi conviene!
Come sia fral, come caduca l'ora
D'esta vita mortal, che fè non tiene!
E chi fortuna, e i suoi seguaci adora
Null'altro cerchi, che travagli, e pene!
E quel, che dolce appar, ch'a molti è caro,
Altro non sia, ch'un lungo pianto amaro!
Ond'io, che 'l ver da le più chiare note
Che mai formasse 'l ciel tra me comprendo;
Quanto m'allegro! ma del cor si scuote
Ogni dolcezza, quando poscia intendo
Da voi biasmar colui, che tutto puote,
Colui dentro 'l cui sen divoto rendo
Le mie rime, i pensier, la mente, e 'l core,
Padre del terzo ciel chiamato Amore.
Nè pur mi duol che s'allontani al vero
Spirto sì vago, e sì leggiadro ingegno,
Come l'udir quel santo nome altero
Da voi spregiar de l'amoroso regno.
Dopo un lungo soffrir crucioso e fero,
Temo, che a disfogar suo giusto sdegno
Non faccia ancor di voi sì fatto scempio,
Ch'esser deggiate a tutte l'altre esempio.
Non è senno a schernir virtù celeste,
E men quella d'amor, che tanto vale.
Quante han già pianto dolorose e meste,
Tardi onorando il sacrosanto strale!
Stannosi in parte le sue fiamme preste,
Ove arrivar non può vista mortale,
E tal che più lontane aver le crede,
Solo in un punto nel suo cor le vede.
Nè cosa è più crudel che la vendetta
Che porge amor de le sue torte offese:
Non pur annoda i cor, gli arde, e saetta
Senza nulla curar d'arme o difese;
Ma quel, che sopra ogni uom pasce e diletta,
E più si brama aver piano e cortese,
Con lo impiombato stral lo punge in loco,
Ch'è tanto ghiaccio, quanto l'altro è foco.
E chi narrar di ciò volesse esempi,
Stancar potrebbe mille penne, e mille
Quanti son casi dolorosi ed empi
Nati in le strane, e le propinque ville?
Quante ne' nostri, e ne gli antichi tempi
Hanno Fedra compagne, Dido, e Fille?
Quante la bella Enon, che pur temea?
Quante Ariadna, Issifile, e Medea?
E ciascuna di lor, se 'l vero appare,
Ebbe amor prima, e le sue fiamme a scherno,
Fin che la primavera in piogge amare
Vider conversa, e 'n tempestoso verno.
Febo a cui vive 'l ciel la terra il mare,
Febo il rettor del divino occhio eterno,
Ben sa per prova quanto danno acerbo
Senta chi contra amor sen va superbo.
Ma chi far ne potria più fede al vero,
Che 'l bel figliuol, che di Cefiso nacque?
Che quanto ad altri fu sdegnoso e fero,
Tanto poi troppo a se medesmo piacque?
Però ch'amor, sotto 'l cui giusto impero
Sempre superbia, e crudeltà dispiacque,
Quanto più grave l'altrui fallo intende
Tanto aspra più la sua vendetta prende.
Non formò forse mai l'alma natura
Leggiadria tanta, nè beltà sì rara,
Quanto in Narcisso, che la fama oscura;
State d'amor fin a quel dì rubelle,
Mirando 'l volto e le sembianze oneste
Da tor dal corso suo l'onde e le stelle,
Si sentivan cangiar a dramma a dramma,
Fin che eran tutte in amorosa fiamma.
Ei sì crudel, come leggiadro, e bello,
Tutte avea sempre duramente a schivo;
Nè d'alto monte mai fuggì ruscello,
Com'egli amor d'ogni dolcezza privo.
Dicean le Ninfe: ah dispietato e fello
Aspe affocato al lungo giorno estivo,
Deh perchè in noi la tua beltà non viene
O nel tuo cor queste amorose pene?
Quante voci spargean, quanti sospiri,
Quante lagrime invan l'afflitte amanti!
Or la fortuna or gli aspri suoi desiri
Givan biasmando per le selve erranti.
