Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Luigi Pulci

    Cantare quarto

    Gloria in excelsis Deo e in terra pace,
    Padre e Figliuolo ed Ispirito santo;
    benedicimus te, Signor verace,
    laudamus te, Signor, con umil canto,
    poi che per tua benignità ti piace
    l’abate nostro qui consolar tanto,
    e le mie rime accompagnar per tutto,
    tanto che il fior produca alfin buon frutto.

    Era nel tempo ch’ognun s’innamora
    e ch’a scherzar comincian le farfalle,
    e ’l sol, ch’avea passata l’ultima ora,
    verso il Murrocco chinava le spalle;
    la luna appena corneggiava ancora,
    de’ monti l’ombra copriva ogni valle,
    quando Rinaldo all’abate ritocca
    che ’l nome suo non tenessi più in bocca.

    Rispose: - Chiaramonte è il nome mio -
    benignamente a Rinaldo l’abate.
    Dopo alcun giorno, acceso dal desio,
    disse Rinaldo: - Io vo’ che voi ci diate
    omai licenzia col nome di Dio:
    io ho a Parigi mie gente lasciate,
    per ch’io non credo che ’l dì mai veggiamo
    di ritrovar colui che noi cerchiamo. -

    L’abate, ch’era prudente e saputo,
    disse: - Rinaldo, benché duol mi fia,
    ché mai qui mi saresti rincresciuto,
    credo che questo buon concetto sia.
    Io son contento poi ch’io t’ho veduto:
    so che questa sarà la parte mia,
    di rivedervi più, ch’egli è ragione;
    però vi do la mia benedizione.

    Se di vedere Orlando è il tuo pensiero,
    vattene in pace, caro mio fratello;
    Dio t’accompagli per ogni sentiero
    o come fece Tobia Rafaello. -
    Disse Rinaldo: - Così priego e spero:
    rivedrenci nel Ciel sù presso a Quello
    che de’ suoi servi arà giusta merzede
    che combatton qua giù per la sua fede. -

    Rinaldo si partì da Chiaramonte
    ed Ulivieri e Dodon, sospirando;
    va cavalcando per piano e per monte
    per la gran voglia di vedere Orlando:
    «Quando sarà quel dì, famoso conte»,
    dicea fra sé, «ch’io ti rivegga, quando?
    Non mi dorrà per certo poi la morte
    s’io ti ritruovo e riconduco in corte».

    Era dinanzi Rinaldo a cavallo
    ed Ulivier lo seguiva e Dodone
    per un oscuro bosco sanza fallo,
    dove si scuopre un feroce dragone
    coperto di stran cuoio verde e giallo,
    che combatteva con un gran lïone.
    Rinaldo al lume della luna il vede,
    ma che quel fussi drago ancor non crede.

    Ed Ulivier più volte aveva detto,
    sì come avvien chi cavalca di notte:
    - Io veggo un fuoco appiè di quel poggetto:
    gente debbe abitar per queste grotte. -
    Egli era quel serpente maladetto
    che getta fiamma per bocca ta’ dotte,
    ch’una fornace pareva in calore
    e tutto il bosco copria di splendore.

    E il lïon par che con lui s’accapigli
    e colle branche e co’ denti lo roda,
    ed or pel collo, or nel petto lo pigli;
    e ’l drago avvolta gli aveva la coda
    e presol colla bocca e cogli artigli
    per modo tal che da lui non si snoda;
    e non pareva al lïone anco giuoco
    quando per bocca e’ vomitava fuoco.

    Baiardo cominciò forte annitrire
    come e’ conobbe il serpente da presso;
    Vegliantin d’Ulivier volea fuggire,
    quel di Dodon si volge addrieto spesso,
    ché ’l fiato del dragon si fa sentire.
    Ma pur Rinaldo innanzi si fu messo,
    e increbbegli di quel lïon, che perde
    a poco a poco e rimaneva al verde.

    E terminò di dargli alfin soccorso
    e che non fussi dal serpente morto:
    Baiardo sprona e tempera col morso,
    tanto che presso a quel drago l’ha porto,
    che si studiava co’ graffi e col morso,
    tal che condotto ha il lïone a mal porto;
    ma invocò prima l’aiuto di sopra
    che cominciassi sì terribile opra.

    Ed adorando sentiva una voce
    che gli dicea: - Non temer, baron dotto,
    del gran serpente rigido e feroce:
    tosto sarà per tua mano al disotto. -
    Disse Rinaldo: - O Signor mio che in croce
    moristi, io ti ringrazio di tal motto. -
    E trasse con Frusberta a quel dragone,
    e mancò poco e’ non dètte al lïone

    Parve il lïon di ciò fussi indovino,
    e quanto può dal serpente si spicca,
    veggendosi in aiuto il paladino.
    Frusberta addosso al dragon non s’appicca,
    perché il dosso era più che d’acciaio fino;
    trasse di punta, e ’l brando non si ficca,
    che solea pur forar corazze e maglie:
    sì dure aveva il serpente le scaglie.

