Library / Literary Works |
Luigi Carrer
Atalanta
Tanto s’è detto a scapito della mitologia, che la più parte de’ giovani ne rimasero svogliati per sempre. Non è dunque superfluità, se occorrendo accennare ad alcuna di quelle favole, se ne faccia la narrazione, come cosa che potrebbe essere non saputa, o scappata dalla memoria. I giovani sono quelli pei quali scriviamo più propriamente questi articoli di costumi; e chi vorrebbe farsi maestro degli attempati? Sebbene nè manco pei giovani intendiamo schiccherare lezioni, solamente offrir loro, non più che a modo di consiglio, i risultamenti della nostra esperienza, non troppo lunga, a dir vero, ma sgombera, o che almeno crediamo, da prevenzioni.
Atalanta fu dunque una giovane di natura piuttosto selvaggia, che facea vista di non voler piegarsi alle nozze di verun uomo. Mostrando di disamare, o di non far per lo meno che assai poco caso di ciò che forma l’onesto desiderio delle fanciulle, aveva riposto il proprio cuore e la propria ambizione, indovinate in che cosa? nella corsa. Voi avreste creduto, e con ragione, che sarebbe stata minor stravaganza se in luogo della corsa avesse avuto l’animo al ballo. Ma il voler dar legge ai capricci, è come chi volesse dir al vento di soffiare piuttosto per qua che per là, allora quando gli monta la voglia di que’ suoi buffi tanto bizzarri. Poneva la giovane di cui parliamo per condizione delle sue nozze, che quegli il quale avesse voluto esserle sposo fosse corridore tanto valente da rimanerne vinta essa medesima, di cui parlava la fama come della più abile in quella prova. Che se ne diceva da tutti all’udire di questa condizione? Che la giovane non avesse voglia alcuna di maritarsi, dacchè tanto era il porre quel patto, quanto il dire che uomo alcuno non vi sarebbe stato sopra la terra che avesse saputo ottenerla in consorte. Eppure un Ippomene giovinetto si fece innanzi, dichiarandosi pronto a tentare il difficile esperimento. L’amore è per lo più coraggioso, ma non manca, quando occorre, d’astuzia; per cui avvisandosi Ippomene di non poter forse avanzare di gambe Atalanta, si studiò guadagnarla coll’usar dell’ingegno. Ed ecco che, venuto il giorno della prova, quando la corsa incominciava ad incalorire, e Atalanta precorreva al suo chieditore di molti e molti passi, si lascia egli sdrucciolare di mano un bel pomo d’oro, che dando nell’occhio alla giovane è cagione ch’ella si arresti a raccoglierlo, e perda il vantaggio che si aveva guadagnato. Tanta era in essa però l’agilità e la prestezza che in poco d’ora le parti di perdente e di vincitore furono di nuovo cambiate, e dall’astuzia del pomo nessun profitto n’era venuto al giovine pel conseguimento della vittoria. Ma che? Eccoti un secondo pomo che sdrucciola; e Atalanta che di nuovo interrompe la corsa. Ma nè anche questa volta il trionfo di Ippomene fu altro che passaggero. E già vedevasi sorgere a non troppa distanza la meta; di che accortosi il giovine, si lascia cadere il terzo pomo, e come l’altra si ferma, al solito, per acchiapparlo, ed egli darsela a gambe più che non aveva fatto per lo innanzi, e cacciarsele oltre per modo, che non essendo omai lo spazio che poco, non fu possibile ad Atalanta, come le altre volte aveva fatto, di ripigliare il vantaggio.
Domanderà adesso taluno, che cosa ne volete conchiudere da questo racconto? La potenza dell’oro essere molto grande, anco negli animi femminili? Questa osservazione, non del tutto falsa, non vogliamo usurparla agli scrittori di satire e di commedie, ai quali appartiene di tutta ragione. Che altro dunque è il costrutto che si vuole cavare da questa mitologica novelletta? Eccolo assai pianamente. Chi ha un proponimento inviscerato nell’animo non deve apporvi condizione alcuna, altrimenti potrà assai di leggieri esserne svolto, e contraddire a sè stesso pensando di fare il proprio dovere. Mi sia conceduto distendermi con qualche parola, non la essendo cosa che balzi agli occhi nettamente affatto, e potendovi la malignità altrui fabbricar sopra di molti commenti, non troppo favorevoli allo scrittore.