E 'l giorno ancor, che 'n sì soavi giri
Vinte restar da due bei lumi santi,
E 'l ciel, che 'n sì bei fior, sì belle rose,
Verme così crudel nel mondo ascose.
Ahi pigro amor, diceano, ov'ora è l'arco
Giusto vendicator de gl'altrui torti?
Come sostien che nel tuo santo varco
L'iniquo cacciator seco riporti
Tanto alte prede! e che di spoglie carco
De' semplicetti cor non bene accorti
Superbo vada, non pur sciolto sempre,
Dispregiator de l'amorose tempre?
Nell'avversario tuo l'ira trabocchi,
Se mai fu mossa per preghiere oneste.
Qual fia domanda che 'l tuo sdegno tocchi
Per alcun tempo, se nol toccan queste?
Quale ha col lume sol de' suo' begli occhi
In mille cor mille sue fiamme deste,
Cotal s'avvampi di se stesso almeno,
Che 'l duol posto in altrui si porti in seno.
Deh quell'alto valor ch'Apollo, e Giove
Vinse sovente, e 'l bellicoso Marte,
Ha così gli occhi suoi rivolti altrove,
Noi qui lasciando in solitaria parte.
Or se nulla pietà ver noi ti move
Di tante voci lagrimando sparte:
Almen ti muova, o neghittoso Amore,
Dell'alto regno tuo l'antico onore.
S'andrà schernendo il giovinetto altero
Senz'altra pena l'amoroso foco:
Chi sarà poi che 'l tuo schernito impero
Voto d'ogni timor non prende in gioco?
Gli stral che 'n terra e 'n ciel tai prove fero,
Del primo onor mancando a poco a poco,
Ti mostreran quanta vergogna aspetta
Chi degli oltraggi suoi non fa vendetta.
Cotal sempre dicean per valli, e monti
Le miserelle a' sordi venti e al cielo,
Conversi gli occhi in lagrimose fonti,
Quasi schivando il suo terrestre velo;
Indi bagnate le dogliose fronti
Quali erbe erose dal notturno gelo,
Sen gìano a ricercar colui, che solo
Dava cagion dell'angoscioso duolo.
Più d'una fu, ch'a seguitarlo intesa,
Di ritrovarlo poi, lassa temea;
L'alma da lunge in alta fiamma accesa,
Ghiaccio e timor da presso la premea;
Così sempre sentia novella offesa
Ovunque il piede, ovunque il core avea,
Affermando in amor con certa prova
Come l'amaro ancide, e 'l ben non giova.
Più d'una fu ne la gran turba a cui
Somma disperazion diede speranza;
E di parlar pietosamente a lui,
Onde a morte correa, prese baldanza,
Nel cor parlando: poi che d'altri fui,
Altro che sospirar nulla m'avanza,
Ma se tutto 'l mio mal comprendo bene,
Non da lui no, ma da me stessa viene.
Che colpa sua, se a me medesma manco,
Nè mi so procacciar la mia salute?
Forse non vede il mio piagato fianco?
Forse non sa le lunghe doglie avute?
Io pur piangendo di narrar mi stanco
A le piagge, a le valli, a l'aure mute
Le mie fatiche e 'l mio dolor discopro,
Ed a chi può sanar lo taccio, e copro.
Così parlando e lagrimando in parte
L'orme seguia del fuggitivo amante,
Pensando i preghi; le parole, e l'arte
Con cui venisse al suo Signore innante,
Tutto in se ripetendo a parte a parte
Questo dopo dirà questo altro avante,
Or in questo or in quel la mente piega,
E questo e quel in un conferma, e nega.
Ma se venia ne la presenza poi
Del giovinetto vie più bel che pio,
Le speranze, i disegni, i detti suoi
In un momento avea posti in obblio.
Sol dicea seco; Amor, che tutto puoi,
Perchè 'l suo duro cor, com'ora il mio,
Non pugni, e scaldi? e perchè, lassa! almeno
Parte dei miei desir non porta in seno?
E se ciò far non vuoi, perchè non presti
Giusta baldanza a la mia lingua, Amore,
Ond'io narrando le mie fiamme, desti
Qualche pietà nel dispietato core?