    Disse Rinaldo: «E’ fia di Satanasso
    il cuoio che ’l serpente porta addosso,
    poi che di punta col brando nol passo
    e che col taglio levar non ne posso»;
    e lascia pur la spada andare in basso
    credendo a questo tagliare alfin l’osso:
    Frusberta balza e faceva faville;
    così de’ colpi gli diè forse mille.

    E quel lïon lo teneva pur fermo,
    quasi dicessi: «S’io lo tengo saldo,
    non arà sempre a ogni colpo schermo».
    Ma poi che molto ha bussato Rinaldo,
    e cognoscea che questo crudel vermo
    l’offendea troppo col fiato e col caldo,
    se gli accostava e prese un tratto il collo,
    e spiccò il capo che parve d’un pollo.

    Fuggito s’era Ulivieri e Dodone,
    che i lor destrier non poteron tenere.
    Come e’ fu morto quel fiero dragone,
    balzato il capo e caduto a giacere,
    verso Rinaldo ne venne il lïone
    e cominciava a leccare il destriere:
    parea che render gli volessi grazia;
    di far festa a Rinaldo non si sazia.

    Ed avvïossi con esso alla briglia.
    Rinaldo disse: - Virgin grazïosa,
    poi che mostrata m’hai tal maraviglia,
    ancor ti priego, Regina pietosa,
    che mi dimostri onde la via si piglia
    per questa selva così paürosa
    di ritrovare Ulivieri e Dodone,
    o tu mi fa’ fare scorta al lïone. -

    Parve che questo il lïone intendessi
    e cominciava innanzi a caminare,
    come se «drieto mi verrai» dicessi.
    Rinaldo si lasciava a lui guidare,
    ché i boschi v’eran sì folti e sì spessi
    che fatica era il sentiero osservare;
    ma quel lïone appunto sa i sentieri,
    e ritrovò Dodone ed Ulivieri.

    Era Ulivier tutto malinconoso
    e del cavallo in terra dismontato;
    così Dodone, e piangea doloroso,
    e indrieto inverso Rinaldo è tornato
    per dar soccorso al paladin famoso;
    ed Ulivieri aveva ragionato:
    - Penso che morto Rinaldo vedremo
    da quel serpente, e tardi giugneremo. -

    E non sapean ritrovar il cammino;
    erano entrati in certe strette valli.
    Ecco Rinaldo e ’l lïon già vicino:
    maravigliossi, e cominciò a guardalli;
    vide Ulivier non avea Vegliantino;
    disse: «Costoro ove aranno i cavalli?
    A qualche fera si sono abbattuti,
    dove egli aranno i lor destrier perduti».

    Ulivier, quando Rinaldo vedeva,
    non si può dir se pareva contento,
    e disse: - Veramente io mi credeva
    ch’omai tu fussi della vita spento. -
    E poi che allato il lïone scorgeva
    al lume della luna, ebbe spavento.
    Disse Rinaldo: - Ulivier, non temere
    che quel lïon ti facci dispiacere.

    Sappi che morto è quel dragon crudele,
    e liberato ho questo mio compagno
    che meco or vien come amico fedele,
    ed aren fatto di lui buon guadagno:
    prima che forse la luna si cele,
    tratti ci arà questo lïon grifagno
    del bosco, e guideracci a buon camino.
    Ma dimmi, hai tu perduto Vegliantino? -

    Ulivier si scusò con gran vergogna:
    - Come tu fusti alle man col dragone,
    i destrier ci hanno grattata la rogna
    tra mille sterpi e per ogni burrone;
    ognun voleva far quel che bisogna
    per aiutarti, come era ragione,
    ma ritener non gli potemo mai,
    tanto che forse di noi ti dorrai.

    Noi gli lasciamo presso a una fonte,
    perché pur quivi si fermorno a bere:
    quivi legati appiè gli abbiàn del monte,
    ed or di te venavamo a sapere
    se rotta avevi al serpente la fronte
    o da lui morto restavi a giacere. -
    Disse Rinaldo: - Pe’ cavalli andiamo,
    e tra noi scusa, Ulivier, non facciamo. -

    Ritrovorno ciascuno il corridore.
    Dicea Rinaldo: - Or da toccar col dente
    non credo che si truovi insin che fore
    usciàn del bosco o troviamo altra gente.
    Così stessi tu, Carlo imperadore,
    che vuoi ch’io vada pel mondo dolente!
    così stessi tu, Gan, com’io sto ora!
    Ma forse peggio star ti farò ancora. -

    E così cavalcando con sospetto,
    Rinaldo si dolea del suo destino;
    e quel lïone innanzi va soletto
    sempre mostrando a costoro il camino;
    e poi ch’egli hanno salito un poggetto,
    ebbon veduto un lume assai vicino:
    ché in una grotta abitava un gigante,
    ed un gran fuoco s’avea fatto avante.