Prima di tutto quando diciamo proponimento, intendiamo, o sottintendiamo, se piace meglio, di cosa bene assai esaminata dapprima, e per sè medesima rilevante. Di cosa intendiamo cui si convenga essere, oltrechè pensata, praticata; intendiamo di cosa per cui la vita dell’uomo avesse a rimanere infeconda d’ogni qualsisia onesto frutto, quando l’oggi fosse intento soltanto a disfare il ieri, o a costruir ciò che sarebbe opera del dimani il mettere a terra. Purtroppo è l’uomo di naturale vario e perplesso, e quando anche nessuno motivo di dubbio incontri nel suo cammino, e tutto quello che gli è dato vedere sia luce, fabbrica a sè stesso difficoltà con assai funesta sapienza, e crede tenebre insorte ad attraversargli il passo quelli che altro non sono salvo paurosi fantasmi della sua immaginazione. Di che ne consegue, che, quando anche trattisi di verità e di príncipii profondamente radicati nel suo intelletto, l’esitanza e il disvolere non mancano alla incerta e travagliosa sua vita; figuratevi poi quando abbia quei se, quei ma, quei forse, e la infinita coorte delle formule condizionali e ristrettive, trovate fuori per la più parte dalla ignoranza a conforto della viltà.
Non osano questi Tiepidi, come li chiamava il Savonarola, questi Aireti, come hanno nome presso gli orientali, questi Protei, come possono chiamarsi presso ogni nazione; non osano, dico, metter fuori coraggiosamente la formula esprimente con termini generali la vigliacca irresoluzione della loro anima; che sarebbe di tal maniera: io farò il bene, se ... vorrei far il bene, ma ... E quindi si fermano ad ogni pomo d’oro che trovano, o vien loro gettato lungo il cammino; e tranquillano con false ragioni la propria coscienza, dacchè trovano nel pomo d’oro quel se, quel ma, quella condizione qualunque che avevano posta a volersi mantenere onesti e gentili. E quindi rimanendosi dal correre per la via, sulla quale avevano pur dato con ipocrita alacrità i primi passi, perdono senz’altro la prova, e credono di potersi ammogliare a quel vizio che li ha soggiogati, senza meritarne accusa di rinnegare il proposito da essi manifestato prima di venirne alla gara, anzi facendo le viste di adempirlo scrupolosamente in ogni sua parte.
Che se Atalanta avesse fortemente voluto tenersi lontana dalle nozze, non avrebbe già detto che chi fosse miglior corridore di lei le sarebbe consorte, ma che nè anche Borea l’impetuosissimo, o l’agilissimo Zefiro, avrebbero bastato ad ottenerla. E similmente chi è fermo, e come a dire, tetragono ne’ proprii divisamenti, lascia che il vento della fortuna aggiri e sovverta per quel che sa meglio i monumenti dell’umana alterigia; ma egli, non che muoversi punto, da quelle scosse medesime rimane più sempre assodato nella sua base. Per la indomabile costanza di un tal uomo sono un nulla i pomi d’oro fatti sdrucciolare davanti ai suoi occhi, affinchè gl’incatenino i piedi; egli corre e corre più sempre, non famelico di quei pomi ma della meta, cui vede sempre imminente.
E ci torna anche a memoria, in proposito di Atalanta, una bella fiaba che il nostro concittadino Carlo Gozzi derivò dalle leggiadre tradizioni orientali; vogliam dire la fiaba della Turandotte, che non puossi più omai dire volgare, dacchè ottenne l’onore che Federico Schiller la offerisse tradotta a tutta Allemagna. Qui ancora l’Atalanta dei regni dell’Aurora non si darà sposa a chi prima non sciolga tre indovinelli da essa proposti. E di già molte sono le teste degli incauti che, venuti alla prova, pagarono niente meno che della vita un culto troppo cieco alla bellezza. Che monta però questo misero trionfo? Egli viene pure l’Ippomene della Sfinge orientale, e i tre enigmi sono sciolti, e i lampi riverberati sulla mente dell’ingegnosa regina dall’amante straniero, fanno su di essa quel tanto, che i pomi d’oro avevano fatto sull’animo della giovinetta del monte Partenio.
Sia oro, sia ingegno, i propositi che si formano condizionatamente, rimangono o presto o tardi interrotti. Atalanta e Turandotte, più assai che per le donne, potete farvi esempio pegli uomini: son per essi che vengono più spesso lanciati i pomi d’oro, e proposti gl’indovinelli. L’uomo che ha il se ed il ma in coda di ogni sua proposizione non mi avrà mai per amico; io che non credo poter venir a concorrenza d’indovinelli, e molto meno di pomi d’oro.