Son però nati i santi lumi onesti
Solo ad esser quaggiù morte, e dolore.
Di quante Ninfe a queste valli intorno
Posson mirar d'alto splendore adorno.
E così quel, ch'altrui volea scoprire
A se medesma dir l'osava a pena;
Ed a tal ghiaccio si sentia venire,
Ch'era di tema, e maraviglia piena.
Altro non sa, che tutta impallidire,
Altro non sa, che rallungar sua pena,
Altro lassa non sa, che starsi muta
Pur aspettando in van s'altri l'aiuta.
Ma troppo tempo e vanamente aspetta
Colui, ch'amando altrui soccorso attende,
Ma non sapea la bella turba eletta
Eseguir quel, che tanti petti incende,
E senza tema aver d'altra vendetta,
Mercè d'affanni a' suoi soggetti rende;
E restando di gelo, arde ogni loco
Qual fredda pietra che fuor manda fuoco.
Era in la schiera che 'l suo mal seguiva
Eco d'ogni altra più famosa, e bella,
Fuor solamente, ch'era un tempo priva
De la sua natural dolce favella,
Sì che indarno a parlar la bocca apriva:
Tal suo destino, e tal sua fera stella,
Che 'l largo don che già le fè natura
L'ira soverchia altrui le cangia, e fura.
Però ch'un dì l'alta sorella e sposa
Del gran padre del ciel, santa Giunone,
Del suo marito allor fatta gelosa
Più che ancor fosse, e ben n'avea ragione,
Lui ricercando, in una valle ombrosa
Eco trovò, ch'al suo cammin s'oppone,
E spiando chi fosse, e dove vada,
Molto col suo parlar la tenne a bada.
Tanto la tenne, che l'ascoso Giove
Ch'ivi non lunge i suoi diletti avea,
Rivolse i passi chetamente altrove
L'altra celando, che con lui giacea;
Ma troppo saggia per l'antiche prove,
Tosto s'accorse la schernita Dea
Che 'l suo lungo parlar copriva inganno,
Proponendo che in lei cadesse 'l danno.
E disse: o Ninfa, perchè 'l mondo impare
A non beffar quaggiù divino impero,
Il non poter mai più per te parlare
Sia penitenza al folle tuo pensiero:
E perchè col più dir quinci tardare
Non possa alcun, del ragionare intero
Or t'ho privata, e ti concedo sole
Il replicar l'estreme altrui parole.
Così dicendo, tutta irata volse
Per un altro sentier veloce il piede.
La misera Eco lagrimando duolse,
Poichè sdegnosa contra a se la vede.
Più volte indarno a' santi piè s'avvolse,
Le labbra aprendo a domandar mercede,
E volea molto dir; ma disse sole
Piangendo pur l'estreme altrui parole.
Oh quanta doglia in se medesma sente,
Poi che al lungo voler la forza manca!
Del suo grave fallir tardi si pente,
E di tema e vergogna arrossa e 'mbianca:
Tornale pur la prima voce in mente,
Che mai non fu di ben parlare stanca,
E non sa come andar là dove sia
De l'altre sue l'amata compagnia.
Muove fuggendo ogni uom gl'infermi passi,
Cercando intenta solitario loco;
Per valli ombrose, tra montagne e sassi
Va consumando i giorni a poco a poco;
Le membra afflitte, e i gravi spirti lassi
Ogni aspra morte prenderiano in gioco;
Tacendo vive, e di dolor si pasce,
Seco invidia portando a chi non nasce.
Avvenne pur, che 'l suo destino un giorno
Costei piangendo inchiuso calle addusse,
Là dove nulla si scernea d'intorno,
Villa, o pastor, ch'a disturbarla fusse;
Ma 'l sentir risuonar da lunge un corno,
D'odiosa compagnia tema l'indusse,
E per indi fuggir mosse veloce,
Pure accoppiando al suon l'ultima voce.