    Una capanna di frasche avea fatto
    ed appiccato a una sua caviglia
    un cervio, e della pelle l’avea tratto.
    Sente i cavagli al pestare e la briglia:
    sùbito prese la caviglia il matto,
    come colui che poco si consiglia:
    a Ulivieri furioso più che orso
    addosso presto la bestia fu corso.

    Ulivier vide quella mazza grossa
    e del gigante la mente superba;
    volle fuggirlo: intanto una percossa
    giunse nel petto sì forte e sì acerba
    che, bench’avessi il baron molta possa,
    di Vegliantin si trovava in sull’erba.
    Rinaldo, quando Ulivier vide in terra,
    non domandar quanto dolor l’afferra;

    e disse: - Ribaldon, ghiotton da forche,
    che mille volte so l’hai meritate!
    Prima che sotto la luna si corche
    io ti meriterò di tal derrate. -
    Questo bestion con sue parole porche
    disse: - A te non darò se non gotate.
    Che se’ tu tratto, del cervio a l’odore?
    Tu debbi essere un ghiotto o furatore. -

    Rinaldo ch’avea poca pazïenza,
    dètte in sul viso al gigante col guanto,
    e fu quel pugno di tanta potenza
    che tutto quanto il mostaccio gli ha infranto,
    dicendo: - Iddio non ci are’ sofferenza. -
    Pure il gigante, rïavuto alquanto,
    arrandellò la caviglia a Rinaldo,
    ché d’altro che di sol gli vuol dar caldo.

    Rinaldo il colpo schifò molto destro
    e fe’ Baiardo saltar come un gatto:
    combatter co’ giganti era maestro,
    sapeva appunto ogni lor colpo ed atto.
    Parve il randello uscissi d’un balestro.
    Rinaldo menò il pugno un altro tratto,
    e fu sì grande questo mostaccione
    che morto cadde il gigante boccone.

    E poco men che non fe’ come e’ suole
    il drago, quando uccide il leofante,
    che non s’avvede, tanto è sciocco e fole,
    che nel cader quello animal pesante
    l’uccide, ché gli è sotto, onde e’ si duole:
    così Rinaldo a questo fu ignorante,
    ché quando e’ cadde il gigante gagliardo
    ischiacciò quasi Rinaldo e Baiardo.

    E con fatica gli uscì poi di sotto,
    e bisognò che Dodon l’aiutassi.
    Disse Rinaldo: - Io non pensai di botto
    così il gigante in terra rovinassi,
    ond’io n’ho quasi pagato lo scotto.
    E’ disse ch’a l’odor d’un cervio trassi:
    alla sua capannetta andiamo un poco,
    dove si vede colassù quel fuoco. -

    Allor tutti smontaron dell’arcione,
    alla capanna furono avvïati;
    vidono il cervio; diceva Dodone:
    - Forse che mal non saren capitati. -
    Fece d’un certo ramo uno schidone.
    Rinaldo intanto tre pani ha trovati
    e pien di strana cervogia un barlotto,
    e disse: - Il cervio mi sa di biscotto. -

    Erano i pan come un fondo di tino,
    tanto ch’a dirlo pur mi raccapriccio.
    Disse Rinaldo: - Se ci è il pane e ’l vino,
    ch’aspettian noi, Dodon? Qua sa d’arsiccio. -
    Dicea Dodone: - Aspetta un tal pochino,
    tanto che lievi la crosta sù il riccio. -
    Disse Rinaldo: - Più non l’arrostiàno,
    ché ’l cervio molto cotto è poco sano. -

    Disse Dodone: - Io t’ho inteso, Rinaldo:
    il gorgozzul ti debbe pizzicare:
    se non è cotto, e’ basta che sia caldo. -
    E cominciorno del cervio a spiccare.
    Rinaldo sel mangiava intero e saldo,
    se non che la vergogna il fa restare;
    e de’ tre pan fece paura a uno,
    ché col barlotto non beve a digiuno.

    Poi che fu l’alba in levante apparita,
    si dipartiron da quella capanna.
    Dicea Dodon: - Questa fu buona gita,
    poi che da ciel sopravvenne la manna
    e quel gigante ha perduta la vita.
    Vedi che pure ingannato è chi inganna:
    quel bacalare, Ulivier, ti percosse
    a tradimento, or si sta per le fosse. -

    Disceson di quel monte alla pianura,
    e il lor lïone innanzi pur andava.
    Dicea Rinaldo: - Questa è gran ventura! -
    ed Ulivier con lui se n’accordava;
    tanto ch’usciron d’una valle oscura,
    ove poi nel dimestico s’entrava:
    cominciono a veder casali e ville
    e sopra a’ campanil gridar le squille.

