Edizione Italiana
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    Luigi Pulci

    Cantare primo

    In principio era il Verbo appresso a Dio,
    ed era Iddio il Verbo e ’l Verbo Lui:
    questo era nel principio, al parer mio,
    e nulla si può far sanza Costui.
    Però, giusto Signor benigno e pio,
    mandami solo un degli angel tui,
    che m’accompagni e rechimi a memoria
    una famosa, antica e degna storia.

    E tu, Vergine, figlia e madre e sposa
    di quel Signor che ti dètte la chiave
    del Cielo e dell’abisso e d’ogni cosa
    quel dì che Gabriel tuo ti disse «Ave»,
    perché tu se’ de’ tuoi servi pietosa,
    con dolce rime e stil grato e soave
    aiuta i versi miei benignamente
    e ’nsino al fine allumina la mente.

    Era nel tempo quando Filomena
    con la sorella si lamenta e plora,
    ché si ricorda di sua antica pena,
    e pe’ boschetti le ninfe innamora,
    e Febo il carro temperato mena,
    ché ’l suo Fetonte l’ammaestra ancora,
    ed appariva appunto all’orizonte,
    tal che Titon si graffiava la fronte,

    quand’io varai la mia barchetta prima
    per obedir chi sempre obedir debbe
    la mente, e faticarsi in prosa e in rima,
    e del mio Carlo imperador m’increbbe;
    ché so quanti la penna ha posti in cima,
    che tutti la sua gloria prevarrebbe:
    è stata questa istoria, a quel ch’io veggio,
    di Carlo, male intesa e scritta peggio.

    Diceva Leonardo già Aretino
    che s’egli avessi avuto scrittor degno,
    com’egli ebbe un Ormanno e ’l suo Turpino,
    ch’avessi diligenzia avuto e ingegno,
    sarebbe Carlo Magno un uom divino,
    però ch’egli ebbe gran vittorie e regno,
    e fece per la Chiesa e per la Fede
    certo assai più che non si dice o crede.

    Guardisi ancora a San Liberatore,
    quella badia là presso a Menappello
    giù nell’Abruzzi, fatta per suo onore,
    dove fu la battaglia e ’l gran flagello
    d’un re pagan, che Carlo imperadore
    uccise, e tanto del suo popul fello,
    e vedesi tante ossa, e tanti il sanno
    che tante in Giusaffà non ne verranno.

    Ma il mondo cieco e ignorante non prezza
    le sue virtù com’io vorrei vedere.
    E tu, Fiorenzia, della sua grandezza
    possiedi e sempre potrai possedere:
    ogni costume ed ogni gentilezza
    che si potessi acquistare o avere
    col senno, col tesoro e colla lancia,
    dal nobil sangue è venuto di Francia.

    Dodici paladini aveva in corte
    Carlo, e ’l più savio e famoso era Orlando;
    Gan traditor lo condusse alla morte
    in Roncisvalle, un trattato ordinando,
    là dove il corno e’ sonò tanto forte:
    «dopo la dolorosa rotta quando...»,
    nella sua Comedìa Dante qui dice,
    e mettelo con Carlo in Ciel felice.

    Era per pasqua, quella di Natale:
    Carlo la corte avea tutta in Parigi:
    Orlando, com’io dico, è il principale;
    èvvi il Danese, Astolfo ed Ansuigi;
    fannosi feste e cose trïunfale,
    e molto celebravan san Dionigi;
    Angiolin di Baiona ed Ulivieri
    v’era venuto, e ’l gentil Berlinghieri.

    Eravi Avolio ed Avino ed Ottone,
    di Normandia Riccardo paladino,
    e ’l savio Namo e ’l vecchio Salamone,
    Gualtieri da Mulione, e Baldovino
    ch’era figliuol del tristo Ganellone:
    troppo lieto era il figliuol di Pipino,
    tanto che spesso d’allegrezza geme,
    veggendo tutti i paladini insieme.

