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Luigi Carrer
Icaro e Fetonte
Perchè mettere insieme questi due sciagurati? Ambidue fecero, è vero, quel famosissimo capitombolo che si racconta da tutti i poeti, ma i particolari del fatto quanto sono diversi! Eppure, chi voglia offrire un esempio di storditaggine giovanile, piglia dei due quello che primo gli viene al pensiero. Ambidue, così la discorre il maggior numero delle persone, ambidue tentarono arditissima impresa; guidare il carro del sole, pel quale si vogliono avere l’ingegno e la desterità del Dio dai biondi e non mai tosati capelli; trattare le superne regioni dell’aria con ali non date agli uomini, e proprie degli augelli soltanto. Ma domando per grazia a’ miei lettori, s’è mai posto mente alle circostanze che precedettero il fatto? Vediamo di quanto fra loro differiscano, e che conseguenze se ne possano ricavare a conchiudere, che non debbano essere accomunati nel giudizio dei savii l’inesperto moderatore della biga celeste, e il poco ricordevole figlio dell’industrioso cretese.
A Fetonte un sentimento di pazzo orgoglio fe nascere il desiderio di sottentrare al padre nel governo dei cavalli portatori del giorno, e sì gliene seppe dire (aggiungendosi al soro ragazzo la madre per compagna della preghiera) che non fu possibile al Dio, quantunque già tutta antivedesse la miseranda catastrofe, negargli l’adempimento della sua voglia. Il padre in questo caso non è d’altro colpevole che di connivenza; se già non gli era stato, come cantano le favole, carpito in prevenzione quel giuramento, al quale i Numi stessi, una volta pronunziato, non potevano mancare. Ma Dedalo fu egli stesso che trasse il figliuolo a quel termine doloroso: egli l’inventor della frode, egli il fabbricatore dell’ali. Il povero giovane, chiamato dal padre a stretto colloquio (parmi vederli in un appartato stanzino della reggia, il padre tutto sospetto negli atti e parlando a mezza voce, il figlio con occhi scintillanti di curiosità e tutto fuoco di giovanil confidenza); chiamato, dico, dal padre il povero giovane a stretto colloquio, si sente proporre da chi tanto doveva avanzarlo in prudenza, niente meno che un viaggio per l’aria; si vede metter dinanzi due ali bell’e fatte, colle quali traversare volando, città, foreste, montagne e, non ch’altro, la stessa sterminata ampiezza del mare. Vi pensereste che la giovanile vaghezza dovesse tener saldo alla tentazione, col senno che appena sarebbe presumibile in una testa canuta? Oltrechè egli era il padre che consigliava quel viaggio. Ma, dicesi, la colpa del figlio è riposta nel non aver saputo o voluto tenersi a mezz’aria e, raccostandosi troppo al sole, aver fatto sì, che la cera, ond’erano congegnate le penne, rimanesse squagliata. Ed io invece soggiungo, la colpa del padre è riposta nell’aver presunto che il ragazzo, a cui erano state innestate l’ali alle spalle, sapesse e volesse tenersi a mezz’aria; e vedendosi il sole più vicino che non sono soliti di vederlo d’ordinario gli altri uomini, non gli nascesse la brama di più sempre levarsi a contemplare dappresso il bello e rilucente pianeta. Ad ultimo, la pazza arroganza di Fetonte mi cagiona nausea e disprezzo, e tutta serbo la mia compassione alle infelici sorelle che fannosi pioppe in riva all’Eridano, versando stille d’elettro sulla sepoltura del giovane precipitato; quando la inobbedienza d’Icaro non mi toglie di concedere al funesto suo caso la mia pietà, e per poco non dico la mia ammirazione.
Di qui vorrei trarre al solito una qualche significazione, riferibile all’ordinario costume degli uomini tanto nell’operare che nel giudicare. Basta in primo luogo ad essi il vedere che un tale sia caduto; poco si curano se per propria colpa o per altrui. Questi giudicatori meschini, non avvezzi mai a levare l’occhio da terra, ch’è quanto dire dal fango in cui vivono e di cui sono imbrattati, non altro veggono fuorchè la caduta; ma donde partisse quel misero, a qual meta agognasse, quali intenzioni, qual necessità vel traessero, questo poco importa che sia indagato. Oh! levate la fronte a quel sole a cui pur tendeva nel suo nobile volo chi ora vi sta semivivo davanti; e la timidità vostra a non guardare nemmeno laddove altri osava di sollevarsi con tutto il carico della propria mortalità, non vi sia cagione a schiamazzare con tanta inverecondia perchè le forze non furono eguali al desiderio. Ma parlo ai sordi. Eppure ci hanno alcune cadute che sono preferibili ad alcuni elevamenti! Non è questo per altro che io voglia precipuamente inculcare: troppo si domanda al generale degli uomini, domandando loro di aver riguardo alle intenzioni anzichè agli effetti.