    E poco tennon più oltre il camino
    che cominciorno a trovar de’ pastori
    presso a un fiume ch’era lor vicino;
    e poi sentirno gran grida e romori.
    Baiardo aombra e così Vegliantino.
    Ed ecco uscir d’una valletta fuori
    una gran turba che s’era fuggita,
    ed a veder parea gente smarrita.

    Rinaldo allora a Dio si raccomanda,
    e intanto appresso s’accosta un pagano.
    Allor Dodon di sùbito domanda:
    - Che caso è questo in questo luogo strano,
    che par che tanto romor qua si spanda?
    Per cortesia, non voglia esser villano. -
    Rispose il saracin presto a Dodone:
    - Io tel dirò, non è sanza cagione.

    Del mio dir so che ti verrà pietade:
    per una figlia nobile e serena
    quasi è disabitata una cittade,
    perch’una vipra crudel ci avvelena.
    Il re Corbante, per la sua bontade,
    la sua figliuola detta Forisena
    a divorar vuol dare a questa fera:
    la sorte tocca a lei, vuol che lei pèra;

    e di noi altri ha già mangiati assai:
    ogni dì ne vuol due, sera e mattina.
    - Dimmi, - rispose Rinaldo - s’ tu sai,
    questa città come ella ci è vicina? -
    Rispose il saracin: - Tu la vedrai
    tosto, la terra misera e meschina;
    ma guarda che tal gita non sia amara:
    ella è qui presso, e chiamasi Carrara.

    Io ve n’avviso per compassïone
    ch’io ho di voi per Macometto iddio,
    che voi non vi lasciate le persone,
    poi che d’andarvi mostrate desio.
    La città troverrete in perdizione
    e molto mal contento il signor mio,
    per questa cruda fera e maladetta
    che debbe divorar la giovinetta.

    Come egli è dì, se ne viene alle porte;
    se da mangiar non gli è portato tosto,
    col tristo fiato ci conduce a morte:
    convien ch’un uom gli pognàn là discosto.
    Questa fanciulla gli è tocca la sorte,
    e ’l padre suo di mandarla ha disposto;
    il popol grida, e quella fiera rugge,
    tanto ch’ognun per paura si fugge.

    Credo che sia sol pe’ nostri peccati,
    perché Corbante uccise un suo fratello,
    che fu tra noi de’ cavalier nomati
    il più savio, il più giusto e forte e bello;
    noi consentimo a tutti questi agguati,
    però che il regno apparteneasi a quello:
    la vipera è venuta a purgar certo
    questo peccato e rendeci tal merto.

    Ed è tra noi chi abbia oppinïone
    che lo spirito suo drento vi sia
    in questa fera, di questo garzone. -
    Disse Rinaldo: - Di tua cortesia
    io ti ringrazio. Aiutivi Macone
    da questa fera, s’ella è tanto ria.
    Ma dimmi, saracin, questa donzella
    come ella è giovinetta, e s’ella è bella. -

    Disse il pagan: - Non domandar di questo,
    ché non si vide mai cosa sì degna:
    un atto dolce, angelico e modesto,
    di virtù porta e di biltà la ’nsegna,
    ne’ quindici anni entrata, e va’ pel resto;
    e ’l popol pur di camparla s’ingegna.
    Se tu credessi quella bestia uccidere,
    tu puoi far conto il reame dividere. -

    Disse Rinaldo: - Io non cerco reame:
    io n’ho lasciati sette in mio paese;
    io mi diletto un poco delle dame:
    se così bella è la figlia cortese,
    a quella fera taglierò le squame. -
    E poi si volse al famoso marchese
    e disse: - Andianne, ché la dama è nostra,
    alla città che ’l saracin ci mostra. -

    Come e’ furno in Carrara i paladini,
    ognun volgeva a guardàgli le ciglia:
    preson conforto tutti i saracini,
    e del lïon ne prendean maraviglia.
    Rinaldo giunse al palagio a’ confini,
    e salutò Corbante e poi la figlia.
    Corbante disse: - Tu sia il ben venuto,
    se per la fera a dar mi vieni aiuto. -

    Allor Rinaldo rispose: - O Corbante,
    il nome mio è il guerrier del lïone,
    e credo in Apollino e in Trivigante;
    e non vorrei, pel nostro iddio Macone,
    avere a capitar certo in Levante
    poi ch’io senti’ della tua passïone. -
    Quel disse forte, e quest’altro bisbiglia:
    «Anzi, poi ch’io senti’ della tua figlia».

    Ulivier gli occhi alla donzella gira
    mentre Rinaldo in questo modo parla;
    sùbito pose al berzaglio la mira
    e cominciò cogli occhi a saettarla,
    e tuttavolta con seco sospira:
    «Questa non è» dicea «carne da darla
    a divorare alla fera crudele,
    ma a qualche amante gentile e fedele».

