Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Luigi Carrer

    I Coribanti

    Non so per verità in qual paese, e nemmanco a qual tempo, due giovinotti, usciti di fresco dagli studii, trovaronsi seduti uno a canto l’altro nella platea di un teatro, buona pezza prima che incominciasse la rappresentazione. Imbevuti come erano tuttavia delle melense idee della scuola, pensavano che chi va al teatro dovesse prender parte allo spettacolo dal principio al fine, e per giunta di pedanteria, non fosse fuor di ragione lo spendere un quarticello d’ora attendendo, per dar campo, come dicevano que’ buoni ragazzi, alla fantasia di sgomberarsi dalle immagini della vita reale, e rendersi meglio capace a ricevere le illusioni della scena. Erano dunque seduti uno a canto l’altro, circondati dal lieve bisbiglio, e da quel quasi crepuscolo che precede il levar del sipario. Avevano appunto gli occhi al sipario. Non è il sipario la meta nella quale concorrono tutti gli sguardi (intendo parlare della platea, chè nei palchetti c’è altro che fare) per l’impazienza di vederselo tolto d’innanzi? E poichè guardando il sipario non c’è miglior discorso da movere, specialmente per due giovanotti che abbiano lasciato or ora la scuola, della favola, o storia, o allegoria, o altro che si voglia, in esso sipario rappresentato: vedi, disse uno, quella pittura? Mi pare che siano i Coribanti che danno dentro ai loro cembali per far rumore intorno alla culla di Giove, tanto che Saturno non ne ascolti i vagiti, e non gli venga voglia di mettersi il bambino fra i denti. Senza più i Coribanti, l’altro rispose. Non vedi là in alto il vecchio Saturno, che ha un sasso fasciato, sulle ginocchia, per cavarsi la fame al bisogno? — Veggo, sì, alcun che di figurato là in alto, ma non lo discerno, perchè la mia vista, ad onta degli occhiali che m’inforcano il naso, non va tant’oltre.

    Che nuovo capriccio fu quello del pittore di mettere quella favola sopra un sipario? — Così uno dei due, al quale l’uso del mondo non aveva ancora insegnato che si possono, specialmente nel teatro, violare allegramente certe regole di acconcezza, cui i professori si fanno rauchi inculcando dalle loro cattedre. Indi, scotendo alcun poco la testa, soggiunse assai buonamente: forse per essere teatro destinato ai drammi per musica ha così fatto il pittore. — Poh! riprese l’altro, poteva dipingervi a questo stesso modo ogni altra cosa, e ne sarebbe stato detto egualmente balordo. Pensiamo un poco se ci fosse qualche altra buona ragione, dacchè è presumibile che l’artista, prima di venire al lavoro, abbia ancor esso pensato alla convenienza della sua invenzione, nè più nè meno di noi, che qui sediamo a proferirne sentenza. — Vedi pure se la tua mente nulla ti suggerisce di opportuno a spiegare il senso di quel dipinto in guisa che faccia onore all’artista, e lo liberi dalla taccia che, senza badarvi più che tanto, gli ho dato colla mia goffa interpretazione. Ecco, o lettori, altra meschinità di quelle menti giovanili! Pensare che prima di dar giudizio di un’opera egli si abbia ad esaminare attentamente qual si fosse per avventura l’intenzione di chi l’ha prodotta, senza contentarsi di quel tanto che ne balza all’occhio a prima giunta. Non è egli questo, oltre che condannare il nostro intelletto ad una sconcia fatica, quando il faticare dev’esser tutto per chi si mette componendo ai servigi del pubblico, un chiudere la via a quei tanti bei motti, a quelle amabili parodie, alle satire amene, alle graziose calunnie, con cui si tiene allegra la brigata, che cascherebbe di sonno quando fosse condannata a pensare, e a specolare il vero anche nell’opere d’imitazione che sono fatte per divertirla?

    Dopo aver alquanto pensato, così disse quello dei nostri due giovani ch’era stato interrogato dal compagno circa il suo parere. Io so che i pittori alcuna volta nelle loro invenzioni si dilettano di porre non so quale ingegnosa malizia, che non apparisce così di lancio, ma solo dopo un qualche esame. Mi cade in mente che la storia di que’ Coribanti che strepitano intorno al bambino, affinchè non se ne ascolti il vagito, abbia ad essere una critica allusione a que’ compositori di musica, dacchè questo teatro è specialmente destinato alla musica, i quali studiansi di occultare la povertà delle cantilene col rimbombo e diremo anzi collo scompiglio che mettono in tutta l’orchestra. E per verità se a quelle loro arie, e duetti e terzetti fosse tolto via l’enorme ingombro dell’accompagnatura istrumentale, non altro se ne udirebbero che vagiti; e quello che si crede poco meno che un colosso di dottrina e di fantasia musicale, vedrebbesi non altro essere che un bambinetto colle membra rattratte dal freddo. E padre Saturno là in cielo? È il simbolo degli spettatori, ai quali, come vengono al teatro avidi di buona e sostanziale vivanda, sono dati a mangiare de’ sassi. — La tua spiegazione, l’altro riprese, non mi va affatto ai versi, e non spiacemi affatto. — La dovrebbe anzi piacerti moltissimo, soggiunse quel primo, a cui l’aver trovato il senso riposto della pittorica allegoria sembrava poco meno che aver dato colla prora nell’America sconosciuta. La dovrebbe piacerti moltissimo, in quanto che è riferibile, non solo ai lavori musicali, ma in genere all’opere dell’umano ingegno, per non dire a tutte le azioni della vita. Ma contentiamoci di restarne all’opere sole dell’ingegno, delle quali è conceduto discorrere liberissimamente. Quanti, accorgendosi di non aver messo fuori che una picciola e inferma creatura, per tema che la povertà del loro parto non sia conosciuta, si circondano di una buona truppa di Coribanti, i quali sono i benevoli lodatori, vuoi da conversazione, vuoi da bottega di caffè, a cui regalano il libro elegantemente legato; e lo stesso fanno co’ gazzettieri e co’ giornalisti, a rendere meno rigide le censure, e più liberali gli encomii. E allora ti so dire il fracasso di casa del diavolo che se ne ascolta per ogni parte: che invenzione! che novità! che pensieri! che stile! Chi oserebbe saltar su e dire, che tutte quelle maraviglie non sono più che vagiti? Quand’anche ci avesse tanto sano cervello da immaginare, e lingua tanto franca da eseguire siffatto ribattimento della pubblica opinione, lascia fare ai Coribanti a raddoppiare il pestío e la rovina, per soffocare ad una coi vagiti del neonato le ragioni del critico. Sarebbe proprio la guerra del flauto col tamburo a chi la vinca di forza nel far rumore. Ti confesso che quanto più intorno a qualche opera nuova odo fracasso, tanto più entro in sospetto che siano vagiti, e ciò finchè, cessato il frastuono, che non sa durare continuo, o venute le pause necessarie ai vociferatori e martellatori per prender fiato, non mi sia udita netta la voce del Giove nascosto.

    A quest’ultime parole il compagno non badava gran fatto, intento ancor egli a raccozzare nella propria mente una qualche spiegazione dell’allegorica dipintura. L’altro se ne avvide, e gli disse: orsù, mi sembra già che tu abbia pel capo alcun’altra interpretazione; metti fuori che io sto ad ascoltarti. Il compagno non si fece più oltre pregare, e parlò in tal maniera. Quanto a me sono teco d’accordo che in quel Giove fanciullo possa essere figurata l’opera dell’ingegno; ma nei Coribanti ci veggo altra cosa che i suonatori dell’orchestra, o i dispensieri della fama: ci veggo niente meno che il pubblico tutto, in anima e in corpo, il quale fa vezzi e moine al lavoro dell’artista, e gli balla allegramente d’attorno, senza punto badare all’autore che se ne sta in un cantuccio appartato, proprio come quel vecchio Saturno, a cavarsi la fame coi sassi. Davvero che se al pittore è passata per l’animo una simile idea, mostra d’esser uomo molto amico della giustizia, e conoscitore del mondo. Non vanno forse le cose di questa guisa, trattandosi ancora degli uomini più famosi? Il prezzo che ricevette il Milton del suo maraviglioso poema non è tale da far compassione e dispetto? E mentre tipografi e librai s’ingrassavano colle ripetute edizioni della Gerusalemme, non toccava al povero Torquato di lagnarsi che gli fosse impedito dalla sua povertà di mangiare il pollo che tanto amava, e di essere invece astretto a rimanere contento alla zuppa d’erbe, ch’era per esso vivanda scomunicata? Non è egli questo un vedere i Coribanti che ballano e suonano a festeggiare il nato fanciullo, mentre il povero padre se ne sta a dente asciutto, o gli tocca romperlo nei macigni? A questo nuovo commento fatto alla pittura l’amico sorrise, e riprese: quantunque capisca essere questa tua un’ingegnosa ipotesi, anzichè la presumibile intenzione del pittore, te ne fo i miei complimenti, concorrendo teco nella sentenza, che il pubblico è molte volte ingratissimo cogli autori, facendo di loro pochissimo o nessun caso, quando anche ritragga dall’opere loro istruzione e diletto. L’altro sembrava non rimanersi contento alla lode d’ipotesi ingegnosa accordata alla sua spiegazione. E qui cominciava fra i due compagni un dialogo molto vivo, quando improvvisamente sembrò che quei Coribanti dessero fiato alle loro trombe e battessero i loro timpani. Ed erano i suonatori dell’orchestra, che davano principio alla sinfonia. Il sipario indi a poco cominciò ad oscillare, e quindi fu interamente levato. Sinfonia, introduzione e ogni altra parte dell’opera giustificarono l’interpretazione data dal primo dei due compagni alla pittura, perchè infatti il fracasso era tanto da potersi appena udire il corno di Astolfo, chi l’avesse in quel mezzo suonato. E gli spettatori in gran parte affezionati, non so se al maestro, o ai cantanti, o al loro denaro, battevano disperatamente le mani. Era in somma una vera festa di Coribanti. Di fianco ai due amici un poveretto arrivò a grandissimo stento ad occupare uno scanno, su cui potè riposarsi dalla guerra durata una buona mezz’ora coi gombiti della moltitudine spettatrice. Mettendo gli occhi su quel poveretto, si accorsero essere il celebre N. . . che dopo aver in giovinezza fatto lieto il teatro delle sue produzioni, non aveva in vecchiaia il tanto occorrente a comperarsi un palchetto ove starsene segregato a godere dello spettacolo. L’altro compagno non ne volle più, e tentando di costa il vicino: vedi se anche la mia interpretazione non faceva al caso! Si guardarono in faccia e conchiusero, che, qualunque fosse stato l’intendimento del pittore, tutti e due i loro commenti erano secondo ragione.




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