Presta già di partir, dal fianco scorse
Vicin venirsi il giovinetto altero;
Nè pria la vista ne' dolci occhi porse,
Che si sentì scaldar dentro il pensiero.
Resta in se stessa di fuggirsi in forse,
Pensando pur se sia fantasma o vero
Che gli appresenti i bei sembianti, e 'l viso
De l'onorata pianta di Cefiso.
Ben veduto l'avea più volte altrove,
Ma non sì vago, e sì leggiadro in vista,
Il piccol passo lungamente muove
Quasi del suo partir pentita e trista:
Amor, che nel suo cor fiammelle piove,
E l'ha descritta in l'amorosa lista
Del cominciato suo sentier la piega
E mal suo grado il dipartir le nega.
O misera Eco, che al tuo scampo vale
Del perduto parlar tristezza, e doglia?
Or vieppiù che di te, d'altrui ti cale,
Or nuovo altro desir la mente addoglia.
Se in un sol punto l'amoroso strale
Di sì negri pensier l'anime spoglia,
Qual maraviglia sia, se più dolore
Che esiglio e povertà mi porta Amore?
Restasi adunque e tacita e pensosa
Del suo Narcisso seguitando l'orme:
Quante fïate di parlar bramosa
Richiede al ciel le sue mancate forme!
Mostrando in atto la sua fiamma ascosa,
Cerca destar quella pietà, che dorme,
Anzi è sepolta in fredda pietra e dura
Che non del ciel, nè d'altra cosa cura.
Ne' dolenti occhi, e ne' sembianti appare
Quel che mostrar non puon le sue parole;
Prega d'udir di lui le note chiare
Per iterarne il suon com'ella suole.
Ah come gli sarian soavi e care,
Se contenesse il fin quel ch'a lei duole!
Non poter nel principio dire a lui;
E fra se dice pur: che son? che fui?
Da' suoi compagni d'una damma il corso
Lunge portato avea Narcisso un giorno.
Costei, quasi al suo gir fido soccorso,
Seguiva ascosa il giovinetto adorno,
Sempre guardando se 'l cinghiale o l'orso
Al suo caro tesor vedesse intorno;
Che l'acerbo morir del bello Adone
Le dava di temer giusta cagione.
Di vista uscita la corrente fera
Lasciò smarrito il vago cacciatore;
Che vedendosi sol vicino a sera,
Fu d'ira, di dolor colmo e d'orrore,
Con voci spesse la lasciata schiera
Chiama, che 'l tragga da la selva fuore:
E qualor le dicea veloce vieni;
Eco a lui rispondea: veloce vieni.
Questo e molt'altro a' suoi compagni disse,
A cui sempre Eco tal risposta fea;
E non scorgendo onde quel sonno uscisse,
Più che ancor tema, e maraviglia avea;
E le luci tenendo in l'ombra fisse,
Perchè teco non son? talor dicea
Ella che questo pur sospira e brama,
Perchè teco non son? risponde e chiama.
Quinci prendendo misera speranza
A gli ardenti desiri sciolse il freno;
E tale al suo voler diede baldanza,
Che a lui ricorse lagrimando in seno,
E la sua doglia, che ogni doglia avanza
Cerca in caldi sospir mostrargli appieno:
E talor benchè timida e tremante
Pur tocca il volto al fuggitivo amante.
Ei più selvaggio assai che damma o cervo
Che vicin senta i can seguir la traccia,
Con più furor che stral possente nervo
L'innamorata ninfa indi discaccia.
Pria mi diventi polve ogni osso e nervo,
Dice 'l crudel, ch'io sia ne le tue braccia,
Gli occhi addoppiando in mille parti l'onde
Ch'io sia ne le tue braccia Eco risponde.
E 'n tal vergogna e 'n tal disdegno sale
Che qual fera cacciata si rimbosca;
Odia se stessa e chi la 'ndusse a tale,
Fugge il seren cercando l'aria fosca;
Più di morir che di restar le cale
Là ve sterpo pur sia che la conosca:
Ovunque asconda il volto, ovunque mire
Ode un che biasma l'impudico ardire.
