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Luigi Carrer
Remida
La favola dell’avaro monarca di Frigia, chi volesse ridurla a prettissima storia, è la seguente. Fu in una città di questo mondo, un uomo, vir quidam, al quale essendo passata buona parte della giovinezza tra le illusioni di un’anima ingenua e confidente, saltò in capo di rifare la propria natura, e spassionarsi di quelle allettatrici apparenze che gli aveano cagionate tante perplessità e tanti affanni. Compreso il cervello da questo disegno, s’imbattè in un filosofo, che se ne andava pettoruto per via, come appunto il Sileno della favola, scontrato da Re Mida nel bosco a ridosso il giumento. E come il buon vecchio dalla modesta cavalcatura rimeritò le cortesie usategli da Re Mida, con accordargli l’adempimento della pazza domanda che questi gli aveva fatta, che tornassegli oro tutto quello a che poneva le mani; parimente il filosofo accondiscese alla domanda di quel nostro tal uomo, non meno pazza dell’altra, dandogli modo a torsi dal capo tutte le illusioni, e a vedere le cose di questo mondo nelle loro naturali sembianze. Non so se vi ricordiate a qual misera condizione si trovasse condotto Re Mida quando ogni cosa toccata, in oro se gli convertiva, e sì i cibi, sì le bevande, sì tutto che avesse voluto prendere, per assaporare, per odorare, per farne che che si fosse, tutto era oro; oro che non si poteva mangiare, nè bere, nè odorare, ma solamente guardare, e poi tornar a guardare, e sentirselo ognora pesante tra mano. Fate conto che a quel nostro tal uomo accadde appunto lo stesso. Egli trovava la verità di ogni cosa, ma verità insipida, pesante, uniforme, che non poteva essere, permettetemi usare la metafora, nè mangiata, nè bevuta, nè odorata, nè altro, ma solo mirata, e tornata a mirare, fino a rimanerne sazio e ristucco. Oh! come può essere, mi direte; la verità è fra le cose la più bella, e della sola vista, così almeno scrisse Platone, può far l’uomo contento. — Io venero grandemente Platone e la sua dottrina; ma in onta a tutta la mia venerazione per quel sapiente, mi conviene raccontare la mia storia. Il nostro uomo arricchito dal filosofo, per singolarissima grazia, della sapienza, vedeva adunque tutte le cose nell’aspetto loro più genuino. Per godere di questa sua nuova virtù ritornava dall’alba al tramonto col pensiero e cogli occhi a tutti gli oggetti dei quali aveva alimentato il suo giovanile delirio, quando gli apparivano fasciati dal manto prestigioso che una bollente fantasia e un cuore più ancora bollente vi avevano sopra gettato. Levava gli occhi al cielo, ma non ci vedeva più l’astro consapevole di ogni nostro dolore, e vago di riflettersi più che altrove sulle rovine a circondarle quasi dirò di un’aureola che le faccia più venerabili e care, o di battere sulla fronte della bellezza a renderne più espressivo e desiderato il pallore; nulla di ciò vedeva egli più nella luna; ma un pianeta soggetto come tutti gli altri ad alcune leggi, e ad alcuni periodici mutamenti. Rideva di sè e delle proprie fantasticherie quando camminava per mezzo la campagna, e ricordavasi i sentimenti delicati che aveva attribuito alle piante tutte dall’erbetta più tenue all’arbore più vigorosa. Non vi era finzione poetica di amori e di nozze, ch’egli non avesse vagheggiata, principalmente la primavera, in ciascun fiore. E guai chi gli avesse detto a que’ giorni, che per essere a questo organate, si aprivano e giravano all’aria ed al sole, senza senso nè scelta di guisa alcuna, quelle belle e gracilette creature; egli voleva che ci avessero fra loro tendenze ed antipatie, presso a poco come fra gli uomini. E si piaceva a recarne gli esempi, a indovinarne i misteri, e a commentarne le varie funzioni. Dicasi il somigliante di tutta quanta ella è grande la natura, che il nostro uomo oggimai disingannato considerava, come da cattedra eminente, dal suo nuovo seggio di filosofo, cogli occhiali sul naso della dottrina, tolti quelli che colorati dalle passioni aveva sì lungamente adoprato. Egli l’ode trillare, occultato fra la siepe, quell’usignuolo che parvegli un tempo il messaggero dell’aurora; o gemere dalla solinga colombaia quel tortore a cui sembravano confidati i lamenti di una speranza non esaudita; ma quei trilli e quei gemiti più non hanno per esso veruna occulta significazione, e pensa alla manata del grano che può metter fine ad ogni lor musica. E tu pure, bellissima Elvira, apparisti agli occhi del tuo amante non altro che bella, dacchè all’armonia delle tue parole e de’ tuoi passi restò fredda quell’anima in altri tempi sì ardente. Potè dopo il giorno, in cui gli rimasero mortificate dal tocco della pietra filosofale le fibre, che si vibravano più sollecite e più gagliarde ad ogni lievissimo impulso dell’immaginazione, potè, dico, distinguere nella tua voce alcun che di stonante, nel tuo portamento qualche sprezzatura poco leggiadra. E sì quell’alcune dissonanze gli erano sembrate altra volta gorgheggi de’ più delicati, quelle alcune negligenze graziosità senza pari. Gran