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Luigi Carrer
I Centauri
Arrestandomi, mesi sono, a guardare un affresco rappresentante la guerra dei Centauri, mi venne presso un amico e mi disse: che stai guardando così attentamente? Non vedi, gli risposi, quella battaglia d’uomini straordinarii di cui s’è perduta la razza? Perduta? soggiunse l’amico. E riprese: Stimi forse che tali fossero gli uomini in verun tempo, quali gli vedi effigiati su quella parete? E non pensi piuttosto che in quelle ambigue figure ci si nasconda una qualche utile allegoria? — Certamente che così deve essere; ma quanto è facile il persuadersi di ciò, tanto è malagevole a definire quale fosse il vero senso allegorico de’ Centauri.
In questo mezzo io mi era tolto dal mirare la parete, e preso sotto il braccio l’amico, mi condussi seco sulla via, e quivi, allettato dal bel giorno ch’egli era e dalla tiepidezza dell’aria, continuava passeggiando. E avvicendando il discorrere al camminare, ecco quello che io andava discorrendo, quasi per stuzzicare il compagno che ben conoscevo essere uomo da uscire, qualunque si fosse l’argomento, in qualche idea singolare. La opinione più ragionevole circa i Centauri sembra quella che li vuole una tribù nomade assai destra nel maneggiare cavalli, e venuta a piantarsi nella Tessaglia, paese abbondante di grassi pascoli. Gl’indigeni non potevano vedergli di assai buon occhio, tanto più che, come pare, toccava loro patire dai nuovi ospiti frequenti insulti negli averi e nelle donne. Ippodamia, Deianira e Atalanta fanno fede della procacità dei Centauri. Teseo, Piritoo ed Ercole ebbero un bel fare a sterminargli. Il solo Chirone è durato nella venerazione dei posteri, e forse era quello tra i Centauri che avesse più miti costumi, e fosse ornato di qualche sapienza, per cui, affratellatosi cogli indigeni, sfuggì allo sterminio de’ suoi compagni, e rimase novello emblema dell’arti che sopravvivono ai popoli vinti, e arrivano, coll’andar del tempo, a trionfare dei vincitori.
Di queste peregrine notizie, qui m’interruppe l’amico, se ne hanno a ribocco nei dizionarii. Quanto a me, vedi, che da più anni non m’impaccio gran fatto coi libri, sono d’avviso che i Centauri continuino ad essere un’allegoria molto appropriata ai costumi di molti uomini del nostro secolo, quantunque il maneggiar cavalli sia oggi esercizio comune a un’infinità di persone. Perchè tu mi hai narrato la tua delle tribù nomadi calate nella Tessaglia, e di Chirone, il più galantuomo degli antichi Centauri, ascolta adesso la mia dei Centauri d’ogni stagione, e di ogni contrada. Sappi adunque che, dal più al meno, un poco di quell’ambigua natura l’abbiamo tutti: e non c’è uomo, in cui in questa o in quell’ora, posta tale o tal altra circostanza, tu non abbia ad accorgerti di qualche strana contraddizione, per cui ti ricorre al pensiero che siavi in esso più d’una natura. Mi ricordo aver letto da ragazzo di Diogene che andava col lanternino, quantunque fosse di mezzogiorno, a trovare l’uomo, e che non gli veniva mai fatto d’imbattersi in chi meritasse compiutamente un tal nome. Ora fa tuo conto, che, a voler attentamente considerare gli uomini tutti da me conosciuti, mi troverei presso a poco nell’imbarazzo di Diogene, caso che dovessi indicare quale fosse quello da cui, poco o molto, non traspirasse un qualche indizio di natura inferiore all’umana. Che importa che ciò che in essi ci ha di bestiale sia cavallino o altrimenti? Sarà questione di nomi. Chi non sarà assolutamente centauro, potrà esser chiamato con molta proprietà ippogrifo. Non ci trovi le penne atte al volo? Bada, e ti accorgerai delle squamme, e potrai chiamarlo sirena. Quante volte, udendo taluno, che fino a quell’ora aveva parlato a dovere, uscire in qualche strafalcione madornale, dico fra me: siamo agli orecchi! Una donna che in molti altri punti è lodevole, quando ci troviamo a quella del piaggiare per cattivarsi proseliti, dimentica la consueta ragionevolezza, ed io non posso a meno di ripetere nel mio interno: ecco la coda! Credi pure, amico mio, molte cose sono quelle che si fanno dagli uomini quando col grifo, quando colla zampa. Tiburzio, a cagion d’esempio, arriverebbe egli a metter mano su certe cose, che gli sono discoste oltremodo, se non allungasse quella sua proboscide da elefante? E credi tu che Sinesio, senza quelle sue larghe ali di nottola, potrebbe coprire tante magagne? Avresti mille volte potuto rinfacciare a Domizia le sue sfrontate bugie, se non era quel suo sguizzare d’anguilla, per cui quando credi averla più validamente afferrata, ti trovi, che è che non è, a mani vôte. Io, che ti parlo, ho dovuto più volte abbassare gli occhi confusi sopra me stesso, dopo aver detto o fatto alcuna cosa poco degna dell’uomo, e guardare se o piume o artigli o scaglie mi avessi dattorno.