Ridotta alfin dentr'una cava oscura
Ragiona nel pensier con queste note:
O qual tu sia che qui del mondo hai cura,
Deh se giusto pregar niente puote,
Questo impio cui sì bel formò natura,
Ch'ogni dolcezza dal suo petto scuote,
Poichè quante ha fra noi d'amor gli spiace,
Ami se stesso almen, nè viva in pace.
E me qui nata a trista doglia e scherno,
Signor, conduci al destinato fine;
Il mio grave martir non viva eterno,
Se mai concesse fur grazie divine:
Trai questo cor da l'amoroso Inferno,
Là dove senza fior sol trovo spine.
Il morir giovinetta è dolce sorte
A chi vita sostien peggior che morte.
Tal ragionando nel piagato core
Diede il ciel di pietà non dubbio segno:
Sente le membra il nutritivo umore
Lasciar, si come foglia arido legno;
Di gel vestirsi il natural calore
Sente il bel corpo di durezza pregno,
Sente ch'a parte a parte agghiaccia e 'mpetra,
Sentesi convertita in fredda pietra.
Lasciolle viva il ciel l'antica voce,
Onde può geminar l'altrui parole;
Nullo dentro desir la punge, e cuoce,
Stassi soletta, e non s'allegra o duole;
Ma 'l fero Amor, che, se ben tardi, nuoce,
Le ingiuste offese perdonar non suole.
Tutto sdegnoso loco e tempo aspetta
Per far d'ogni altro e poi di se vendetta.
Scaldava il sol di mezzogiorno l'arco
Nel dorso del lion suo albergo caro:
Sotto il boschetto più di frondi carco
Dormia 'l pastor con le sue greggi a paro.
Giaceva il villanel dall'opra scarco
Vie più di posa che di spighe avaro.
Gli augei, le fere, ogni uom s'asconde e tace,
Sol la cicala non si sente in pace.
Il bel Narciso di cacciar già lasso,
Vinto dal caldo e dal cammino stanco,
Cerca ove riposarsi a passo a passo
Or nel suo destro or nel sinistro fianco:
Dentro la valle al fin di vivo sasso
Vide uscir onda di cui forse unquanco
Vide nè Febo nè Diana tale,
Non che ninfa o pastor tra noi mortale.
Questa non lunge un chiuso fonte ombroso
Di pietra natural nel sen ritiene,
A le fere, agli augelli, a i greggi ascoso,
Nè bifolco o pastor lì presso viene.
Tutto è d'intorno vagamente erboso;
E da i raggi del Sol difeso il tiene
Il natio speco che ricopre l'onda,
Che secco ramo non la turbi o fronda.
Popoli, lauri, e verdi piante altere
Fan ricca intorno la riposta valle;
È dipinto il terren di vaghe schiere
Di bianche violette perse e gialle,
D'erbe, di rose e fior mille maniere
Cingon ridenti le frondose spalle;
E le fresche onde, che irrigando vanno,
Immortal vita a primavera fanno.
Non così tosto l'amoroso loco
Il vago cacciator da presso vede,
Che per levar da se l'estivo foco
Vicino al fonte a riposar si siede,
Dio ringraziando, e si rivolge in gioco
L'avuto affanno alle selvagge prede,
Che 'l ben gustato dopo 'l tempo rio
Copre il passato mal di dolce obblio.
Quanto era meglio a le campagne nude
Sotto il più caldo sol trovarsi in caccia!
Ma poco val da l'avventure crude
Cercar fuggirsi, quando 'l ciel minaccia.
Or come l'uom, ch'affaticato sude,
Per le man rinfrescar, bagnar la faccia,
Sopra le sponde del tranquillo fonte
Appoggia il petto allor, bassa la fronte.
Nè pria fermò nel bel cristallo il guardo,
Ch'ivi se stesso ancor non visto vede;
Resta smarrito, e di consiglio tardo;
Che sia l'immagin sua nè sa, nè crede,
L'alte bellezze con sottil riguardo
Va misurando, che gli fanno fede
Che sia scesa dal ciel forma divina,
E la saluta, e riverente inchina.
Vede al suo salutar con pari onore
Scioglier la lingua a quel, ma 'l suon non sente;
Vede che al suo parlar con pari ardore
Uno stesso voler mostra e consente:
Ritien la voce, e se dal fonte fuore
Ode parole uscir, drizza la mente:
Ma tacendo ei, tacer quell'altro scorge,
E ch'all'ascoltar suo l'orecchie porge.
Non sa che farsi, e già ne l'alma porta
Quello ardente desir, ch'amor imprime:
Or lo mira or lo prega or lo conforta,
Or torna lasso a le speranze prime:
Apre a' pianti e sospir talor la porta,
Roder sentendo l'amorose lime:
E talvolta dicea: che doglia grave
Sente il mio cor che de la morte pave?
Indi piangendo a la dolce acqua amata
Rivolgea lasso i suoi lamenti e 'l volto;
Chi è dentro 'l tuo seno, onda sacrata,
Ch'oggi ha me stesso a me medesmo tolto,
Onda, in mio danno, anzi in mia morte nata,
Poscia che stanco al tuo soccorso volto
Per la sete cacciar, temprar l'ardore,
Altra sete, altro ardor m'hai posto in core.
Ma tu, qualunque sei, mortale o divo
Giovin leggiadro, che pur Dio mi sembri,
Non esser, prego, del tuo amante schivo
Se cortesia come bellezza assembri:
Di me solingo sempre e fuggitivo
De gli amorosi lacci or ti rimembri:
Che d'ogni crudeltà, del fallir mio
Piangendo pago doppiamente il fio.
Di quante vaghe giovinette e belle
Ho scherniti gli amor, fuggito il foco!
Di quante ninfe in queste parti, e in quelle
L'aspre pene e martir m'ho preso in gioco!
Or m'han condotto l'inimiche stelle
A pianger teco in questo ombroso loco:
E tu, s'al mio pregar duro sarai,
Tosto con altri ancor ne piangerai.
Deh! perchè non poss'io viver ne l'acque,
Ch'or verrei dentro a dimorarmi teco?
Ma poi ch'al crudo ciel questo non piacque
Perchè non vieni a dimorarti meco?
Ciprigna con Adon tra l'erbe giacque,
Non schivò Giove pria l'erboso speco,
Nè tu devi schivar d'uscirne fuori
Quinci a posar tra violette, e fiori.
Così dicendo, intorno agli occhi gira,
E ch'egli ascenda nella valle crede,
Poi torna al fonte, e chiamando sospira,
Che nel medesmo loco assiso il vede:
Ma poi che intento lungamente mira
Muover la man, la fronte, il braccio, il piede,
La lunga pruova ch'ogni dubbio sgombra
Gli mostra in fin che di se stesso è l'ombra.
Oh che caldi sospir, che amari pianti
Empiono 'l ciel, quando di lei s'accorge!
Oh che duro languir, quai, lasso, e quanti
Biasmi sdegnoso a la sua stella porge!
Ancor non vide ne' suoi servi amanti,
Dice, il crudel amor ch'a ciò mi scorge
Desir simile a quel ch'io porto in seno,
Ch'anzi tempo farà ch'io venga meno.
O selva, o piaggia, o chiusa valle aprica,
Vedete quel che non vedeste ancora:
O fortuna al mio ben solo inimica,
Ben del comun sentier m'hai tratto fuora:
O van pensier che i semplicetti intrica,
Dimmi in che parte ogni mio ben dimora:
Di me stesso ardo, e me medesmo bramo,
Io senza frutto alcun rispondo, e chiamo.
Sempre vien meco quel che io più vorrei,
Nè, se volesse ben, fuggir porria;
Oh quanto men dolor ne l'alma avrei
Più lunge avendo la speranza mia!
Felice te, che vai dicendo omei
Per cosa pur che 'n altra parte sia:
Tu forse un giorno a te vicin l'avrai,
Ma se da se non si disgiunge mai.