    Ma la Fortuna attenta sta nascosa
    per guastar sempre ciascun nostro effetto.
    Mentre che Carlo così si riposa,
    Orlando governava in fatto e in detto
    la corte e Carlo Magno ed ogni cosa;
    Gan per invidia scoppia, il maladetto,
    e cominciava un dì con Carlo a dire:
    - Abbiàn noi sempre Orlando a obedire?

    Io ho creduto mille volte dirti:
    Orlando ha in sé troppa presunzione.
    Noi siàn qui conti, re, duchi a servirti,
    e Namo, Ottone, Uggieri e Salamone,
    per onorarti ognun, per obedirti;
    che costui abbia ogni reputazione
    nol sofferrem, ma siam deliberati
    da un fanciullo non esser governati.

    Tu cominciasti insino in Aspramonte
    a dargli a intender che fussi gagliardo
    e facessi gran cose a quella fonte.
    Ma se non fussi stato il buon Gherardo,
    io so che la vittoria era d’Almonte;
    ma egli ebbe sempre l’occhio allo stendardo,
    che si voleva quel dì coronarlo:
    questo è colui c’ha meritato, Carlo.

    Se ti ricorda, già sendo in Guascogna,
    quando e’ vi venne la gente di Spagna,
    il popol de’ cristiani avea vergogna
    s’e’ non mostrava la sua forza magna.
    Il ver convien pur dir quando e’ bisogna:
    sappi ch’ognuno, imperador, si lagna.
    Quant’io per me, ripasserò que’ monti
    ch’io passai in qua con sessantaduo conti.

    La tua grandezza dispensar si vuole
    e far che ciascuno abbi la sua parte;
    la corte tutta quanta se ne duole:
    tu credi che costui sia forse Marte? -
    Orlando un giorno udì queste parole,
    che si sedeva soletto in disparte:
    dispiacquegli di Gan quel che diceva,
    ma molto più che Carlo gli credeva.

    E volle colla spada uccider Gano;
    ma Ulivieri in quel mezzo si mise
    e Durlindana gli trasse di mano,
    e così il me’ che seppe gli divise.
    Orlando si sdegnò con Carlo Mano,
    e poco men che quivi non l’uccise;
    e dipartissi di Parigi solo,
    e scoppia e ’mpazza di sdegno e di duolo.

    A Ermellina, moglie del Danese,
    tolse Cortana, e poi tolse Rondello,
    e inverso Brava il suo camin poi prese.
    Alda la bella, come vide quello,
    per abbracciarlo le braccia distese:
    Orlando, che smarrito avea il cervello,
    com’ella disse: - Ben venga il mio Orlando -
    gli volle in su la testa dar col brando.

    Come colui che la furia consiglia,
    e’ gli pareva a Gan dar veramente:
    Alda la bella si fe’ maraviglia.
    Orlando si ravvide prestamente,
    e la sua sposa pigliava la briglia,
    e scese del caval subitamente;
    ed ogni cosa diceva a costei,
    e riposossi alcun giorno con lei.

    Poi si partì, portato dal furore,
    e terminò passare in Pagania;
    e mentre che cavalca, il traditore
    di Gan sempre ricorda per la via.
    E cavalcando d’uno in altro errore,
    in un deserto truova una badia,
    in luoghi scuri e paesi lontani,
    ch’era a’ confin tra’ Cristiani e’ Pagani.

    L’abate si chiamava Chiaramonte:
    era del sangue disceso d’Angrante.
    Di sopra alla badia v’era un gran monte
    dove abitava alcun fero gigante,
    de’ quali uno avea nome Passamonte,
    l’altro Alabastro, e ’l terzo era Morgante:
    con certe frombe gittavan da alto,
    ed ogni dì facevan qualche assalto.

    I monachetti non potieno uscire
    del monistero o per legne o per acque.
    Orlando picchia, e non voleano aprire,
    fin ch’ a l’abate alla fine pur piacque.
    Entrato dentro, cominciava a dire
    come Colui che di Maria già nacque
    adora, ed era cristian battezato,
    e come egli era alla badia arrivato.

    Disse l’abate: - Il ben venuto sia.
    Di quel ch’io ho, volentier ti daremo,
    poi che tu credi al Figliuol di Maria;
    e la cagion, cavalier, ti diremo,
    acciò che non la imputi villania,
    perché all’entrar resistenzia facemo
    e non ti volle aprir quel monachetto:
    così intervien chi vive con sospetto.

