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Luigi Capuana
Un vampiro
Dedica
a Cesare Lombroso
Illustre amico,
Quando, nello scorso aprile, veniva celebrato il suo giubileo scientifico, rivedendo le bozze di questo volumetto io pensavo di fargliene riverente omaggio per unire la mia fioca voce di novelliere alle unanimi acclamazioni degli Scienziati del mondo intero.
E m’induceva a questo non solamente l’antica affettuosa venerazione, ma anche l’idea che il soggetto delle due novelle qui riunite, avendo qualche relazione coi suoi ultimi spassionatissimi studi intorno ai fenomeni psichici, dei quali abbiamo ragionato in Roma ogni volta che ho avuto il piacere di rivederla, evitava all’omaggio il difetto di una troppo grave stonatura.
Lo accetti, Illustre Amico, con la sua solita bontà, e mi creda sempre
suo aff.mo
Luigi Capuana.
Catania, 28 giugno 1906
Un vampiro
«No, non ridere!», esclamò Lelio Giorgi, interrompendosi.
«Come vuoi che non rida?», rispose Mongeri. «Io non credo agli spiriti».
«Non ci credevo... e non vorrei crederci neppur io» riprese Giorgi. «Vengo da te appunto per avere la spiegazione di fatti che possono distruggere la mia felicità, e che già turbano straordinariamente la mia ragione».
«Fatti?... Allucinazioni vuoi dire. Significa che sei malato e che hai bisogno di curarti. L’allucinazione, sì, è un fatto anch’essa; ma quel che rappresenta non ha riscontro fuori di noi, nella realtà. È, per esprimermi alla meglio, una sensazione che va dall’interno all’esterno; una specie di proiezione del nostro organismo. E così l’occhio vede quel che realmente non vede; l’udito sente quel che realmente non sente. Sensazioni anteriori, accumulate spesso inconsapevolmente, si ridestano dentro di noi, si organizzano come avviene nei sogni. Perché? In che modo? Non lo sappiamo ancora... E sogniamo (è la giusta espressione) a occhi aperti. Bisogna distinguere. Vi sono allucinazioni momentanee, rapidissime che non implicano nessun disordine organico o psichico. Ve ne sono persistenti, e allora... Ma non è questo il tuo caso».
«Sì; mio e di mia moglie!».
«Non hai capito bene. Noi scienziati chiamiamo persistenti le allucinazioni dei pazzi. Non occorre, credo, che io mi spieghi con qualche esempio... Il fatto poi che siete due a soffrire la stessa allucinazione, e nello stesso momento, è un semplice caso d’induzione. Probabilmente sei tu che influisci sul sistema nervoso della tua signora».
«No; prima è stata lei».
«Allora vuol dire che il tuo sistema nervoso è più debole o ha più facile ricettività... Non arricciare il naso, poeta mio, sentendo questi vocabolacci che i vostri dizionari forse non registrano. Noi li troviamo comodi e ce ne serviamo».
«Se tu mi avessi lasciato parlare...».
«Certe cose è meglio non rimescolarle. Vorresti una spiegazione dalla scienza? Ebbene, in nome di essa, io ti rispondo che, per ora, non ha spiegazioni di sorta alcuna da darti. Siamo nel campo delle ipotesi. Ne facciamo una al giorno; quella di oggi non è quella di ieri; quella di domani non sarà quella di oggi. Siete curiosi voialtri artisti! Quando vi giova, deridete la scienza, non valutate nel loro giusto valore i tentativi, gli studi, le ipotesi che pur servono a farla progredire; poi, se si dà un caso che personalmente v’interessa, pretendete che essa vi dia risposte chiare, precise, categoriche. Ci sono, pur troppo, scienziati che si prestano a questo gioco per convinzione o per vanità. Io non sono di questi. Vuoi che te la dica chiara e tonda? La scienza è la più gran prova della nostra ignoranza. Per tranquillarti, ti ho parlato di allucinazioni, di induzione, di recettività... Parole, caro mio! Più studio e più mi sento preso dalla disperazione di sapere qualcosa di certo. Sembra fatto apposta; quando gli scienziati già si rallegrano di aver constatato una legge, pàffete! ecco un fatto, una scoperta che la butta giù con un manrovescio. Bisogna rassegnarsi. E tu lascia andare, quel che accade a te e alla tua signora è accaduto a tanti altri. Passerà. Che t’importa di sapere perché e come sia avvenuto? T’inquietano forse i sogni?».