    Corbante aveva intanto così detto:
    - Sia chi tu vuoi, o famoso guerriere,
    basta sol che tu credi in Macometto.
    Se tu credessi, gentil cavaliere,
    uccider questa fera, io ti prometto
    di darti mezzo il reame e l’avere;
    e se tu il vuoi ancor tutto, i’ son contento,
    pur che mi tragga fuor d’esto tormento.

    Come tu vedi, la terra è condotta,
    d’un bel giardino, spilonca o diserto.
    La mia figliuola s’appressa già l’otta
    che morir dèe sanza peccato o merto. -
    Ma Ulivier nella mente borbotta:
    «Non mangerà sì bianco pan per certo
    questo animal, ch’egli è pasto d’amanti,
    se noi dovessin morir tutti quanti».

    Dimmi pur tosto qual sia il tuo pensiero, -
    diceva il re - ch’ella è presso alle mura,
    ch’io sento il fiato incomportabil fero,
    e voi il dovete sentir per ventura. -
    Disse Rinaldo: - Io non vo’ regno o impero:
    per gentilezza caccio e per natura;
    e per amor della tua figlia bella
    la vipera uccidren crudele e fella. -

    Ulivieri era un gentil damigello
    e tuttavia la fanciulla vagheggia.
    Rinaldo l’occhio teneva al pennello:
    con Ulivieri in francioso motteggia;
    disse: - Il falcone ha cavato il cappello:
    non so se starna ha veduta o acceggia;
    ma parmi questo chiaro assai vedere,
    che noi sarem due impronti a un tagliere. -

    Ulivier nulla rispose a Rinaldo;
    abbassò gli occhi, che tenea sì fissi.
    Corbante un bando mandò molto caldo
    che nessun più della terra partissi,
    tanto che ’l popol comincia a star saldo:
    Rinaldo volle così si seguissi;
    e fece fare un guanto, s’io non erro,
    coperto tutto di punte di ferro.

    E prese poi da Corbante licenzia,
    che gli fe’ compagnia fino alla porta
    con molta gente e con gran reverenzia;
    poi gli diceva: - Io non son buona scorta.
    Io ti ricordo tu abbi avvertenzia
    alla tua vita, - e così lo conforta
    - e in ogni modo te salvar mi piace;
    poi sia che vuol della fera rapace. -

    Queste parole furon grate tanto
    che se l’affisse Rinaldo nel core;
    e disse: - Il capo arrecarti mi vanto
    in ogni modo, cortese signore.
    La tua benedizion mi da’ col guanto;
    conforta il popol tuo per nostro amore. -
    Corbante il benedì pietosamente
    e priega Iddio per lui divotamente.

    Ed Ulivieri ancor fece orazione:
    raccomandossi al Salvator divino.
    Dinanzi andava il feroce lïone:
    verso la fera teneva il camino;
    drieto seguiva Rinaldo e Dodone.
    Era a vedere il popol saracino,
    chi in sulle mura e chi presso alle porte,
    desiderando all’animal la morte.

    E la fanciulla nobile e serena
    era salita in sur una bertesca.
    Disse Rinaldo: - Vedi Forisena,
    o Ulivier, che di te par gl’incresca:
    amore è quel ch’a vederti lei mena. -
    Ulivier disse: - La danza rinfresca:
    tu hai disposto di darmi oggi noia.
    Attendiàn pur che questa fera muoia. -

    Dicea Rinaldo: - Sarai tu sì crudo
    che tu non guardi questa damigella?
    Tu non saresti d’accettar per drudo.
    Che crederres’ tu far se la donzella
    avessi in braccio per tua targia o scudo?
    Atterreresti tu la fiera o quella? -
    Disse Ulivier: - Tu se’ pur per le ciance,
    e qua sa d’altro già che melarance. -

    E come e’ disse questo, il lïon mostra
    il serpente che fuoco vomitava.
    Disse Ulivier: - Questa è la dama nostra,
    e di vederla, Rinaldo, mi grava. -
    Disse Rinaldo: - O Ulivier, qui giostra
    Venere e Marte - e di nuovo cianciava.
    La vipera crudel tosto si rizza
    e fuoco e tòsco per bocca gli schizza.

    Parea che l’aria e la terra s’accenda.
    Rinaldo aveva spugna con aceto,
    e tutti, perché il fiato non gli offenda;
    e disse: - O animal poco discreto,
    che pensi tu, che noi siàn tua merenda,
    poi che tu vieni in qua contra divieto? -
    E detto questo del cavallo scese,
    e così fece Dodone e ’l marchese.

    Non fu prima smontato di Baiardo
    ch’a Dodon giunse l’animal addosso:
    dèttegli un morso sì fiero e gagliardo
    che l’arme gli schiacciò, la carne e l’osso.
    Dodon gridava: - Omè lasso, ch’io ardo!
    Aiutami, Ulivier, ché più non posso! -
    e cadde tramortito e stramazzato
    sùbito in terra pel morso e pel fiato.