    Quand’io ci venni al principio abitare,
    queste montagne, ben che sieno oscure
    come tu vedi, pur si potea stare
    sanza sospetto, ché l’eran sicure;
    sol dalle fiere t’avevi a guardare:
    fernoci spesso di strane paure.
    Or ci bisogna, se vogliamo starci,
    dalle bestie dimestiche guardarci.

    Queste ci fan più tosto stare a segno:
    sonci appariti tre feri giganti,
    non so di qual paese o di qual regno;
    ma molto son feroci tutti quanti.
    La forza e ’l mal voler giunta allo ’ngegno
    sai che può il tutto; e noi non siàn bastanti:
    questi perturban sì l’orazion nostra
    ch’io non so più che far, s’altri nol mostra.

    Gli antichi padri nostri nel deserto,
    se le loro opre sante erano e giuste,
    del ben servir da Dio n’avean buon merto;
    né creder sol vivessin di locuste:
    piovea dal ciel la manna, questo è certo;
    ma qui convien che spesso assaggi e guste
    sassi che piovon di sopra quel monte,
    che gettano Alabastro e Passamonte.

    Il terzo, che è Morgante, assai più fero,
    isveglie e pini e’ faggi e’ cerri e gli oppi,
    e gettagli insin qui, questo è pur vero:
    non posso far che d’ira non iscoppi. -
    Mentre che parlan così in cimitero,
    un sasso par che Rondel quasi sgroppi,
    che da’ giganti giù venne da alto,
    tanto che e’ prese sotto il tetto un salto.

    Tìrati drento, cavalier, per Dio! -
    disse l’abate - ché la manna casca. -
    Rispose Orlando: - Caro abate mio,
    costui non vuol che ’l mio caval più pasca:
    veggo che lo guarrebbe del restio;
    quel sasso par che di buon braccio nasca. -
    Rispose il santo padre: - Io non t’inganno:
    credo che ’l monte un giorno gitteranno. -

    Orlando governar fece Rondello
    ed ordinar per sé da collezione;
    poi disse: - Abate, io voglio andare a quello
    che dètte al mio caval con quel cantone. -
    Disse l’abate: - Come car fratello
    consiglierotti sanza passïone:
    io ti sconforto, baron, di tal gita,
    ch’io so che tu vi lascerai la vita.

    Quel Passamonte porta in man tre dardi,
    chi frombe, chi baston, chi mazzafrusti:
    sai che’ giganti più di noi gagliardi
    son, per ragion che sono anco più giusti;
    e pur se vuoi andar, fa’ che ti guardi,
    ché questi son villan molto e robusti. -
    Rispose Orlando: - Io lo vedrò per certo. -
    Ed avvïossi a piè sù pel deserto.

    L’abate il crocïon gli fece in fronte:
    - Va’, che da Dio e me sia benedetto. -
    Orlando, poi che salito ebbe il monte,
    si dirizzò, come l’abate detto
    gli aveva, dove sta quel Passamonte;
    il quale, Orlando veggendo soletto,
    molto lo squadra di drieto e davante,
    poi domandò se star volea per fante;

    e prometteva di farlo godere.
    Orlando disse: - Pazzo saracino,
    io vengo a te, come è di Dio volere,
    per darti morte, e non per ragazzino;
    a’ monaci suoi fatto hai dispiacere:
    non può più comportarti, can meschino. -
    Questo gigante armar si corse a furia,
    quando sentì ch’ e’ gli diceva ingiuria.

    E ritornato ove aspettava Orlando,
    il qual non s’era partito da bomba,
    sùbito venne la corda girando,
    e lascia un sasso andar fuor della fromba,
    che in sulla testa giugnea rotolando
    al conte Orlando, e l’elmetto rimbomba;
    e cadde per la pena tramortito,
    ma più che morto par, tanto è stordito.