«Se tu mi permettessi di parlare...».
«Parla pure, giacché vuoi sfogarti; ma ti dico anticipatamente che fai peggio. L’unico modo di vincere certe impressioni è quello di distrarsi, di sovrapporre ad esse impressioni più forti, allontanandosi dai luoghi che probabilmente han contribuito a produrle. Un diavolo scaccia l’altro: è proverbio sapientissimo».
«Lo abbiamo fatto; è stato inutile. I primi fenomeni, le prime manifestazioni più evidenti sono avvenuti in campagna, nella nostra villa di Foscolara... Siamo scappati via. Ma la stessa sera dell’arrivo in città...».
«È naturale. Che distrazione poteva darvi la vostra casa? Dovevate viaggiare, far vita d’albergo, un giorno qua, un giorno là; andare attorno l’intera giornata per chiese, monumenti, musei, teatri; tornare all’albergo a sera tardi, stanchi morti...».
«Abbiamo fatto anche questo, ma...».
«Voi due soli, m’immagino. Dovevate cercare la compagnia di qualche amico, di una comitiva...».
«Lo abbiamo fatto; non è valso a niente».
«Chi sa che comitiva!».
«Di gente allegra...».
«Gente egoista vuol dire, e vi siete trovati isolatissimi in mezzo ad essa, capisco...».
«Prendevamo anzi molta parte alla loro allegria, sinceramente, spensieratamente. Appena però ci trovavamo soli... Non potevamo mica condurre la comitiva a dormire con noi...».
«Ma dunque dormivate? Ora non capisco più, se tu intendi parlare di allucinazioni o pure di sogni...».
«E picchia con le allucinazioni, coi sogni! Eravamo svegli, con tanto di occhi spalancati, nelle più limpide funzioni dei sensi e dello spirito, come in questo momento che vorrei ragionare con te e tu ti ostini a non volermi concedere..».
«Tutto quel che vuoi».
«Vorrei almeno esporti i fatti».
«Li so, me li figuro; i libri di scienza ne sono pieni zeppi. Potranno esservi diversità insignificanti nei minuti particolari... Non contano. L’essenziale natura del fenomeno non muta per ciò».
«Non vuoi darmi neppure la soddisfazione...?».
«Cento, non una, giacché ti fa piacere. Tu sei di coloro che amano di grogiolarsi nei dolori, quasi vogliano centellinarseli... È stupido, scusa!... Ma se ti fa piacere...».
«Francamente, mi sembra che tu abbia paura».
«Paura di che? Sarebbe bella!...».
«Paura di dover mutare opinione. Hai detto: Io non credo agli spiriti. E se, dopo, fossi costretto a crederci?».
«Ebbene, sì; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo così noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l’intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l’intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti».
«Oh!...», esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. «Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero torto - anch’essi badavano, più che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti più da quell’anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato caro poeta! L’etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c’è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: E talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta».
«Ecco come siete voialtri letterati! Cominciamo sempre ab ovo!».
«Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non aveva più avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell’eredità di uno zio che non s’era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d’Inghilterra volai qui... dove mi attendeva il più doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l’amavo più di prima!... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirglierla per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l’enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui.
"Vengo a restituirle questa lettera" mi disse. "Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto così. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica".
Era impallidito parlando e gli tremava la voce. "Chiedo perdono dell’imprudenza" risposi. "E, per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi".
Dovevo essere più pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: "Sono vedova. T’amo sempre. E tu?". Suo marito era morto da due mesi».
«Il mondo è così: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro».
«È quel che egoisticamente pensai anch’io; ma non sempre è vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di colui. Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l’ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l’intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggì dalle labbra.
"Come sono felice" esclamò "che questo sia avvenuto soltanto ora!".
Si udì un gran colpo all’uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c’era nessuno».
«Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell’uscio dal calore della stagione».
«Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla».
«E così, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda».
«Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l’eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch’essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l’aveva ripresa. La notte, tutt’a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. "Che cosa hai? Ti senti male?" le domandavo ansioso. "Ho paura... Non hai udito?". "No". "Non odi?..." insistette la sera appresso. "No". Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giù, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di più. Levavo il capo, guardavo... "Dev’essere entrato qualche topo in camera...". "Ho paura!... Ho paura!". Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell’inesplicabile andare e venire, su e giù, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo».
«E le fantasie riscaldate facevano il resto».
«Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giù, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: "È lui! È lui!"».
«Scusa» lo interruppe Mongeri «non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sì. "È lui! È lui!". Non già, come crede tua moglie, l’anima del defunto. È quel lui, cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia».
«Sia pure. Ma io» riprese Lelio Giorgi «come c’entro con la tua fisiologia?».
«Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo».
«Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa?».
«L’attenzione aspettante, oh! fa prodigi».
«E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto?».
«Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L’incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch’esso».
«Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l’identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d’impedirle di gridare: "È lui! È lui!" quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandosi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: "Ha parlato!", "Che dice?", "Non ho sentito bene... Odi? Ha detto: Sei mia!". E siccome anch’io la stringevo più fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva».
«Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza?».
«Va bene... Ma ho sentito l’ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lì a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio.... Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui... Non mi udiva più, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. "Che colpa ho io, se tu sei morto? Oh! no, no!... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io?... Per sbarazzarmi di te?... È un’infamia! E il bambino che colpa ha? Soffri? Pregherò per te farò dire delle messe... Non vuoi messe?... Me, vuoi?... Ma come mai? Sei morto!...". Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell’allucinazione... Luisa si ricomponeva tutt’a un tratto. "Hai sentito?", mi diceva, "Mi accusano di averlo avvelenato. Tu non ci credi... Tu non mi sospetterai capace... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?". Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui. "Come faremo? Come faremo?"».
«Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi».
«Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente più solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene... Ma nel mio caso e sotto l’influenza delle parole di mia moglie: "Farò dire delle messe" pensai naturalmente all’intervento di un prete».
«L’hai fatta esorcizzare?».
«No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta... anche per impressionare l’immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d’immaginazione esaltata, di nervi sconvolti... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni».
«E l’acqua benedetta?».
«Inefficace. Come se non fosse stata adoperata».
«Non l’avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l’operazione, con tutto l’apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature... e il malato guarì».
«L’acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo... Oh!... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l’odio di colui era rivolto contro il bambino... Come proteggerlo?... Appena Luisa vedeva...».
«O le sembrava di vedere...».
«Vedeva, caro mio, vedeva... Vedevo anche io... quasi. Giacché mia moglie non poteva più avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo».
«Si tratta dunque?..».
Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po’ sarcastico e un po’ compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Grandi parlava, si era spento tutt’a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l’amico che lo guardava con ansiosissima attesa e ripetè:
«Si tratta dunque?... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere più schietto di così. Ma posso darti un consiglio... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me... Fanne l’uso che credi».
«Lo eseguirò subito, oggi stesso».
«Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel più breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l’aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all’infuori di questo mondo materiale. Lo spirito... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti... Per la scienza c’è di reale soltanto l’organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l’individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, più o meno lungamente dopo la morte... Si comincia a sospettarlo... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d’accordo con la credenza popolare... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, più probabilmente, di quell’istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L’uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie più che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe: e l’uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l’istinto; nell’uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtù primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono più tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell’ignoranza... Perdonami questa lunga disgressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l’atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell’esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità più persistenti delle altre, casi rari, sì, ma possibili anche senza ammettere l’immortalità dell’anima, dello spirito... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa... È fatto, non insolito, intorno al quale la così detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d’accordo con la scienza... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l’essenza vitale delle persone sane?... L’affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa... Tu dici che il tuo bambino...».
«Vieni a vederlo; non si riconosce più. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto... Ma... Invano mi ripeto: Non è vero! Non può esser vero!... Invano ho tentato di confortarmi pensando: E dato pure che fosse vero?... È una gran prova d’amore. Si è fatta avvelenatrice per te!... - Invano! Non so né posso più difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui!... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta. "Avvelenarti? Io?... Come puoi crederlo?...". Oh! Non viviamo più, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che così strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina».