    Ulivier tardi aiutarlo si mosse
    ed a Dodon non poté dar soccorso:
    adunque il primo ch’assaggia si cosse,
    ed anco ci è per un compagno un morso:
    perché il serpente un tratto il capo scosse
    e poi pigliava Ulivier come un torso,
    e per ventura alla gamba s’appicca
    e i denti tutti nell’arme gli ficca.

    E’ si sentì l’arnese sgretolare,
    che non isgretolò mai osso cane;
    e poi pel braccio lo volle ciuffare.
    Ma Ulivieri adopera le mane,
    ch’avea quel guanto Rinaldo fe’ fare,
    e non è tempo a questo a dar del pane
    o dir che san Donnin gli alleghi i denti,
    ché converrà pur che facci altrimenti:

    missegli il guanto e la man nella strozza,
    però che molto lo sgrida Rinaldo,
    tanto che tutto il serpente lo ’ngozza,
    e strinse; ed Ulivier lo tenne saldo
    e colla spada la testa gli mozza;
    ma nel morir, pel fetor e pel caldo,
    Ulivier cadde tramortito in terra.
    Ma il capo del serpente non si sferra:

    ché nel finir la bocca in modo strinse
    ch’Ulivier trar non ne poté la mano.
    Rinaldo tutto nel viso si tinse
    e sferrar lo credette a mano a mano;
    ma non potea, tanto il dolor lo vinse
    del tristo caso d’Ulivieri e strano;
    pur tante volte la spada v’accocca
    che gliel cavò con fatica di bocca.

    Ma quel lïon ch’egli avevan menato
    si stette sempre di mezzo a vedere,
    perché se fussi d’alcun domandato
    di questo fatto, il voleva sapere.
    Era Dodon già di terra levato,
    ma Ulivier pur si stava a giacere.
    I saracin corrien fuor della porta
    faccendo festa che la fera è morta.

    Venne Corbante con molta brigata
    a veder come questo fatto era ito:
    vede la bestia in terra rovesciata,
    vede Dodon sanguinoso ferito,
    vede Ulivier colla mano affocata,
    che morto gli parea, non tramortito;
    vede la terra per la fera arsiccia,
    della qual cosa assai si raccapriccia;

    vede la testa del fero dragone,
    che gli parve a veder mirabil cosa;
    vede Rinaldo turbato e Dodone
    perch’Ulivieri in terra si riposa:
    ebbe di questo gran compassïone;
    vedevagli la gamba sanguinosa,
    e non sapea con che parole o gesti
    si condolessi o ringraziassi questi.

    Abbracciò infin Rinaldo lacrimando
    e poi Dodon, dicendo: - Baron degni,
    come potrò mai ristorarvi, o quando?
    Da Macon credo che tal grazia vegni,
    che in queste parte vi venne mandando.
    Ecco, la vita e tutti i nostri regni
    e la corona collo scettro nostro,
    disposto sono ogni cosa sia vostro.

    Ma sempre piangerò se questo è morto,
    che par sì degno e gentil cavalieri. -
    Disse Rinaldo: - Re, datti conforto,
    ché pianger di costui non fa mestieri.
    Il tuo parlare assai ci mostra scorto
    che tu sia grato, e giusti i tuoi pensieri.
    La tua corona e ’l regno l’accettiamo,
    e come nostro a te lo ridoniamo. -

    Non aveva Rinaldo appena detto,
    ch’Ulivier cominciossi a risentire;
    e risentito, e ’l re veggendo appetto
    e tanta gente, cominciò a stupire
    come chi nuove cose per oggetto
    vede in un punto, e non sa che si dire;
    ma a poco a poco rivocò la vita
    ed ogni ammirazion fu disparita.

    Il popolo era orrore e maraviglia
    veggendo quel c’han fatto i paladini.
    Era venuta, per veder, la figlia
    del re Corbante con que’ saracini,
    che ’l sol, quando è più lucente, simiglia,
    e tutti gli atti suoi paion divini;
    ed Ulivier questa donzella guarda,
    che non s’accorge ancor che ’l suo cor arda.

    Il re Corbante al popol comandava
    ch’a la città portato sia il serpente;
    e poi Rinaldo per la man pigliava
    e torna alla città colla sua gente;
    e come e’ giunse alla terra, ordinava
    di lasciar parte d’un tanto accidente
    al secol nuovo; e quella fera morta
    col capo fe’ appiccar sopra la porta,

    e lettere scolpite in marmo, d’oro:
    «Nel tal tempo» dicea «qui capitorno
    tre paladini» (e scrisse i nomi loro,
    perché in secreto gliel manifestorno)
    «che liberaro il popol da martoro
    per questa fera, a cui morte donorno»,
    ch’era apparita là mirabilmente,
    e divorava tutta la sua gente;

    e come il giorno alla fanciulla bella
    toccava di dover morir per sorte,
    che i tre baron vi capitorno in sella,
    che liberata l’avean dalla morte.
    Per lunghi tempi si potea vedella
    la storia e l’animal sopra le porte,
    che così morto faceva paura
    a chi voleva entrar dentro alle mura.