    Passamonte pensò che fussi morto,
    e disse: «Io voglio andarmi a disarmare;
    questo poltron, per chi m’aveva scorto?».
    Ma Cristo i suoi non suole abandonare,
    massime Orlando, ch’Egli arebbe il torto.
    Mentre il gigante l’arme va a spogliare,
    Orlando in questo tempo si risente
    e rivocava e la forza e la mente.

    E gridò forte: - Gigante, ove vai?
    Ben ti pensasti d’avermi ammazzato!
    Volgiti addrieto, ché se alie non hai
    non puoi da me fuggir, can rinnegato:
    a tradimento ingiurïato m’hai! -
    Donde il gigante allor maravigliato
    si volse addrieto e riteneva il passo;
    poi si chinò per tòr di terra un sasso.

    Orlando avea Cortana ignuda in mano;
    trasse alla testa, e Cortana tagliava:
    per mezzo il teschio partì del pagano,
    e Passamonte morto rovinava;
    e nel cadere il superbo e villano
    divotamente Macon bestemiava;
    ma mentre che bestemia il crudo e acerbo,
    Orlando ringraziava il Padre e ’l Verbo,

    dicendo: - Quanta grazia oggi m’hai data!
    Sempre ti sono, o Signor mio, tenuto:
    per te cognosco la vita salvata,
    però che dal gigante ero abbattuto;
    ogni cosa a ragion fai misurata:
    non val nostro poter sanza ’l tuo aiuto.
    Priegoti sopra me tenghi la mano,
    tanto ch’ancor ritorni a Carlo Mano. -

    Poi ch’ebbe questo detto, se n’andòe
    tanto che truova Alabastro più basso,
    che si sforzava, quando e’ lo trovòe,
    di sveglier d’una ripa fuori un masso.
    Orlando, come e’ giunse a quel, gridòe:
    - Che pensi tu, ghiotton, gittar quel sasso? -
    Quando Alabastro questo grido intende,
    subitamente la sua fromba prende,

    e trasse d’una pietra molto grossa,
    tanto ch’Orlando bisognò schermisse,
    ché se l’avessi giunto la percossa
    non bisognava il medico venisse.
    Orlando adoperò poi la sua possa:
    nel pettignon tutta la spada misse,
    e morto cadde questo badalone,
    e non dimenticò però Macone.

    Morgante aveva a suo modo un palagio
    fatto di frasche e di schegge e di terra;
    quivi, secondo lui, si posa ad agio,
    quivi la notte si rinchiude e serra.
    Orlando picchia, e daràgli disagio,
    per che il gigante dal sonno si sferra;
    vennegli aprir come una cosa matta,
    ch’un’aspra visïone aveva fatta.

    E’ gli parea ch’un feroce serpente
    l’avea assalito, e chiamar Macometto;
    ma Macometto non valea nïente;
    onde e’ chiamava Iesù benedetto,
    e liberato l’avea finalmente.
    Venne alla porta ed ebbe così detto:
    - Chi bussa qua? - pur sempre borbottando.
    - Tu ’l saprai tosto - gli rispose Orlando.

    Vengo per farti come a’ tuoi fratelli;
    son de’ peccati tuoi la penitenzia,
    da’ monaci mandato cattivelli,
    come stato è divina providenzia:
    pel mal ch’avete fatto a torto a quelli,
    è data in Ciel così questa sentenzia.
    Sappi che freddo già più ch’un pilastro
    lasciato ho Passamonte e ’l tuo Alabastro. -

    Disse Morgante: - O gentil cavaliere,
    per lo tuo Iddio non mi dir villania.
    Di grazia, il nome tuo vorrei sapere;
    se se’ cristian, deh, dillo in cortesia. -
    Rispose Orlando: - Di cotal mestiere
    contenterotti, per la fede mia:
    adoro Cristo, che è Signor verace,
    e puoi tu adorarlo, se ti piace. -

    Rispose il saracin con umil voce:
    - Io ho fatta una strana visïone,
    che m’assaliva un serpente feroce:
    non mi valeva, per chiamar, Macone;
    onde al tuo Iddio che fu confitto in croce
    rivolsi presto la mia divozione;
    e’ mi soccorse e fui libero e sano,
    e son disposto al tutto esser cristiano. -

    Rispose Orlando: - Baron giusto e pio,
    se questo buon voler terrai nel core,
    l’anima tua arà quel vero Iddio
    che ci può sol gradir d’eterno onore;
    e s’ tu vorrai, sarai compagno mio
    ed amerotti con perfetto amore;
    gl’idoli vostri son bugiardi e vani,
    e ’l vero Iddio è lo Dio de’ cristiani.