«Fate cremare il cadavere. È una prova che m’interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non più vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all’empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente», soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante.
«E il bambino intanto?», esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. «Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: "Va’ via! Va’ via, maledetto!...". Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare...».
«Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte...».
«Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza...».
«T’inganni».
«Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva che ad irritarlo di più, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani...».
E, il giorno dopo, egli tornò così spaventato, così disfatto che il Mongeri concepì qualche dubbio intorno all’integrità delle facoltà mentali del suo amico.
«Egli sa!», balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. «Ah, che nottata d’inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo».
«Tanto più dobbiamo osare», rispose il Mongeri.
«Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: "Si, sarò tua, tutta tua!... Ma risparmia quest’innocente...". E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch’ella non fosse davvero più mia, ma sua, di colui!».
«Càlmati!... Vinceremo. Càlmati!... Voglio esser con voi questa notte».
Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: «Accade quasi sempre così. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre così. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare».
E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com’egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l’orecchio... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l’agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto.
Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio.
Bel parlatore, senza nessun’affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare così l’attenzione di quei due, e intanto non perderli d’occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi, e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell’istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov’era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi.
Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava.
«Eccolo!», ella gridò. «Oh, Dio! Povero figliuolino!».
Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov’era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla.
«Non è niente!», disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa.
La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito più violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei.
«Perché dici che voglio continuare a farti del male?... Ho pregato per te!... Ho fatto dir delle messe!...». «Ma non si può sciogliere! Tu sei morto...». «Non sei morto?... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato?...». «D’accordo con lui? Oh!...». «Ti aveva promesso, sì; ed ha mantenuto... Per finzione? C’intendevamo da lontano? Lui m’ha spedito il veleno?... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità...». «Va bene. Non ti stimerò morto... Non te lo ripeterò più».
«È in istato di trance spontanea!», disse Mongeri all’orecchio di Lelio. «Lasciami».
Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò:
«Signora!...».
Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri dié un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisionomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita.
«Che cosa vuoi? Perché t’intrometti tu?».
Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L’abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l’influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente:
«Finiscila! Te l’ordino!».
Aveva messo nell’espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all’esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel te l’ordino, lo scosse, lo fece titubare un istante.
«Finiscila! Te l’ordino!», replicò poi con maggior forza.
«Ah! Ah! Vuoi essere il terzo... che gode... Avvelenerete anche lui?».
«Mentisci! Infamemente!».
Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po’ turbata, non ostante gli sforzi ch’egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentì battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante si vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare.
«Vedi? Vedi?», gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce.
Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance, quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s’interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l’oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare... Improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde più altro.
La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti ai suo amico: Non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo.
Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l’esperimento fino all’ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente) la sua reputazione dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l’esperimento abbia confermato la credenza popolare e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata, il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: «I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza: il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato». No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione, tanta suggestione, tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l’altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d’abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato.
Il più curioso è che non si è mostrato più coerente come uomo. Egli che proclamava: «Non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo» ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: «Ma come?... Tu!...», rispose: «A quest’ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni!», senza accorgersi che, parlando così, contraddiceva l’autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo, cioè se stesso.
Fatale influsso
«Lascia andare!», fece Blesio, vedendo impallidire tutt’a un tratto il suo amico Raimondo Palli, che aveva cessato di parlare quasi interrotto da un groppo di singhiozzi. «Mi racconterai il resto un’altra volta».
«Delia non rispose» proseguì Raimondo dopo qualche secondo di pausa. «Mi fissò con grandi occhi neri scrutatori che da un pezzo non potevo più sostenere, e sorrise tristamente. Quegli sguardi mi scendevano nella più riposta profondità del cuore come raggi luminosi, e ne rivelavano a lei e a me stesso i più intimi segreti. Giacché mi accadeva spesso di non avere piena coscienza dello stato dell’animo mio verso di lei, e di sentirmi invadere da brividi di terrore ogni volta che la luminosità delle sue vividissime pupille mi faceva scorgere quanto vana fosse la lusinga di poter illudere lei e me. Non l’amavo più quanto una volta e mi ostinavo intanto a ripeterle che niente era mutato tra noi due, un po’ per compassione di lei, un po’ per sdegno di quel che non giudicavo, qual era, naturale miseria dell’amore, ma vero delitto d’ingratitudine verso colei che mi aveva fatto, incondizionatamente, dono di tutta se stessa. E lo sdegno era misto col rimorso di aver violentato l’organismo della povera creatura, di aver contribuito a svolgere in esso facoltà che, senza dubbio, vi sarebbero rimaste latenti o non sarebbero mai arrivate al punto di riuscire nocive.
