Edizione Italiana
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    Luigi Carrer

    Tiresia

    Avete voi mai badato alla strana ventura che accadde in giovinezza a Tiresia? Tiresia, voi già lo sapete, era un tebano a cui occorse di vedere, probabilmente d’estate, la Dea del sapere, che tuffavasi nell’acque di una fontana a nettarsi dalla polvere della corsa, o a godervi un poco di fresco. Questa veduta gli costò niente meno che la perdita d’ambedue gli occhi, i quali, quantunque dagli storici di quel tempo non venga detto, so per tradizione, conservata tra i dotti, ch’egli aveva bellissimi. Il fatto ebbe molte interpretazioni, e molti commenti ci furono aggiunti. Chi volle con questo significata la inflessibilità del pudore nel gastigare chi gli fa oltraggio, fosse pur d’una occhiata; e siffatta definizione andò molto ai versi di certi uomini dabbene, per giudizio dei quali ogni più ovvia sentenza ha bisogno del velo dell’allegoria ad essere nobilitata e guadagnarsi seguaci. Alcuni altri, avvezzi a veder buio anche sotto il sole di mezzo giorno, si avvisarono di derivare da ciò un argomento di vitupero per la Dea, come quella che avesse voluto togliere al giovine la possibilità di certi confronti, e scemar fede accecandolo a’ suoi giudizii. Fu anche chi disse che la gelosia avesse invaso per modo il cuore di Pallade, da consigliarle una tanta severità di gastigo, e allora potrebbesi credere che gli occhi di Tiresia non fossero stati soli ad osare. Che che ne sia di queste varie dichiarazioni, ci ho anch’io la mia, differente dall’altre tutte, e, buona o cattiva ch’ella possa parervi, senza più ve la espongo.

    Io ci veggo in Tiresia uno di quegli uomini, più fortunati che savii, ai quali essendo toccato alcuna volta di colpire nel segno, si credono di non aver più ad errare in cosa alcuna, e che a quel tanto che da indi vien loro detto sopra qualsivoglia argomento, corra obbligo a tutto il resto degli uomini di abbassare il capo e prendersi come oracoli le loro parole. Dico più fortunati che savii, perchè la saviezza insegnerebbe loro a procedere sempre con lentezza e circospezione, e anzichè invanire di un felice trovato, starsene in sulle guardie delle seduzioni dell’amor proprio, che rende ciechi anche i meglio veggenti. Diffatti questi cotali i quali videro una volta senza velo la Dea, ossia conobbero il vero di alcuna cosa, è assai probabile che rimangano ciechi tutto il resto della lor vita, tra per la maraviglia che quello scoprimento mette loro nell’anima, e per la nebbia che l’ambizione loro diffonde sugli occhi. Oh quanto era meglio per essi di non mai affissarsi nelle membra divine, che collo stupendo candore dovevano loro abbagliar le pupille! Io non so se ne conosciate di questi cotali, posso ben assicurarvi che a me proprio è avvenuto di scontrarne spesso taluno; e mentre per una parte compiangeva la molta miseria della nostra natura, mi confortava per l’altra di trovare la interpretazione da me data alla favola antica molto corrispondente alla verità. Egli è da por mente a questi Tiresia, non foss’altro, perchè la comune degli uomini, sopraffatta dalla fama, molto facilmente soscrive alle posteriori sciocchezze di chi una volta ha pensato e parlato a dovere. Il gastigo del giovine tebano è bene che sia ricordato da ciascheduno il quale oda favellare chi ha già l’aureola della gloria intorno alla testa; ed ognuno prima di concorrere in opinione a cui sentirebbesi inclinato per solo il motivo che gli viene riferita da chi tenne altra volta opinioni giuste e credibili, dica fra sè: vedesti Pallade una fiata così, come non è veduta dagli uomini solitamente; ma non per questo hai fatto l’occhio più fino, se già non sei all’incontro rimasto cieco del tutto.