    Venne questo Signor sanza peccato
    nella sua madre virgine pulzella.
    Se cognoscessi quel Signor beato
    sanza ’l qual non risplende sole o stella,
    aresti già Macon tuo rinnegato
    e la sua fede iniqua, ingiusta e fella:
    battézati al mio Iddio di buon talento. -
    Morgante gli rispose: - Io son contento. -

    E corse Orlando sùbito abbracciare.
    Orlando gran carezze gli facea,
    e disse: - Alla badia ti vo’ menare. -
    Morgante: - Andianvi presto: - rispondea
    - co’ monaci la pace si vuol fare. -
    Della qual cosa Orlando in sé godea,
    dicendo: - Fratel mio divoto e buono,
    io vo’ che chiegga all’abate perdono.

    Da poi che Iddio ralluminato t’ha
    ed accettato per la sua umiltade,
    vuolsi tu usi anco tu umilità. -
    Disse Morgante: - Per la tua bontade,
    poi che il tuo Iddio mio sempre omai sarà,
    dimmi del nome tuo la veritade;
    poi, che di me dispor puoi al tuo comando. -
    Onde e’ gli disse com’egli era Orlando.

    Disse il gigante: - Gesù benedetto
    per mille volte ringraziato sia:
    sentito t’ho nomar, baron perfetto,
    per tutti i tempi della vita mia;
    e com’io dissi, sempre mai suggetto
    esser ti vo’ per la tua gagliardia. -
    Insieme molte cose ragionaro,
    e ’nverso la badia poi s’invïaro.

    E fêr la via da quei giganti morti.
    Orlando con Morgante si ragiona:
    - Della lor morte vo’ che ti conforti,
    e poi che piace a Cristo, a me perdona;
    a’ monaci avean fatti mille torti,
    e la nostra Scrittura aperto suona:
    il ben remunerato e ’l mal punito;
    e mai non ha questo Signor fallito;

    però ch’Egli ama la giustizia tanto
    che vuol che sempre il suo giudicio morda
    ognun ch’abbi peccato tanto o quanto;
    e così il ben ristorar si ricorda,
    e non saria sanza giustizia santo.
    Adunque al suo voler presto t’accorda,
    ché debbe ognun voler quel che vuol Questo,
    ed accordarsi volentieri e presto.

    E sonsi i nostri dottori accordati,
    pigliando tutti una conclusïone,
    che que’ che son nel Ciel glorificati,
    s’avessin nel pensier compassïone
    de’ miseri parenti che dannati
    son nello inferno in gran confusïone,
    la lor felicità nulla sarebbe;
    e vedi che qui ingiusto Iddio parrebbe.

    Ma egli hanno posto in Iesù ferma spene,
    e tanto pare a lor quanto a Lui pare;
    afferman ciò che E’ fa, che facci bene,
    e che E’ non possi in nessun modo errare;
    se padre o madre è nell’eterne pene,
    di questo e’ non si posson conturbare,
    ché quel che piace a Dio, sol piace a loro:
    questo s’osserva nello eterno coro.

    Al savio suol bastar poche parole: -
    disse Morgante - tu il potrai vedere
    de’ miei fratelli, Orlando, se mi duole,
    e s’io m’accorderò di Dio al volere
    come tu di’ che in Ciel servar si suole.
    Morti co’ morti; or pensian di godere;
    io vo’ tagliar le mani a tutti quanti
    e porterolle a que’ monaci santi,

    acciò ch’ognun sia più sicuro e certo
    come e’ son morti, e non abbin paura
    andar soletti per questo deserto;
    e perché vegga la mia mente pura
    a quel Signor che m’ha il suo regno aperto
    e tratto fuor di tenebre sì oscura. -
    E poi tagliò le mani a’ due fratelli,
    e lasciagli alle fiere ed agli uccelli.