Ma sarà un ripromettersi troppo dalla loro giustizia il richiedere che esaminino con qualche attenzione da qual parte stia la colpa, e chi sia l’Icaro, chi il Dedalo, per compatire a quel primo e condannare il secondo giusta i suoi meriti? O Dedali, Dedali, quanti siete a questo mondo! E quanti sono pure quegl’Icari infelici che ricevono da voi le ali impastate di cera che al primo percuotere de’ raggi solari si liquefà e cessa di tenere congiunte le penne! Avete un bel dire come l’imprudente artefice antico: figliuolo mio, ti conviene startene sull’avviso, dacchè a ogni poco che tu ti accosti soverchio al calore del sole l’artifizio di queste mie ali tornerà tosto in nulla, e tu ne dovrai di necessità morire annegato o accoppato. Figliuolo mio, tieni sempre l’occhio al mio volo, e non scostarti punto da esso, dacchè ogni minima divergenza può costarti la morte. Queste e molte altre saviissime ammonizioni potete farle, ma ne sarete però tranquilli? E sappiate che a Dedalo stesso non bastarono le ammonizioni; ma prima di tentare quel suo mirabile tragitto, esperimentò per più giorni la prudenza e la desterità del fanciullo a reggersi in aria, e non gli fu sufficiente. Ora vedete se anche una qualche prova che riuscisse seconda vi potrebbe giustificare nel concetto degli assennati. Non importa affaccendarsi in dare suggerimenti, bisogna invece inibire l’ali alla giovinezza, e soprattutto l’ali incerate.
La giovinezza, e qui per giovinezza vuolsi intendere il desiderio che accompagna vivissimo le nostre passioni, dipinge alla mente appressabili quegli oggetti che sono più lontani del sole. Siamo impetuosamente portati ad accostarci alla meta, e con angoscia ineffabile noveriamo nella nostra mente infiammata i giorni, l’ore, i minuti, che interrompono l’adempimento dei nostri voti. Non al mare che ci sta sotto, non all’aria che fendiamo instancabili, egli è al sole che abbiamo sempre rivolto l’acume del nostro vedere. Ci passano intanto dinnanzi le foreste ed i campi, e noi più sempre affrettiamo il volo. Ora mettete ai fianchi di questa giovinezza due ali, e presumete che quella fuga veloce debba tenersi nel giusto mezzo! E badate alle conseguenze delle due cadute. Da Fetonte procede il riardimento di mezza la terra, per cui i fiumi che si sentono ribollire l’urna sotto l’ascella, mandano a Giove disperata preghiera. In Icaro han fine tutti gli effetti cagionati dalla sua imprudenza, ed egli solo ne porta le pene, quando, come dice il poeta,
Fendendo il sonante äere cadea.
Potrei allargare il mio discorso, diffondendomi nelle applicazioni: ma chi non le sa fare da sè? E so di aver consigliato non ha guari, volersi scrivere in guisa che vi abbiano sempre alcune cose sottintese a tenere esercitata la perspicacia dei lettori. Chi non sa a quanti oggetti possa venire appropriata l’allegoria del sole, che dispensa il calore e la luce, e a sè alletta invincibilmente, e di sè fortemente innamora chi lo contempla? E sotto il simbolo dell’ali quante cose non possono rimanere significate? Nulla dico della cera che tiene congiunte le penne, e che si fonde battuta dai raggi del sole. Dirò solamente che mostrerebbe di non aver punto afferrato il senso che io mi sono ingegnato di attribuire a queste due favole, chi si tenesse entro i limiti dell’educazione dei figli. Oh ci hanno Dedali non pochi, i quali a cagionare il precipizio dei loro simili non abbisognano del dritto della paternità!
Fu brutto l’egoismo di Dedalo nel volere ad ogni costo fuggire dalla reggia, dovesse pure costargli quella fuga la vita del proprio figliuolo. E tale si è appunto il turpe sentimento onde sono infiammati moltissimi, i quali pur di giugnere a capo dei loro divisamenti, non badano punto di trarre nella loro rovina quanti possono avervi, che, creduli alle loro fallacie, si avvisano poter valicare il mare sicuri coll’ali di cera che loro sono imposte alle spalle. Che importa che dopo piangano la loro crudele inconsideratezza, e si mettano a incidere sulle porte del tempio la lugubre storia del domestico affanno, cadendo loro di mano lo scalpello, quando sono in sul meglio dell’opera! Ciò tiene alcun poco di quello che dicesi comunemente lagrime di coccodrillo. Non sono per altro del tutto da condannare, se una folla di contemporanei poco avveduti, e diremo ancora poco onesti, e una folla non minore di posteri, contenta di riposarsi sopra il giudizio dei contemporanei, maledice furiosamente all’inobbedienza degl’Icari, senza punto badare alla vergognosa presunzione dei Dedali.
Quanto a me, torno a ripeterlo, non sarò mai nemico di chi, indotto a volare, aspira a levarsi quanto più può presso il sole, finchè almeno non mi si mostri che l’ali siano fatte per radere il suolo, come fanno gli augelli nel verno, quando la neve ha imbiancato le più alte cime a cui erano soliti di riparare. Quand’anche ci manchino l’ali, noi sentiamo questa forza, che ci porta alti coi desiderii, non potendo coll’opere; e i Dedali che non sono stolti e crudeli, o ci somministrino ali impastate d’altra miglior materia, che non è la fusile cera, o ci lascino in pace nel labirinto.