Tu ignori la vera ragione da cui sono stato spinto a tentare su quel delicatissimo fiore di vita gli esperimenti che avrebbero dovuto essere una vittoria e che divennero invece, in meno di un anno, tristissimo gastigo. Tu credi ancora che io abbia fatto ciò per invincibile curiosità di studiare, a modo mio, le misteriose forze della nostra psiche in un soggetto che presentava le migliori condizioni per tale studio. Disingànnati, caro Blesio. Sin dai primi giorni del mio matrimonio, nello stordimento prodottomi dalla felicità di vedere e di sentire accanto a me quell’esile figura di bruna il cui possesso mi era sembrato, per quattro lunghi anni, irrealizzabile sogno, sin dai primi giorni mi ero lentamente sentito invadere da un infinito inesplicabile senso di sgomento, che mi rendeva pensoso e distratto.
"Che cosa hai?" mi domandava Delia, allacciandomi le braccia attorno al collo con gesto di suprema grazia affettuosa.
"Niente! La troppa felicità, vedi? mi stordisce come un potente liquore".
Non mentivo, rispondendo così, ma non dicevo intera la verità. Non avrei saputo dirla in quei giorni, fino al mattino in cui, svegliatomi prima di lei, e contemplandola, al fioco lume della lampadina da notte, abbandonata sui guanciali, coi nerissimi capelli disciolti e il petto lievemente ansante pel respiro, contemplandola più come deliziosa visione d’arte che come realtà, all’improvviso ebbi coscienza della natura di quell’indefinito sgomento che da parecchie settimane mi rendeva pensoso e distratto. "Mi ama davvero? Per quale nascosto scopo vuol darmi a intendere che mi ama?". Ora mi pareva impossibile che la dolcissima creatura che avrebbe potuto aspirare per bellezza, per bontà, per intelligenza, a un’unione più degna di lei, si fosse lasciata indurre a sposare me, non ricco, quasi brutto, con l’unico prestigio di un po’ di abilità... o di qualcosa di più, via, nella mia arte di scultore, e di una discreta cultura che, secondo certi critici, ha molto nociuto al mio ingegno di artista».
«Questa botta tocca anche a me!», disse Blesio, ridendo. «Tu hai avuto sempre il torto di badar troppo a quel che scriviamo noi pretesi critici d’arte. Lasciaci cantare! Lavora».
Si scorgeva però che il riso di Blesio era sforzato, e che tentava di nascondere il triste presentimento di quel che poteva da un momento all’altro accadere, se l’eccessivo perturbamento del suo amico non si fosse arrestato.
Raimondo fece una spallucciata, e continuò: «Da prima scacciai via sdegnosamente come indegno di me e di lei l’importuno pensiero. Ma già un’intima voce tornava insistente a sussurrarmelo a ogni nuova manifestazione di affetto prodigatami da Delia. Allora, la prendevo per le mani, la fissavo tenendola ferma innanzi a me, interrogandola: "Mi ami davvero?" e lo stupore che si manifestava sul bel volto di Delia e il doloroso sorriso che le spuntava su le labbra prima della timida risposta: "Perché me lo domandi?" invece di farmi comprendere la sciocchezza e la villania della mia interrogazione, mi sembrava involontaria conferma di quel dubbio anche quando ella, liberatasi rapidamente dalla stretta delle mie mani, aggrappandomisi al collo con l’abituale gesto di suprema grazia affettuosa, mi baciava e ribaciava, senza aggiungere una sola parola. Pareva volesse dirmi: "Sei contento?... Si bacia così soltanto quando si ama davvero!".