    Alla badia insieme se ne vanno,
    ove l’abate assai dubioso aspetta;
    e’ monaci, che ’l fatto ancor non sanno,
    correvono all’abate tutti in fretta,
    dicendo paürosi e pien d’affanno:
    - Volete voi costui drento si metta? -
    Quando l’abate vedeva il gigante,
    si turbò tutto nel primo sembiante.

    Orlando, che turbato così il vede,
    gli disse presto: - Abate, datti pace:
    questo è cristiano e in Cristo nostro crede,
    e rinnegato ha il suo Macon fallace. -
    Morgante i moncherin mostrò per fede
    come i giganti ciascun morto giace;
    donde l’abate ringraziava Iddio,
    dicendo: - Or m’hai contento, Signor mio. -

    E riguardava e squadrava Morgante
    la sua grandezza ed una volta e due;
    e poi gli disse: - O famoso gigante,
    sappi ch’io non mi maraviglio piùe
    che tu svegliessi e gittassi le piante,
    quand’io riguardo or le fattezze tue.
    Tu sarai or perfetto e vero amico
    a Cristo, quanto tu gli eri nimico.

    Un nostro apostol, Saül già chiamato,
    perseguì molto la fede di Cristo.
    Un giorno poi, dallo Spirto infiammato,
    «Perché pur mi persegui?» disse Cristo.
    E’ si ravvide allor del suo peccato;
    andò poi predicando sempre Cristo,
    e fatto è or della fede una tromba,
    la qual per tutto risuona e rimbomba.

    Così farai tu ancor, Morgante mio;
    e chi s’emenda, è scritto nel Vangelo
    che maggior festa fa d’un solo Iddio
    che di novantanove altri sù in Cielo.
    Io ti conforto ch’ogni tuo desio
    rivolga a quel Signor con giusto zelo,
    ché tu sarai felice in sempiterno,
    ch’eri perduto e dannato allo inferno. -

    E grande onore a Morgante faceva
    l’abate, e molti dì si son posati.
    Un giorno, come a Orlando piaceva,
    a spasso in qua ed in là si sono andati.
    L’abate in una camera sua aveva
    molte armadure e certi archi appiccati:
    Morgante gliene piacque un che ne vede,
    onde e’ sel cinse, benché oprar nol crede.

    Avea quel luogo d’acqua carestia.
    Orlando disse: - Come buon fratello,
    Morgante, vo’ che di piacer ti sia
    andar per l’acqua. - Onde e’ rispose a quello:
    - Comanda ciò che vuoi, ché fatto fia. -
    E posesi in ispalla un gran tinello
    ed avvïossi là verso una fonte,
    dove e’ solea ber sempre appiè del monte.

    Giunto alla fonte, sente un gran fracasso
    di sùbito venir per la foresta.
    Una saetta cavò del turcasso,
    posela all’arco ed alzava la testa.
    Ecco apparire una gran gregge, al passo,
    di porci, e vanno con molta tempesta,
    ed arrivorno alla fontana appunto,
    donde il gigante è da lor sopraggiunto.

    Morgante alla ventura a un saetta:
    appunto nell’orecchio lo ’ncartava;
    dall’altro lato passò la verretta,
    onde ’l cinghial giù morto gambettava.
    Un altro, quasi per farne vendetta,
    addosso al gran gigante irato andava;
    e perché e’ giunse troppo tosto al varco,
    non fu Morgante a tempo a trar coll’arco.

    Vedendosi venuto il porco addosso,
    gli dètte in su la testa un gran punzone,
    per modo che gl’infranse insino all’osso,
    e morto allato a quell’altro lo pone.
    Gli altri porci, veggendo quel percosso,
    si misson tutti in fuga pel vallone.
    Morgante si levò il tinello in collo,
    ch’era pien d’acqua, e non si muove un crollo.