    Ma non è questo l’intero costrutto che parmi di dover trarre dalla favola. Finora il discorso si è tenuto lontano dall’universale, e sembrò mirare soltanto al particolare degli uomini dotti, scopritori di grandi verità, e di misteri reconditi della natura. Si può per altro, e si deve, chi voglia spremere il miglior succo dall’allegoria, riferire siffatta dichiarazione ai giudizii che a tutte l’ore si portano nei familiari colloquii intorno a quanto si pensa o si opera da’ nostri fratelli. Oh! la numerosa famiglia che è quella di cotali Tiresia, che acculattano panche, e fregano pubbliche vie, guardando a dritta e a sinistra e avanti e indietro, non con due ma con sei e con dieci occhi, chi va e dove va, piuttosto qui che costì, la mattina anzichè la sera col tabarro sugli occhi e no a faccia scoperta, zufolando non so qual ritornello in cambio di starsene a bocca chiusa. Guai se a coloro è accaduto di dar nel segno solo una volta! Guai se ascoltano dirsi dalla curiosa brigata che li circonda: l’avete proprio indovinata! La era propriamente così, come voi ce l’avete detta! Il Tiresia del caffè, della piazza, del ridotto, della conversazione, ha colto Pallade alla fonte; ebbro di aver potuto sguardare dove l’occhio degli altri uomini non arriva, non vi pensate che giunga a veder più le cose pel loro verso in tutta sua vita. Quando anche trattisi dei fatti più conosciuti, delle verità più evidenti, egli deve saperne un dito più su degli altri tutti, accennare a qualche recondita circostanza, egli che ha veduto Pallade alla fonte. Che Licinio avesse appiccato una tresca con Dorotea a chi non è noto? Ma l’indovino, che cammina tentoni pel buio, deve trovare nella propria cechità qualche cosa di più, deve anche sapere dell’acquetta apparecchiata da Licinio al marito di Dorotea. Ella è ribalda menzogna, ma all’indovino dagli occhi chiusi conviene spacciarla per quinto vangelo. Sicchè, a dirla schietta, chi è quegli il quale abbia a lodarsi di Tiresia e delle sue profezie? Lo scellerato palese, il ribaldo che ha la fronte bollata, perchè dove gli altri veggono solo il marchio del boia, il cieco Tiresia, che sa appunto quello che gli altri non sanno, ci deve scoprire occulte virtù, e motivi ragionevoli di commiserazione.

    E che vorrà dire la ragazza che il profeta si prese a guida, dacchè gli occhi cessarono di fare l’ufficio loro? Anche quella ragazza ha la propria significazione. Sapete chi sia la guida dei nostri indovini, accecati nei loro giudizii? Niente più che una grama ragazzina. Lo sfaccendato visitatore, la femminetta cianciera, la stupida fante, il putto che non sa riferire un’ambasciata senza alterarla, a dir poco, nei quattro quinti. In queste impure pozzanghere riempie Tiresia come spugna il proprio cervello, e ne spreme quindi que’ suoi prolissi cicalamenti a danno dell’altrui onore, e a dilettazione della malignità che lo ascolta con tanto di bocca e d’orecchie, come fosse pioggia di manna o di coturnici quello sconcio profluvio di maldicenza. Date un’occhiata a quella ragazza che si tiene ai panni del profeta, e gli dice: maestro, ora conviene dar volta, qui alzar il piede perchè c’è intoppo di sassi; là smonta il cammino, più oltre risale. E se il maestro facesse il sordo, il vedreste in poco d’ora per terra, sicchè gli conviene condursi a modo della fanciulla. Quelle tante chiacchiere, eh’egli v’infilza così bravamente, le ha raccolte qui e qua, e cucite insieme senza giudizio. Sono merce acquistata nell’oscuro fondaco del barbiere, del sarto; il facchino e la fanticella ci hanno la loro parte. Che volete? È Tiresia guidato dalla ragazza; Tiresia che non sa camminare da sè perchè è cieco, ed è cieco per aver creduto di poter veder troppo.

    E chi è che fa il nerbo dei nostri Tiresia? Voi tutti, signori miei, che gli state ascoltando e date retta alle fiabe dell’orbo. E il profeta pianta allora molto bravamente il suo altare frammezzo a voi, vi scanna la vittima, la mette a bruciare, e procura che si apra in due punte la fiamma che n’esce per dar nel genio a ciascuno, perchè ciascuno possa prenderla da quel lato che meglio gli torna. Indovini bilingui, come la fiamma del vostro olocausto, non dovrebbe appagarsi di tanto la nostra stupidità per conoscervi quegl’impostori che siete? E che non sia una mera giunta del mio cervello, invasato di collera, questa nuova taccia ch’io do ai nostri Tiresia, badate a quel tanto che del profeta tebano continua a raccontarci la mitologia. Dovete dunque sapere, che a costui si convenne, d’uomo ch’egli era, diventar femmina per ben sette anni, se già non fu uomo e donna ad un tempo, come anche in qualche libro si legge. Ed eccovi piana la doppia natura di costoro che oggi ti sono amici e ti leccano, domani ti si dichiarano avversi e ti mordono; e fanno, se occorre, tutte due queste cose ad un tempo, accarezzandoti colla destra e graffiandoti colla sinistra; e mentre guardi da una parte a quel che ti è fatto, hai chi ti fa dalla parte opposta il contrario, ed è la stessa persona; sicchè [p. 26]perdi la conoscenza del vero e non sai più chi abbracciare come amico, e da chi guardarti come da nemico. E anche la favola dei serpi battuti, cagione alla metamorfosi, mi metterebbe in un bel campo d’applicazioni. Ma non è il tempo. Il desiderio più vivo della mia anima sarebbe di veder pur fallita una volta la bottega di questi impostori maligni, e il loro balsamo gettato per terra e calpestato da ognuno che passa. Se non che converrebbe nettarsi i piedi, perchè quel loro empiastro è sì contagioso, che non vi ci arriva il secreto di que’ maledetti untori del secolo decimosesto, che possono maledirsi allegramente come persone che non furono mai.

    Per conchiudere con un poca di consolazione, sapete voi a chi una Dea, se non Pallade, più ritrosa di essa, si è lasciata vedere, senza che ne scapitassero punto gli occhi, nè altro? A’ quel meschinello cacciatore, a quell’Endimione tapino, che tornato dalle sue corse, senza darsi un pensiero al mondo nè di Diana, nè d’altre divinità, si era posto a dormire con appiedi i cani, e un sasso per capezzale sotto la nuca. Oh! egli sì che ha veduto la bellezza invidiata; e dai poeti si dice che ne rimanesse contento. Ora per non cessare dal riferimento del senso allegorico al proprio, sono quelli che continuando la vita in una operosa oziosità, non ristanno mai dal cercare senza darsi vanto di aver trovato, sono quelli, dico, ai quali le verità più riposte spontanee si profferiscono. E non per questo ne rimangono accecati; ma vanno innanzi con eguale circospezione, e non si credono cresciuti d’un ette, quand’anche il mondo volesse gonfiarli delle sue acclamazioni, e por loro sotto il piedestallo, come si fa colle statue. È un vero gusto a vedere imbattersi alcuna volta per istrada Endimione e Tiresia: quello dritto alla posta per cui s’è messo; questo qua e là alla carlona e dove piace condurlo alla ragazza sventata. Il primo non dir parola, ma passar oltre tranquillo, con in mano il guinzaglio a cui tiene appaiati i suoi bracchi vigili a dargli avviso di tutto che avvenne; l’altro vociferando le sue profezie, e promettendo miracoli a chi ha la bonarietà di ascoltarlo. Io so questo e quest’altro, ho veduto ogni cosa e alcun che di più; e si mette la mano agli occhi a mostrare che s’egli è cieco divenne tale dopo aver veduto, e veduto più là che non si concede all’universale. Ma lasciamo che se ne vada alla buon’ora, e con esso la ragazza, e i suoi pronostici peggio che d’almanacco; e se incontriamo alcuna volta il taciturno e prudente Endimione, ora che lo abbiamo conosciuto, salutiamolo amorosamente, e studiamoci di farcelo amico. Vi assicuro che Diana non lo saprà, o sapendolo non ne sarà punto gelosa. E quando è mai stata gelosa la verità?




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