Quella muta risposta però non mi appagava; né avrei saputo dire intanto qual altra avrebbe potuto ella darmene per disperdere il mio dubbio. Mi tornava in mente il motto di quel diplomatico, che la parola ci è stata data per nascondere il nostro pensiero. Quei baci erano meno della parola, o qualcosa di eguale, o anche qualcosa di poco più; non me n’importava. Sapevo, caro Blesio, che il pensiero di una persona può irridersi facilmente di qualunque altrui violenza per scoprirlo.
Passarono parecchi mesi prima che mi balenasse l’idea di servirmi dell’azione magnetica per ottenere, all’insaputa di lei, la schietta rivelazione della verità. E anche dopo concepitone il disegno, esitai ancora per altri mesi, temendo di poter produrre irrimediabili disturbi in quel sensibilissimo organismo, che alle minime impressioni vedevo sobbalzare quasi fosse stato punto da uno spillo, o toccato da un carbone ardente. Mi trattenne pure, dopo che ero già risoluto, il leggero velo di tristezza che le mie ripetute domande: "Mi ami davvero?" avevano steso sul volto di Delia, e il lieve tremito della sua voce che mi pareva rivelasse, invece della parola, la protesta del suo cuore: "Perché dubiti di me?".
Infatti, perché dubitavo? Perché - e questo era il peggio - non ricevendo risposte che mi soddisfacessero, perché mi sentivo, a poco a poco, distaccare da Delia, quasi la sua bella manina mi allontanasse e volesse tenermi a distanza?
Dall’ampia vetrata del mio studio, la vedevo comparire ogni mattina nel giardinetto, con la preferita vestaglia color crema, ornata di larghi nastri rossi, coi capelli nerissimi appena ravviati e che le davano intanto un’aria di arcaica eleganza seducentissima. Si aggirava lentamente pei viali, si fermava, riprendeva ad andare o a cogliere fiori dai vasi e dalle aiuole che ella stessa coltivava con arte di giardiniera provetta. Di tanto in tanto, alzava il capo verso la vetrata, guardava intenta, quasi si attendesse di vedermi col viso incollato ai vetri per osservarla; e crollava la testa, delusa, mortificata. Lo capivo, perché potevo benissimo vederla senz’essere visto. Perché fingevo la sorpresa com’ella entrava nel mio studio, esitando su la soglia con la cestina colma di fiori, quasi simile alla bionda Flora tizianesca della Galleria degli Uffizi?...
Cominciavo a sentire, e ne avevo dispetto, un senso di lieve rancore per quella che mi sembrava sua ostentazione d’ingannarmi. Non so che cosa avrei poi fatto, se Delia mi avesse risposto: "No, non t’amo! Meriti forse d’essere amato?".
Da due settimane, notte per notte, mentr’ella dormiva al mio fianco, io m’ingegnavo di saturarla del mio fluido, come avevo appreso dai libri letti e studiati per tale scopo. Ella non doveva accorgersi della mia intenzione di addormentarla; temevo che, richiesta di accondiscendere, si rifiutasse. E durante la giornata spiavo se mai apparisse in lei qualche sintomo da rivelarmi che la mia azione magnetica fosse riuscita a dominarla.
Niente!
Già disperavo del buon resultato, quando un pomeriggio... Oh, tu non puoi farti un’idea della profonda commozione che mi assalì in quel momento! Delia avea voluto posare da modello per una figurina di donna commissionatami da un americano. "Sta’ ferma, così!", le dissi vivamente, lieto dell’atteggiamento da lei preso appena sedutasi davanti a me poco lontana dal cavalletto.
La vidi irrigidirsi, chiudere gli occhi, impallidita, col respiro ansante... Era entrata, quando meno me l’aspettavo, nel più profondo sonno magnetico.
Ne fui spaventato, come se avessi compiuto su lei il più vile dei delitti colpendola a tradimento. Rinfrancàtomi un po’ e presala pei pollici con mani tremanti, mi affrettai però a interrogarla:
"Dormi?".
"Si".
"Sei lucida?".
"Lucidissima".
"Potresti leggermi nel pensiero?".
"Sì. Tu dubiti...".
"Ecco" la interruppi, facendo gli opportuni passaggi. "Ecco la mano di una persona che tu non conosci: è moglie di un mio amico. Ama il marito?... Osserva bene".
E così dicendo le avevo messo in una mano l’altra sua mano. Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare.