    Dall’una spalla il tinello avea posto,
    dall’altra i porci, e spacciava il terreno;
    e torna alla badia, ch’è pur discosto,
    ch’una gocciola d’acqua non va in seno.
    Orlando, che ’l vedea tornar sì tosto
    co’ porci morti e con quel vaso pieno,
    maravigliossi che sia tanto forte;
    così l’abate; e spalancan le porte.

    I monaci, veggendo l’acqua fresca,
    si rallegrorno, ma più de’ cinghiali,
    ch’ogni animal si rallegra dell’esca;
    e posono a dormire i brevïali.
    Ognun s’affanna, e non par che gl’incresca,
    acciò che questa carne non s’insali
    e che poi secca sapessi di vieto;
    e le digiune si restorno addrieto.

    E ferno a scoppiacorpo per un tratto,
    e scuffian che parean dell’acqua usciti,
    tanto che ’l can se ne doleva e ’l gatto,
    ché gli ossi rimanean troppo puliti.
    L’abate, poi che molto onore ha fatto
    a tutti, un dì, dopo questi conviti,
    dètte a Morgante un destrier molto bello,
    che lungo tempo tenuto avea quello.

    Morgante in su ’n un prato il caval mena
    e vuol che corra e che facci ogni pruova,
    e pensa che di ferro abbi la schiena,
    o forse non credeva schiacciar l’uova.
    Questo caval s’accoscia per la pena,
    e scoppia e in sulla terra si ritruova.
    Dice Morgante: - Lieva sù, rozzone. -
    E va pur punzecchiando collo sprone.

    Ma finalmente convien ch’egli smonte,
    e disse: - Io son pur leggier come penna,
    ed è scoppiato; che ne di’ tu, conte? -
    Rispose Orlando: - Un albero d’antenna
    mi par’ più tosto, e la gaggia la fronte.
    Lascialo andar, ché la fortuna accenna
    che meco a piede ne venga, Morgante.
    - Ed io così verrò - disse il gigante.

    Quando sarà mestier, tu mi vedrai
    com’io mi proverrò nella battaglia. -
    Orlando disse: - Io credo tu farai
    come buon cavalier, se Dio mi vaglia;
    ed anco me dormir non mirerai.
    Di questo tuo caval non te ne caglia:
    vorrebbesi portarlo in qualche bosco,
    ma il modo né la via non ci conosco. -

    Disse il gigante: - Io il porterò ben io,
    da poi che portar me non ha voluto,
    per render ben per mal, come fa Iddio;
    ma vo’ ch’a porlo addosso mi dia aiuto. -
    Orlando gli dicea: - Morgante mio,
    s’al mio consiglio ti sarai attenuto,
    questo caval tu non vel porteresti,
    ché ti farà come tu a lui facesti.

    Guarda che non facessi la vendetta
    come fece già Nesso, così morto:
    non so se la sua istoria hai intesa o letta;
    e’ ti farà scoppiar, datti conforto. -
    Disse Morgante: - Aiuta ch’io mel metta
    addosso, e poi vedrai s’io ve lo porto:
    io porterò, Orlando mio gentile,
    con le campane là quel campanile. -

    Disse l’abate: - Il campanil v’è bene,
    ma le campane voi l’avete rotte. -
    Dicea Morgante: - E’ ne porton le pene
    color che morti son là in quelle grotte. -
    E levossi il cavallo in su le schiene,
    e disse: - Guarda s’io sento di gotte,
    Orlando, nelle gambe, o s’io lo posso. -
    E fe’ duo salti col cavallo addosso.

    Era Morgante come una montagna:
    se facea questo, non è maraviglia.
    Ma pure Orlando con seco si lagna,
    perché pure era omai di sua famiglia:
    temenza avea non pigliassi magagna;
    un’altra volta costui riconsiglia:
    - Posalo ancor, nol portare al deserto. -
    Disse il gigante: - Io il porterò per certo. -

    E portollo e gittollo in luogo strano,
    e torna alla badia subitamente.
    Diceva Orlando: - Or che più dimoriàno?
    Morgante, qui non facciàn noi nïente. -
    E prese un giorno l’abate per mano,
    e disse a quel molto discretamente
    che vuol partir dalla sua riverenzia
    e domandava e perdono e licenzia;

    e degli onor ricevuti da questo
    qualche volta, potendo, arà buon merito.
    E dice: - Io intendo ristorare, e presto,
    i persi giorni del tempo preterito;
    e son più dì che licenzia arei chiesto,
    benigno padre, se non ch’io mi perito:
    non so mostrarvi quel che drento sento,
    tanto vi veggo del mio star contento.