    E nel palagio Rinaldo menòe
    e grande onor gli fece e lietamente;
    e medici trovava e comandòe
    che medicassin diligentemente
    Ulivieri e Dodon, ché bisognòe,
    ch’ognun più giorni del suo mal si sente.
    E Forisena intanto come astuta
    dell’amor d’Ulivier s’era avveduta.

    E perché Amor mal volentier perdona
    che e’ non sia alfin sempre amato chi ama,
    e non sare’ sua legge giusta o buona
    di non trovar merzé chi pur la chiama,
    né giusto sire il buon servo abandona,
    poi che s’accorse questa gentil dama
    come per lei si moriva il marchese,
    sùbito tutta del suo amor s’accese;

    e cominciò cogli occhi a rimandare
    indrieto a Ulivier gli ardenti dardi
    ch’Amor sovente gli facea gittare,
    acciò che solo un foco due cori ardi.
    Venne a vederlo un giorno medicare
    e salutòl con amorosi sguardi,
    ché le parole fur ghiacciate e molle,
    ma gli occhi pronti assai, come Amor volle.

    Quando Ulivier sentì che Forisena
    lo salutò così timidamente,
    fu la sua prima incomportabil pena
    fuggita, ch’altra doglia al suo cor sente,
    l’alma di dubbio e di speranza piena;
    ma confirmato assai pur nella mente
    d’essere amato dalla damigella:
    perché chi ama assai, poco favella.

    Videgli ancor, poi che più a lui s’accosta,
    il viso tutto diventar vermiglio
    e brieve e rotta e fredda la proposta
    nel condolersi del crudele artiglio
    dell’animal, che per lei car gli costa,
    e vergognosa rabbassare il ciglio:
    questo gli dètte massima speranza,
    ché così degli amanti è sempre usanza.

    Ella avea detto: - Il mio crudo destino,
    i fati e ’l Cielo e la spietata sorte,
    o qual si fussi altro voler divino,
    m’avean condotta a sì misera morte.
    Tu venisti in Levante, paladino,
    mandato certo dalla eterna corte
    a liberarmi, e per te sono in vita:
    dunque io mi dolgo della tua ferita. -

    Queste parole avean passato il core
    a Ulivieri e pien sì di dolcezza
    che mille volte ne ringrazia Amore,
    perché e’ cognobbe la gran gentilezza.
    Are’ voluto innanzi al suo signore
    morir, ché poco la vita più prezza,
    e poco men che non disse nïente;
    pur gli rispose vergognosamente:

    Io non fe’ cosa mai sotto la luna
    che d’aver fatto io ne sia più contento:
    s’io t’ho campata da sì rea fortuna,
    tanta dolcezza nel mio cor ne sento
    che mai più simil ne senti’ alcuna.
    So che t’incresce d’ogni mio tormento:
    altro duol ci è, che chiama altro conforto.
    Così m’avessi quella fera morto! -

    Intese bene allor quelle parole
    la gentil dama, e drento al cor le scrisse:
    sì presto insegna Amor nelle sue scole!
    e fra se stessa sospirando disse:
    «E di questo anco altro tuo duol mi duole.
    Forse non era il me’ che tu morisse.
    Non sarò ingrata a sì fedele amante,
    ch’io non son di dïaspro o d’adamante».

    Partissi Forisena sospirando,
    ed Ulivier rimase tutto afflitto
    della ferita sua più non curando,
    ché da più crudo artiglio era trafitto.
    Guardò Rinaldo, e quasi lacrimando
    non poté a lui tener l’occhio diritto,
    e disse: - Vero è pur che l’uom non possa
    celar per certo l’amore e la tossa.

    Come tu vedi, caro fratel mio,
    amor pur preso alfin m’ha co’ suo’ artigli:
    non posso più celar questo desio;
    non so che farmi o che partito pigli.
    Così sia maladetto il giorno ch’io
    vidi costei. Che fo? Che mi consigli? -
    Disse Rinaldo: - Se mi crederrai,
    di questo loco ti dipartirai.

    Lascia la dama, marchese Ulivieri:
    non fu di vagheggiar nostra intenzione,
    ma di trovare il signor del quartieri. -
    E ’l simigliante diceva Dodone:
    - Tanto si cerchi per tutti i sentieri
    che noi troviamo il figliuol di Millone. -
    Ulivier consentia contra sua voglia,
    ché lasciar Forisena avea gran doglia.