Contr'ogni legge in me medesmo face
Estrema povertà troppa ricchezza:
Estremo guerreggiar la troppa pace,
Estrema servitù troppa bellezza,
Troppo a me stesso di piacermi spiace;
Beato quel che sua bltade sprezza,
Che pur ad altri vien talvolta in pregio:
Ma 'l mio troppo pregiarmi fa dispregio.
Cotal dicendo sopra l'erba verde
Empiea la valle d'amorose strida;
Nè con tutto il suo dir dramma si perde
Di quel cieco desir ch'al cor annida;
Ma nel dolersi più, più si rinverde,
E dove men vorria più sempre 'l guida;
Torna a la fonte e parla e guarda e chiama,
Piange, sospira invan, si strugge ed ama.
Piovongli amare lagrime dal volto
Per cui fosche d'intorno vengon l'onde;
Pargli il sommo suo ben turbato e tolto,
Che l'amata ombra al suo mirar s'asconde.
Or che m'hai, crudo, in mille lacci avvolto,
Perchè abbandoni queste ombrose sponde?
Dice, e 'l braccio e la man ne l'acque stende
Per colui ritener che pur l'accende.
Sente il miser mancarsi a poco a poco
E più de l'ombra che di se gl'incresce;
Pensa morendo in se sia spento il foco,
Ma 'l morir di costei pena gli accresce;
Poi si conforta e dice; in altro loco
Che nel suo dolce meno amaro mesce
Ci rivedrem tra più chiare acque amiche
Che non son queste al mio desir nemiche.
Così, lasso, piangendo, in pace resta,
Disse, e la fronte sotto l'erba ascose.
Eco dal monte lagrimosa e mesta:
In pace resta al suo partir rispose.
L'alma spogliando la terrena vesta
Fra fior lasciolla, e tra vermiglie rose
Qual giglio tronco dal nativo stelo
Da fermar di pietà le stelle e 'l cielo.
Le vaghe ninfe co' pastor d'intorno
Pien di doglia sentir l'aspra novella:
Ciascun piangendo il giovinetto adorno,
Morte natura il ciel crudele appella;
Ch'a pena vista non ci lascia un giorno
Con pace dimorar cosa sì bella;
E formando beltà con tanta cura,
In un sol punto poi la dona e fura.
Scendon poi tutti ne l'ombrosa valle
Per dar sepolcro a le leggiadre membra;
Ma non d'intorno al fonte o in altro calle
Le puon trovar, che maraviglia sembra:
Intra bianche viole perse e gialle
Truovano un fior ch'a nessun mai rassembra
D'aver simile a quel veduto in prima,
E che Narcisso sia fra lor s'estima.
È di candide frondi intorno cinto;
Ha d'aurato color la bella fronte;
E pur ancor da proprio amor sospinto
Guarda se stesso nel tranquillo fonte.
Ciascun nel volto di pietà dipinto
Empie tutta d'omei la valle, e 'l monte;
Ciascun lo bagna de' suoi pianti rei,
Eco piangendo ancor risponde omei.
Cotal fine ebbe il giovanetto altero
Dispregiator de l'amoroso foco:
E così va chi s'arma contro al vero,
E l'altrui lagrimar si prende in gioco.
Ligure pianta, se mai versi fero
Torcer credenza altrui d'ingiusto loco,
Non dispregiate amor nè i servi suoi
Per quanto amate 'l ciel virtute e voi.
Chi spregiar lo dovrà, se 'l mondo e 'l cielo
Come or vedete al suo poter s'inchina?
Se Giove e Marte, se 'l signor di Delo
Schivar non san questa virtù divina?
Omai sgombrate da la mente il velo
Che vi toglie il veder l'altrui rovina,
Forse un passo da voi non lunge appena,
Che pur pensando a lagrimar mi mena.
Fra l'amorose donne un caso tale
Qual di Narcisso non si vide ancora:
Chi può saper se l'amoroso strale
Lo serva a voi, che lo schernite ognora?
Deh se di vostro ben punto vi cale
Date il cuor vostro a chi ciascuno adora
Se non che forse un dì colme di pianto
Vi sovverrà del mio gravoso canto.