    Io me ne porto per sempre nel core
    l’abate, la badia, questo deserto,
    tanto v’ho posto in picciol tempo amore:
    rendavi sù nel Ciel per me buon merto
    quel vero Iddio, quello eterno Signore
    che vi serba il suo regno al fine aperto.
    Noi aspettiam vostra benedizione;
    raccomandianci alle vostre orazione. -

    Quando l’abate il conte Orlando intese,
    rintenerì nel cor per la dolcezza,
    tanto fervor nel petto se gli accese,
    e disse: - Cavalier, se a tua prodezza
    non sono stato benigno e cortese
    come conviensi alla gran gentilezza,
    ché so che ciò ch’i’ ho fatto è stato poco,
    incolpa l’ignoranzia nostra e il loco.

    Noi ti potremo di messe onorare,
    di prediche, di laude e paternostri,
    più tosto che da cena o desinare
    o d’altri convenevol che da chiostri.
    Tu m’hai di te sì fatto innamorare,
    per mille alte eccellenzie che tu mostri,
    ch’io me ne vengo, ove tu andrai, con teco,
    e d’altra parte tu resti qui meco:

    tanto ch’a questo par contraddizione;
    ma so che tu se’ savio e intendi e gusti,
    e intendi il mio parlar per discrezione.
    De’ benefici tuoi pietosi e giusti
    renda il Signore a te munerazione,
    da cui mandato in queste selve fusti;
    per le virtù del qual liberi siamo,
    e grazia a Lui ed a te ne rendiamo.

    Tu ci hai salvato l’anima e la vita:
    tanta perturbazion già que’ giganti
    ci dètton, che la strada era smarrita
    di ritrovar Gesù cogli altri santi;
    però troppo ci duol la tua partita,
    e sconsolati restiàn tutti quanti;
    né ritener possianti i mesi e gli anni,
    ché tu non se’ da vestir questi panni,

    ma da portar la lancia e l’armadura;
    e puossi meritar con essa come
    con questa cappa, e leggi la Scrittura.
    Questo gigante al Ciel drizzò le some
    per tua virtù; va’ in pace a tua ventura,
    chi tu ti sia, ch’io non ricerco il nome,
    ma dirò sempre, s’io son domandato,
    ch’un angel qui da Dio fussi mandato,

    Se ci è armadura o cosa che tu voglia,
    vattene in zambra e pigliane tu stessi,
    e cuopri a questo gigante la scoglia. -
    Rispose Orlando: - S’armadura avessi,
    prima che noi uscissin della soglia,
    che questo mio compagno difendessi,
    questo accetto io, e saràmi piacere. -
    Disse l’abate: - Venite a vedere. -

    E in certa cameretta entrati sono
    che d’armadure vecchie era copiosa;
    dicea l’abate: - Tutte ve le dono. -
    Morgante va rovistando ogni cosa;
    ma solo un certo sbergo gli fu buono,
    ch’avea tutta la maglia rugginosa:
    maravigliossi che lo cuopra appunto,
    ché mai più gnun forse glien’era aggiunto.

    Questo fu d’un gigante smisurato
    ch’a la badia fu morto per antico
    dal gran Millon d’Angrante, che arrivato
    v’era, se appunto questa storia dico;
    ed era nelle mura istorïato
    come e’ fu morto questo gran nimico
    che fece alla badia già lunga guerra;
    e Millon v’è come e’ l’abbatte in terra.

    Veggendo questa istoria, il conte Orlando
    fra suo cor disse: «O Dio, che sai sol tutto,
    come venne Millon qui capitando,
    che ha questo gigante qua distrutto?».
    E lesse certe letter lacrimando,
    ché non poté tener più il viso asciutto,
    come io dirò nella seguente istoria.
    Di mal vi guardi il Re dell’alta gloria.




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