"Lo ama tanto!".
"Non t’inganni?".
"No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L’ama. Oh, tanto!", replicò.
"Osserva meglio" insistei.
"Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei... Devo piangere, come lei... Lasciami piangere!".
E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi.
Attesi che si sfogasse un po’.
"Ora ti sveglio" la suggestionai. "Non dovrai ricordarti di niente".
"Non mi ricorderò di niente".
Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che così doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa.
"Così!".
E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell’esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un’intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l’esperimento e sempre con l’identico risultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera.
E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l’impressione di una vita fuori della vita, d’una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un’altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro».
«Eh, via! Non dire così!», esclamò Blesio. «A furia d’immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero».
Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese:
«Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo più nel sonno magnetico così facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: "Sta’ ferma! Cosi!" che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate più volte.
"Che cosa vuoi farmi?... Che cosa mi hai fatto?" ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi.
E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse:
"Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m’eccita... Non so come esprimermi... Oh! oh!... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino... Laggiù, nell’aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette!... È possibile?... Vieni; andiamo a vedere!".
E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiù, dove un gatto faceva precisamente quel ch’ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata.
"Sei diventata una veggente" le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore.
"Male!" ella rispose con improvvisa serietà. "È assai meglio non vedere!... È assai meglio ignorare!".
Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro».
Blesio, impensierito dell’esaltazione del suo amico, resa più manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò nuovamente d’impedirgli di proseguire.
«Non stancarti; ho già capito, sei stato un po’ imprudente, forse...».
«Forse?... Troppo dovresti dire», riprese Raimondo Palli. «Troppo».
E, implorando con lo sguardo, continuò:
«Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l’equilibrio a qualunque più solido intelletto. Non osai più d’interrogarla: "Mi ami? Di’, mi ami davvero?". Ma Delia sentiva anche da una stanza all’altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento.
La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso, e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: "Perché dubiti di me? Lo sento, non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell’immenso amore mio?".
Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l’effetto voluto per l’esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter più sfuggire a quell’ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitù. Come? Non sarei più stato libero di formolare un’idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: "Si, è una buona idea; dovresti attuarla. - O pure: Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà. - O pure: - No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare. - O pure: Dici bene, questa speranza è un gran conforto per me!". E ciò come se io l’avessi messa a parte di tutto con le più precise parole, per consultarla, per averne l’approvazione o la disapprovazione?... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i più riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre più squisite delicatezze d’animo, sempre più fine penetrazione d’intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo così dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell’agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva:
"Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti".
Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l’assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza?
"No!" riflettevo subito. "Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balìa!".
Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l’incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva più il mio influsso; era già più forte di me».
«Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista» lo interruppe Blesio. «Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commuovono fortemente».
«Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire» rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. «Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all’insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l’organismo.
Era un po’ dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in Dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d’idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un’idealità artistica in atto.
Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella.
Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa così lontana da me, come in quelle lunghe giornate che più mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n’aveva quasi suggerito l’idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, così come l’immaginazione me la andava trasformando in fantasia d’arte.
Una sera, tutt’a un tratto, Delia mi disse:
!Ah, Raimondo!... Tu stai per cessare di amarmi!".
"Non pensare assurdità!", risposi bruscamente.
"Tu però in quest’istante mentre neghi, pensi: - Oh, Dio, ella indovina!".
Tornai a negare: ma era vero. In quell’istante pensavo proprio: "Oh, Dio, ella indovina".
"Come avvenga non so" riprese Delia. "C’è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffra... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi... Mi sento impazzire!".
Non ricordo più quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi:
"Perdonami! Ti faccio soffrire!".
Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall’organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore...
Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m’ama?", corrispondesse o no alla realtà.
Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un’idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l’impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l’avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell’altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza... Fu allora... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l’impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato».
Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro.
Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese:
«Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l’illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto... Tutt’a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l’atto di quelle furibonde mani, Delia... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l’avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro!... Ero rimasto impietrito davanti a quell’orrore. "No, non è così!... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall’improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco!... Ecco come dev’essere!... Ecco! Tu non hai saputo... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza?... Dimmelo tu! Rischiarami tu!».
E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l’amico.
Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.