Ciò in generale; essendochè, come ti dissi, o tosto o tardi una qualche bestialità siamo soggetti a commetterla tutti. Ma venendo al discorrere poi nel particolare, ci sono di quelli che potrebbero essere convenientemente figurati con tale o tal altra parte del loro corpo molto somiglianti alle bestie. Sergio, a modo d’esempio, è tutt’uomo fuorchè nelle gambe; colà il vedi daino. Ha buon cuore, non manca d’ingegno, ma non aspettarti da lui maturità di consiglio; detto fatto, bene o male, ei si getta sulla prima via che gli si affaccia, e guai chi volesse tenergli dietro. Ortensio, all’incontro, che ha bellissime proporzioni di membra, porta sempre indosso miseramente il pesante carico della testuggine. Oggi . . . domani . . . vedremo . . . se si potrà; se non cade dal cielo la benefica pietra che spezzi la dura sua scorza non attenderti ch’ei muova passo. Quintilio non avrebbe sconcezza di sorta in tutta la persona, se non fosse una enorme coda di pavone che si trae dietro quando cammina, ed allarga per modo da dar nell’occhio dalla lunge ben cento passi. Si studia il pover’uomo nasconderla quanto più puote: ma che? come più ei si rannicchia artifiziosamente e’ più sparnazza quel suo maledetto ventaglio, che lo fa rincrescevole a tutti coloro che non hanno simpatia cogli orgogliosi. Potrei allungare assai questa lista, ma non voglio annoiarti, mio caro. Bensì ti dirò che, oltre al quale ed al quanto della bestialità, notabile è il come e il dove: altri ti si mostrano di fronte con quel brutto indizio nella faccia o nel petto, altri sel recano dopo la schiena e sotto le reni. Chi lo nasconde a tutto potere, e chi ne fa pompa. Quest’ultima è in vero bestialità segnalata! Taluno, s’ei tace, non ne dà sentore, a tal altro può bastare che non si muova. Oh il gran vantaggio che si ha dal conoscere sè medesimo! Se hai le mani uncinate perchè far carezze? Contentati delle officiose parole. E tu, che aprendo la bocca sai di non poter altro fuorchè ululare, giovati delle morbide dita che possiedi, e palpa con quelle chi deve fare la tua fortuna.
Sono al fine della mia chiacchiera; ti prego di udire ancora poche parole. Sovrano diletto è quando due senz’avvedersene fanno prova fra loro della scambievole bestialità, dato che sia di natura diversa. Ha un bel graffiare Gilberto: se ne ride Seleuco ch’è tutto scaglie. Seleuco allo incontro ha un bel voler provarsi con Livio: le scaglie, che gli sono difesa dalle unghie, non possono farlo arrivare chi vola. In questi casi tu ascolti un reciproco maledire alla bestialità del compagno, senz’accorgersi della propria. Canchero agli avoltoi, dicon le volpi; gran cattiva compagnia i lupi, vanno ripetendo i conigli. Incontra talvolta che le due bestialità abbiano alcun che di omogeneo, o consentaneo anche affatto nella natura; vedi allora un fiutarsi scambievole e un lasciarsi stare; o anche un grattarsi fratellevole ch’è una vera consolazione. E nota mo caso! che alcuni mettono in mostra il loro naturale poco umano solamente quando si trovano in compagnia; e che altri tornano uomini dal detto al fatto appena si trovano fra’ loro simili. Ora, dimmi il vero, che te ne pare di questi miei pensamenti? Non fosse altro, essi sono buoni a farmi passare lietamente qualche ora, esaminando i diversi naturali delle genti, e riferendo a me stesso, per quanto mi viene conceduto dal mio amor proprio, le fatte osservazioni.