che, s’egli non giunse a disconoscere in qualche parte fin anco la tua bellezza! Ma egli ci voleva altro che pietra filosofale ad attutar l’impressione di quegli occhi dardeggianti sul vivo del cuore, di quelle chiome cadenti in vaghissimi cincinnetti alle tempie, di quel sorriso in cui l’ingenuità e la malizia si direbbero compendiate e confuse, se non fosse conosciuto al mondo l’amore, il più ingenuo e il più malizioso di tutti gli affetti. E fu egli perciò più felice? A somiglianza di Mida, che rabbiosamente domandava a sè stesso: che ne debbo far di tanto oro? al nostro dabben uomo toccò più volte di maledire l’inconsiderato suo desiderio dicendo: a che mi serve tutta questa verità, che mi vien sotto gli occhi dappertutto e ad ogni ora? Questa troppa verità io non posso inghiottirla; è cibo troppo ruvido al mio palato, e mi accorgo che mi metterebbe a tumulto lo stomaco se ve la cacciassi dentro per forza. Ed era diffatti venuto in sospetto di tutto e di tutti, e da ognuno in cui scontravasi per istrada se ne guardava come farebbesi da nemico. Quando taluno gli parlava, egli ci capiva subito il sentimento contrario al suono superficiale delle parole, di che le più dolci e ingegnose lusingherie gli tornavano acerbissime all’anima, e il crucciavano a morte. E intendendo benissimo come gli errori che travagliano la nostra misera specie potrebbero essere tolti via, o per lo meno scemati, era afflitto d’intollerabile angoscia al vedere come anzi crescevano, e mettevano di giorno in giorno radici più salde. Per lo che gliene venne all’animo sì grande passione che non con tanto fervore aveva pregato il filosofo che il volesse provvedere della necessaria dottrina a scorgere il vero di ogni cosa, con quanto il ripregò che questa infelice facoltà di scorgere il vero in ogni cosa gli fosse tolta. Ed ecco che la storia, continuando a camminare appaiata alla mitologica allegoria, narra esser egli venuto a capo di riabilitarsi alle antiche illusioni, sommergendosi nel fiume corrente della verità, a quella guisa che il povero Mida, per liberarsi dalla sciagurata attitudine di tutto inorare, dovette bagnarsi ripetutamente nel Pattolo, il quale, come da tutti si sa, menava oro per sabbia nel proprio letto. E che la storia del re Mida sia appunto quella del nostro uomo ve ne deve far accertati quel resto che si racconta di quel monarca, vale a dire il giudizio da esso dato quando vennero a contesa del canto Pane ed Apollo. Nel qual Pane dai piedi di capro, è figurato, se nol sapete, chi affonda l’orme bestiali nel fango di questa terra, e suona la zampogna a lusingare la greggia che pascola, ch’io vorrei potessero essere le persone fortunate di questo mondo a cui è dato abbondante pastura alla stupida vita, e anche il piffero dell’adulazione che suoni lor dietro via a farle contente. E in quell’Apollo, che mai non si taglia i capelli, ci veggo rappresentata la persona del maestro eccellente, che, innamorato della propria arte, mentre canta tiene gli occhi volti all’insù, non curandosi della greggia, e lascia ad altri lo strebbiarsi e il lisciarsi e il pulire paroline per dar nell’umore ai favoriti della fortuna. E a Mida, che aggiudicò il premio al cantore caprino, si allungarono alquanto le orecchie, e ne fu stimato quel giumento ch’egli era; e sì pure fin tanto che il nostro buon uomo volle solamente badare all’utile presente, e agli affetti grossolani, fu pervertito nel suo giudizio, e credendosi aver sulla testa l’alloro del savio, e forse l’aveva, gli erano cresciute di un buon mezzo palmo le orecchie. E accordava a Pane la preferenza sopra il Dio della zazzera non tosata, assoggettando i liberi concetti dell’arte alle regole pedantesche immaginate dalla mediocrità e chiamando delirio l’inspirazione. E qui, mentre potrebbesi tirar in lungo il racconto e moltiplicare i confronti poco meno che all’infinito, fo punto, e vi dico, che sola la morte può venire a liberarci dalle illusioni e metterci nel possedimento della verità. E la morte è venuta a trovare, non ha molti giorni, quest’uomo di cui vi ho tanto cianciato. Ed egli disse in quel punto: Oh! io ho veduto tanti fantasmi e tante realtà, eppure tu mi sembri assai nuova cosa. Mi sono incamminato a te, quando per la via delle illusioni, quando per quella del vero, e tuttavia non potei riconoscerti, tanto mi sembri strana oggi che mi ti mostri per la prima volta. E avrebbe continuato, se non che l’altra, che ha sempre fretta, gli soffiò del suo freddo fiato nell’interna fiamma vitale, che gliela spense, e il fece tacere per sempre.
Se vi potrà essere di nessuno vantaggio questa narrazione, per verità, non so dire; questo so bene che non fareste secondo il mio intendimento, dandovi tutti a seguire i capricci dell’immaginazione, e amoreggiando le nuvole come Issione. La discrezione, che domandasi in ogni cosa, vuol essere adoperata eziandio nel riferire i racconti allegorici al loro significato; fate dunque come conviene, e liberatemi col vostro buon senno dall’indugiarmi più oltre su questo argomento.