    E poi che fu dopo alcun dì guarito,
    così Dodone, insieme s’accordaro
    lasciar Corbante per miglior partito
    e che si facci de’ lor nomi chiaro,
    sì che e’ possi saper chi l’ha servito;
    ed oltre a questo ancor deliberaro
    tentar se il re volessi battezarsi
    col popol suo, e tutti cristian farsi.

    Avea Corbante fatti torniamenti
    e giostre e balli e feste alla moresca
    per onorar costor colle sue genti;
    ed ogni dì nuove cose rinfresca,
    perché partir da lui possin contenti.
    Ma Ulivier pur par che ’l suo amor cresca.
    Finalmente Rinaldo un dì chiamava
    il re Corbante, e in tal modo parlava:

    Serenissimo re, - fu il suo latino
    - perché da te ci tegnamo onorati, -
    questo gli disse in parlar saracino
    - sempre di te ci sarem ricordati.
    E poi ch’egli è così voler divino
    che i nomi nostri ti sien palesati,
    io son Rinaldo, e fui figliuol d’Amone,
    bench’io m’appelli il guerrier del lïone;

    e questo è Ulivier che ha tanta fama
    e cognato è del nostro conte Orlando;
    costui Dodon, figliuol d’Uggier, si chiama,
    che venne Macometto già adorando.
    Or, per seguir più oltre nostra trama,
    così pel mondo ci andiam tapinando
    perché di corte Orlando s’è partito,
    né ritrovar possiam dove e’ sia gito.

    Detto ci fu che qua verso Levante
    era venuto, da un nostro abate,
    e ch’egli aveva con seco un gigante:
    cercando andian drieto alle sue pedate.
    Or ti dirò più oltre, o re Corbante:
    perché pur Macometto qua adorate,
    siete perduti, e il vero Iddio è il nostro,
    che del vostro peccar gran segno ha mostro.

    Non apparì questo animal crudele
    sanza permissïon del nostro Iddio
    a divorare il popolo infedele;
    ma perch’Egli è pietoso e giusto e pio,
    t’ha liberato da sì amaro fele
    perché tu lasci Macon falso e rio:
    fa’ che conosca questo beneficio
    sanza aspettar da lui maggior giudicio.

    Lascia Apollino e gli altri vani iddei
    e torna al nostro padre benedetto,
    e Belfagorre e mille farisei;
    batteza il popol tuo, che è maladetto.
    Di ciò molte ragion t’assegnerei,
    ma tu se’ savio e intendi con effetto:
    so che conosci ben che quel dragone
    non apparì qua a te sanza cagione:

    ogni cosa ti avvien pe’ tuoi peccati:
    tu sei il pastor che gli altri dèi guardare,
    e molto più di te sono scusati.
    Non t’ha voluto Cristo abbandonare:
    vedi ch’a tempo qua fumo mandati,
    ché la tua figlia ha voluta salvare:
    dunque ritorna alla sua santa fede
    di quello Iddio ch’ebbe di te merzede. -

    Parve che Iddio ispirassi il pagano,
    e rispose piangendo e così disse:
    - Dunque tu se’ il signor di Montalbano,
    al qual simil già mai nel mondo visse!
    E questo è Ulivier, ch’udito abbiàno
    nomar già tanto! Il vostro Iddio permisse
    che voi venissi certo, e non Macone. -
    Ed abbracciògli, e così ancor Dodone.

    E pianse i suo’ peccati amaramente
    e disse: - Io veggo in quanto lungo errore
    istato son con tutta la mia gente;
    e così il nostro etterno Salvatore
    per molte vie allumina la mente
    e desta in qualche modo il peccatore,
    e spesso d’un gran mal nasce un gran bene:
    ch’ogni giudicio pel peccato viene. -

    Corbante fece venir Forisena
    e disse ancora a lei chi son costoro
    che l’avean liberata d’ogni pena;
    e poi mandò per tutto il concestoro,
    tanto che presto la sala fu piena,
    parata tutta di be’ drappi ad oro;
    poi salì in sedia, e fe’ tale orazione
    che tutto il popol volse a sua intenzione.

    E fece battezar piccoli e grandi;
    per tutto il regno suo fu ordinato
    ch’ognun seguissi i suoi precetti e bandi.
    E poi ch’ognun così fu battezato,
    la fama par che per tutto si spandi
    de’ tre baron che vi son capitato;
    ma i nomi lor quanto Rinaldo volle
    celò Corbante a tutto il popol folle.

    E riposârsi alquanto a lor diporto,
    e tutta la città facea gran festa,
    tanto del vero Iddio preson conforto,
    della sua grazia e della sua potesta;
    come nell’altro dir vi sarà porto,
    dove la storia sarà manifesta.
    E priego il Re della gloria infinita
    che vi dia pace e gaudio e requie e vita.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact