Edizione Italiana
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    Luigi Pulci

    Cantare quinto

    Pura colomba piena d’umiltade,
    in cui discese il nostro immenso Iddio
    a prender carne con umanitade,
    giusto, santo, verace, etterno e pio,
    donami grazia, per la tua bontade,
    ch’io possi seguitare il cantar mio,
    pel tuo Iosef e Giovacchino ed Anna
    e per Colui che nacque alla capanna.

    Rinaldo e ’l suo Dodone e ’l gran marchese
    gran festa fanno co’ nuovi cristiani;
    e battezato è già tutto il paese
    del re Corbante e’ suoi primi pagani.
    Ed Ulivier per la dama cortese
    ogni dì fa mille pensieri strani,
    ed ora in torniamenti ed ora in giostra,
    per piacere a costei, gran forza mostra.

    E benché assai lo pregassi Rinaldo,
    non si sapeva accomiatare ancora,
    ché la donzella lo teneva saldo
    come àncora la nave tien per prora.
    Quanto è più offeso il foco, è poi più caldo:
    così più sempre Ulivier s’innamora
    quanto Rinaldo il partir più sollecita;
    ed ogni scusa gli pareva lecita.

    Quando fingea non esser ben guarito,
    quando fingea qualche altra malattia
    (e dicea il ver, ch’egli è nel cor ferito),
    quando pregava, quando promettia:
    - Doman ci partirem, preso ho partito. -
    Lasciàn costor, nel nome di Maria,
    ed Ulivier così morire amando,
    e ritorniamo ove io lasciai Orlando.

    Meredïana, la dama gentile,
    manda a saper se volea la battaglia
    a corpo a corpo, con almo virile.
    Orlando dice: - Io non vesto di maglia
    per contastare una femina vile
    ch’i’ prezzo men ch’un bisante o medaglia. -
    Sì che per questo e pel suo Lïonetto
    troppo si duol costei di Macometto,

    dicendo: «Almen facessimi morire,
    poiché sprezzata son da quel villano;
    ché mai più ebbe cavaliere ardire
    combatter meco colla lancia in mano».
    Ma in questo tempo si facea sentire
    la fama del signor di Montalbano,
    come Corbante avea seco un barone
    che si chiamava il guerrier del lïone,

    e ch’egli era uom ch’avea molto potere,
    e come morto ha il serpente feroce.
    Meredïana a un suo messaggiere
    impose e disse ch’andassi veloce
    al re Corbante, e faccigli assapere
    come per tutto è vulgata la boce
    di questo cavalier che è tanto forte,
    il qual con seco teneva in sua corte;

    e come Manfredonio alla sua terra
    ha posto il campo con crudele assedio
    e tuttavia con sua gente la serra,
    e non ha ignun, per tenerla più a tedio,
    ch’a corpo a corpo con lei vogli guerra;
    che gli dovessi mandar per rimedio
    questo guerrier ch’avea tanta possanza,
    pel parentado antico ed amistanza;

    però che già per tutto l’Orïente
    la fama di costui molto sonava.
    Il messaggier n’andò subitamente:
    al re Corbante si rappresentava
    e spose la ’mbasciata saviamente.
    Per che Corbante a Rinaldo parlava
    come il re Carador quel messo manda
    e la sua figlia a lui si raccomanda.

    Se tu credessi da questo martoro
    liberar la donzella, io ti conforto -
    dicea Corbante - andare a Caradoro;
    però ch’io so che Manfredonio ha il torto,
    ed ha menato tutto il concestoro.
    Forse, se fia da te punito e morto,
    re Caradoro si battezeràe
    come ho fatto io, e Cristo adoreràe. -

    Rinaldo dall’abate prima intese
    che in quel paese avea mandato Orlando;
    rispose: - A Manfredon - molto cortese
    - la testa leverò con questo brando,
    o re Corbante: ch’a sì giuste imprese
    sarò sempre disposto a tuo comando. -
    Dicea Corbante: - Caradoro è antico
    parente nostro e discreto all’amico. -

    Disse Rinaldo: - Or rispondi al valletto
    che per amor di te ne son contento;
    ed ho speranza, e così gli prometto,
    di salvar la sua gente fuori e drento;
    e Manfredonio il campo a suo dispetto
    leverà presto e le bandiere al vento. -
    Corbante il ringraziò benignamente
    delle parole che sì grate sente;

    e poi si volse al messo saracino:
    - Dirai che volentier la impresa piglia,
    a Caradoro, questo paladino;
    e del suo ardir si farà maraviglia
    sia chi si vuol del popol d’Apollino,
    ch’a nessun questo volgerà la briglia;
    se fussi Orlando, quel ch’ha tanta fama,
    nol temerebbe: così di’ alla dama.

    Vedi il lïon che tuttavia l’aspetta:
    non è baron di cui nel mondo dotti.
    Vedi que’ due che son là di sua setta:
    questi fanno assai fatti e pochi motti. -
    Il messaggier si dipartiva in fretta:
    Corbante disse che e’ voli e non trotti;
    tanto che presto tornò a Caradoro
    e referì come e’ vengon costoro;

    e che parea quel guerrier del lïone
    un uom molto famoso in vista e forte;
    e d’Ulivier diceva e di Dodone:
    - Non è baron, Caradoro, in tua corte
    da metterlo con questi al paragone.
    Corbante dice che tu ti conforte,
    perché colui che si chiama il guerriere
    non temerebbe Orlando in sul destriere. -

    Rinaldo da Corbante accommiatossi,
    e molte offerte fece al re pagano
    che sempre sare’ suo, dovunque e’ fossi;
    né anco il re Corbante fu villano
    alla risposta; e così si son mossi
    e benedetti e baciati la mano;
    ed Ulivieri avea potuto appena
    - Addio! - piangendo dire a Forisena.

    La qual, veggendo partire Ulivieri,
    avea più volte con seco disposto
    di seguitarlo e fatti stran pensieri;
    né poté più il suo amor tener nascosto;
    e la condusse quel bendato arcieri,
    per veder quanto Ulivier può discosto,
    a un balcone, e l’arco poi disserra,
    tanto che questa si gittava a terra.

    E ’l padre suo, che la novella sente,
    corse a vederla e giunse ch’era morta:
    alla sua vita non fu sì dolente;
    e intese ben quel che ’l suo caso importa
    e come Amore è quel che lo consente;
    e se non fussi alcun che lo conforta,
    e chi la mano e chi il braccio gli piglia,
    uccider si volea sopra la figlia;

    e dicea: - Lasso, quanto fui contento
    quel dì che morta l’aspra fera vidi;
    ed or tanto dolor nel mio cor sento!
    E così vuogli, Amor, così mi guidi!
    Ogni dolcezza volta m’hai in tormento.
    O mondo, tu non vuoi che in te mi fidi.
    Lasciato m’hai, o misera Fortuna,
    afflitto vecchio e sanza speme alcuna. -

    Fece il sepulcro a modo de’ cristiani
    e missevi la bella Forisena,
    e lettere intagliò colle sue mani
    come fu liberata d’ogni pena
    da tre baron di paesi lontani;
    e come a morte il suo distin la mena
    pur finalmente, come piacque ’Amore,
    nel dipartirsi il suo caro amadore.

    Non si può tòr quel che ’l Ciel pur distina,
    e ’l mondo col suo dolce ha sempre amaro:
    questa fanciulla così peregrina
    il troppo amare alfin gli costa caro;
    ed Ulivier pe’ boschetti camina
    e non sa quel che gli sare’ discaro,
    e chiama Forisena notte e giorno.
    E in questo modo più dì cavalcorno.

    Un giorno in un crocicchio d’un burrone
    hanno trovato un vecchio molto strano,
    tutto smarrito, pien d’afflizïone:
    non parea bestia e non pareva umano.
    Rinaldo gli venìa compassïone:
    «Chi fia costui?» fra sé diceva piano;
    vedea la barba arruffata e canuta:
    raccapricciossi, e dappresso il saluta.

    E’ gli rispose faccendo gran pianto,
    per modo ch’a Rinaldo ne ’ncrescea:
    - Per la bontà dello Spirito santo,
    abbi pietà della mia vita rea:
    uscir di questo bosco non mi vanto
    se non m’aiuti - e del tristo facea.
    - Lasciami un poco in sul cavallo andare,
    per quello Iddio che ti può ristorare. -

    Rinaldo disse: - Molto volentieri,
    ché tu mi par’, vecchierel, mezzo morto. -
    E sùbito si getta del destrieri,
    perché e’ vi monti e pigliassi conforto.
    Intanto vien Dodone ed Ulivieri.
    Rinaldo dice questo fatto scorto.
    Disse Dodon: - Tu se’ molto cortese -,
    e del caval per aiutarlo scese.

    Rinaldo tien Baiardo per la briglia
    e Dodon piglia questo vecchio antico.
    Baiardo allor mostrò gran maraviglia
    e ’l vecchio schifa come suo nimico.
    Rinaldo strette le redine piglia,
    e Dodon pure aiuta come amico.
    Baiardo allor più le redine scuote
    ed or col capo or co’ calci percuote.

    Ma poi che pur si lasciò cavalcare,
    quel vecchierel come e’ fussi una foglia
    teneal a briglia e faceval tremare:
    poi correr lo facea contra sua voglia.
    Disse Rinaldo a Dodon: - Che ti pare?
    Io dubito che mal non ce ne coglia:
    il vecchio corre, e non mi pare or lasso,
    che non parea da dovere ir di passo.

    Dismonta, o Ulivier, di Vegliantino. -
    Ulivieri scendeva da cavallo.
    Rinaldo dietro pigliava il camino
    a questo vecchio, e comincia a sgridallo:
    - Aspetta, tu ti fuggi, can meschino,
    sì che tu credi in tal modo ruballo. -
    Ma nulla par che con quel vecchio avanzi,
    che sempre più gli spariva dinanzi.

    E Vegliantin sudava per l’affanno
    e va pel bosco che pare uno strale.
    Disse Rinaldo: «Vedrai bello inganno,
    ché questo vecchio par che metta l’ale;
    io fui pur matto, ed aròmene il danno»;
    e chiama e grida, ma poco gli vale:
    colui correva come un leopardo,
    anzi più forte, s’egli avea Baiardo.

    Ma po’ ch’egli ebbe a suo modo beffato
    Rinaldo, alfin se gli para davante,
    e in su ’n un passo del bosco ha aspettato.
    Vegliantin tanto mostrava le piante
    che lo giugneva, e Rinaldo è infocato.
    Disse Malgigi: - Che farai, brigante? -
    Quando Rinaldo sentiva dir questo,
    lo riconobbe alla favella presto;

    e disse: - Tu fai pur l’usanza antica:
    tu m’hai fatto pensar di strane cose
    e dato a Vegliantin molta fatica. -
    Allor Malgigi in tal modo rispose:
    - Tu non sai ancora, innanzi ch’io tel dica,
    di questo testo, Rinaldo, le chiose. -
    Dodone in questo e ’l marchese giugnevano
    e Malagigi lor ricognoscevano.

    Gran festa fecion tutti a Malagigi
    d’averlo in luogo trovato sì strano.
    Disse Malgigi: - Io parti’ da Parigi,
    e feci l’arte un giorno a Montalbano;
    volli saper tutti i vostri vestigi:
    vidi savate in paese lontano
    e che portato avate assai periglio,
    e bisognava ed aiuto e consiglio.

    Per questa selva ove condotti siete
    non troverresti da mangiar né bere,
    e sanza me campati non sarete:
    di questa barba vi conviene avere,
    che vi torrà e la fame e la sete;
    vuolsene in bocca alle volte tenere. -
    E dètte loro un’erba e disse: - Questa
    usate insino al fin della foresta. -

    Mangiaron tutti quanti volentieri
    dell’erba che Malgigi aveva detto,
    e missonne poi in bocca anco a’ destrieri,
    ch’era ciascun dalla sete costretto.
    Disse Malgigi: - Per questi sentieri
    serbatene, vi dico, per rispetto;
    e destrier sempre troverran dell’erba,
    ma questa per la sete si riserba.

    Non vi bisogna d’altro dubitare.
    Con Manfredonio è il roman sanatore
    Orlando, e presto il potrete trovare. -
    E dette molte cose, un corridore
    sùbito fece per arte formare,
    tanto ch’ognun gli veniva terrore:
    ché mentre ragionare altro voliéno,
    apparì quivi bianco un palafreno.

    Disse Malgigi: - Caro mio fratello,
    tò’ti Baiardo tuo, ch’io son fornito. -
    Rinaldo guarda quel caval sì bello
    e dicea: - Questo fatto come è ito? -
    Malgigi presto montò sopra quello
    e fu da lor come strale sparito;
    a tutti prima toccava la mano,
    e ritornò in tre giorni a Montalbano.

    Dumila miglia al nostro modo o piùe
    era da Montalban, si truova scritto,
    dal luogo dove accomiatato fue.
    Rinaldo el suo fratel lasciava afflitto,
    e molte volte ha chiamato Gesùe
    che lo conduca per sentier diritto.
    E già sei giorni cavalcato avia
    drieto al lïon, che mostra lor la via.

    Il sesto dì questo baron gagliardo
    in uno oscuro bosco è capitato.
    Sente in un punto fermarsi Baiardo;
    vede il lïon che ’l pelo avea arricciato
    e che faceva molto fero sguardo;
    e Vegliantin parea tutto aombrato;
    e ’l caval di Dodon volea fuggire
    e raspa e soffia e comincia annitrire.

    Disse Rinaldo: - O Iddio, che sarà questo?
    Questi cavalli han veduta qualche ombra. -
    Intanto un gran romor si sente presto,
    che le lor mente di paura ingombra:
    ecco apparire un uom molto foresto
    correndo, e ’l bosco attraversava e sgombra;
    e fece a tutti una vecchia paura,
    ché mai si vide più sozza figura.

    Egli avea il capo che parea d’un orso,
    piloso e fiero, e’ denti come zanne,
    da spiccar netto d’ogni pietra un morso;
    la lingua tutta scagliosa e le canne;
    un occhio avea nel petto a mezzo il torso,
    ch’era di fuoco e largo ben due spanne;
    la barba tutta arricciata e’ capegli,
    gli orecchi parean d’asino a vedegli;

    le braccia lunghe, setolute e strane,
    e ’l petto e ’l corpo piloso era tutto;
    avea gli unghion ne’ piedi e nelle mane,
    ché non portava i zoccol per l’asciutto,
    ma ignudo e scalzo abbaia com’un cane:
    mai non si vide un mostro così brutto;
    e in man portava un gran baston di sorbo
    tutto arsicciato, nero come un corbo.

    Questo una buca sotterra avea fatto,
    e sopra quella forato un gran masso:
    quivi si stava e nascondeva, il matto;
    verso la strada avea forato il sasso,
    e per un bucolin traea di piatto
    e molta gente saettava al passo:
    facea degli uomin micidial governo,
    e chiamato era il mostro da l’inferno.

    Rinaldo, quando apparir lo vedia,
    diceva a Ulivieri: - Hai tu veduto
    costui, che certo la versiera fia? -
    Disse Ulivieri: - Iddio ci sia in aiuto!
    Credo più tosto sia la Befanìa
    o Belzebù che ci sarà venuto. -
    Guardava il petto e la terribil faccia
    e ’l baston lungo più di dieci braccia.

    Questo animal venìa gridando forte,
    e come l’orso adirato co’ cani,
    ispezza i rami e’ pruni e le ritorte
    con quel baston, co’ piedi e colle mani.
    Disse Dodon: - Sare’ questa la Morte
    che ci assalissi in questi boschi strani?
    Se tu ragguardi, Rinaldo, i vestigi,
    de’ compagnon mi par di Malagigi. -

    Disse Rinaldo: - Non temer, Dodone:
    se fussi ben la Morte o ’l Trentamila,
    lascial venire a me questo ghiottone,
    ch’a peggior tela ho stracciate le fila. -
    Intanto quella bestia alza il bastone
    e inverso di Rinaldo si difila.
    Rinaldo punse Baiardo in su’ fianchi
    acciò che ’l suo disegno a colui manchi.

    Dallato si scagliò come un cervietto:
    giunse la mazza e dètte il colpo in fallo.
    Rinaldo intanto si misse in assetto:
    corsegli addosso presto col cavallo,
    dèttegli un urto e colselo nel petto,
    per modo che sozzopra fe’ cascallo;
    e nel cader questo animale strano
    forte abbaiava come un cane alano.

    Dodon, che vide quel diavol cadere,
    diceva a Ulivier: - Corriàgli addosso
    acciò che non si lievi da giacere. -
    Disse Rinaldo: - Ignun non si sia mosso:
    tìrati addrieto e statevi a vedere
    ch’io non sono uso mai d’esser riscosso. -
    In questo l’uom salvatico si rizza
    col sorbo, pien di furore e di stizza;

    e scaricava un colpo in sulla testa
    per modo tal che, se giugnea Rinaldo,
    e’ gli bastava solamente questa,
    e non sentia mai più freddo né caldo.
    Rinaldo non aspetta la richiesta,
    ché come argento vivo stava saldo:
    or qua or là facea saltar Baiardo,
    avendo sempre al protino riguardo.

    Pareva un lïoncin quand’egli scherza,
    che salta in qua e in là destro e leggieri;
    alcuna volta menava la ferza,
    poi risaltava che pare un levrieri.
    Era già l’ora passata di terza,
    e pur Dodon dicea con Ulivieri:
    - Io temo sol Rinaldo non si stracchi,
    tanto ch’un tratto quel baston l’ammacchi. -

    Colui non par che si curi un pistacchio
    perché Frusberta gli levi del pelo,
    e pure attende a scaricare il bacchio;
    e la spada del prenze torna al cielo.
    Misericordia! di questo batacchio
    aiuta, Iddio, chi crede nel Vangelo!
    Quel baston pare un albero di nave,
    arsiccio, duro e nocchieruto e grave.

    Avean già combattuto insino a nona
    Rinaldo e quel dïavolo incantato:
    Rinaldo gli ha frappata la persona
    e molto sangue in terra avea gittato,
    e tuttavia con Frusberta lo suona.
    Un tratto quel baston è giù calato;
    Rinaldo per disgrazia gli era sotto
    e non poteva fuggir questo botto:

    attraversò la spada per coprire
    il capo, ché del colpo ebbe riprezzo;
    giunse il bastone: or qui volle alcun dire
    già che Rinaldo gliel tagliò sol mezzo,
    ma poi si ruppe il resto nel colpire;
    chi dice che di netto il mandò al rezzo;
    donde e’ s’è fatta gran disputazione
    come quel fatto andassi del bastone;

    ma questo a giudicar vuol buon gramatico
    s’egli tagliò tutta o mezza la mazza.
    Quel maladetto e ruvido e salvatico
    ed aspro più che ’l sorbo che e’ diguazza
    arrandellò quel tronco come pratico:
    dètte a Rinaldo una percossa pazza,
    tanto che cadde, e dipoi si fuggìa.
    Ma Ulivier lo segue tuttavia.

    Trasse la spada, che par che riluca
    più che non fece mai raggio di stella,
    acciò che ’l cuoio con essa gli sdruca.
    Questa fera bestial, crudele e fella
    si fuggì come il tasso nella buca.
    Ulivier si rimase in su la sella
    e ritornossi dove era caduto
    Rinaldo, che già s’era rïavuto.

    Disse Rinaldo: - Vedes’ tu mai tordo
    ch’avessi, come ebb’io, della ramata?
    Costui pensò di guarirmi del sordo,
    se fussi rïuscito la pensata. -
    Disse Dodon: - Quand’io me ne ricordo,
    io triemo ancor di quella randellata.
    Che hai tu fatto di lui, Ulivieri?
    Tu gli corresti drieto col destrieri. -

    Disse Ulivieri: - Egli è nato di granchi:
    egli entrò in una buca sotto un masso
    mentre ch’io gli ero colla spada a’ fianchi,
    o e’ si tornò in inferno a Satanasso. -
    Intanto colui par ch’un arco branchi
    ed uno stral cavò d’un suo turcasso,
    avvelenato, e fessi al bucolino
    e trasse, e dètte in un piè a Vegliantino;

    e se non fussi che giunse al calcagno
    quanto poté più basso, all’unghia morta,
    non bisognava medico né bagno.
    Disse Rinaldo: - In pace te la porta:
    co’ pazzi sempre fu poco guadagno.
    Il mio lïon non ci fa buona scorta. -
    Poi, non veggendo ond’egli avessi tratto,
    ognun restava come stupefatto.

    Disse Rinaldo: - A quel sasso mi mena,
    Ulivier, dove tu il vedesti entrare.
    Veggiam se questa bestia da catena
    si potessi alla trappola pigliare;
    ch’io so ch’io gli darò le frutte a cena,
    s’io lo dovessi col fuoco sbucare. -
    Salì sopra Baiardo, e insieme andorno;
    e come al monimento funno intorno,

    colui ch’è dentro assetta lo scoppietto
    e stava al bucolin quivi alla posta:
    trasse uno strale a Rinaldo nel petto
    che si pensò di passargli ogni costa;
    ma la corazza a ogni cosa ha retto.
    Rinaldo allor dalla buca si scosta
    e disse: - Costì ancor non se’ sicuro
    se ’l sasso più che porfir fussi duro:

    poi che tu m’hai saettato, ribaldo,
    e randellato, che mai più non fue
    gittato in terra in tal modo Rinaldo,
    io ti gastigherò, pel mio Gesùe. -
    E così tutto di tempesta caldo
    con ambo man Frusberta alzava sùe:
    rizzossi in sulle staffe, e ’l brando striscia,
    che lo facea fischiar come una biscia,

    tanto che l’aria e la terra rimbomba
    e si sentiva un suon fioco e interrotto
    come quando esce il sasso della fromba:
    are’ quel colpo ogni adamante rotto;
    giunse in sul masso sopra della tomba
    e féssel tutto come un cacio cotto;
    partì il cervello e ’l capo e ’nsino al piede
    al crudel mostro; e sciocco è chi nol crede.

    Le schegge di quel sasso a mille a mille
    balzorno in qua ed in là, come è usanza,
    e tutta l’aria s’empié di faville.
    Disse Dodone: - O Dio, tanta possanza
    non ebbe Ettorre o quel famoso Achille
    quanto ha costui, ch’ogni lor forza avanza. -
    La spada un braccio sotterra ficcossi,
    e Baiardo pel colpo inginocchiossi.

    A gran fatica poté poi ritrarre
    Rinaldo, tanto fitta era, la spada,
    e disse: - Tu credevi che le sbarre
    non ti tenessin, mascalzon di strada!
    Chi si diletta di truffe e di giarre
    così convien che finalmente vada:
    de’ tuoi peccati penitenzia hai fatta.
    Così fo sempre a ogni bestia matta. -

    Dodon guardava nella buca e vede
    tutto fesso per lato quel ghiottone
    dal capo insin giù per le gambe al piede,
    e stupì tutto per ammirazione
    dicendo: - Iddio, de’ tuoi servi hai merzede!
    Questo stato non è sanza cagione:
    a qualche fine tal segno hai dimostro,
    acciò che a molti essemplo sia quel mostro. -

    Poi colla punta della spada scrisse:
    «Nel tal tempo il signor di Montalbano
    ci arrivò a caso», ed ogni cosa disse,
    come in quel sasso stava un uomo strano,
    e come tutto Rinaldo il partisse;
    ed èvvi ancora scritto di sua mano
    le letter colla punta della spada;
    e puossi ancor veder sopra la strada.

    E chiamasi la selva da l’inferno:
    chi vuole andare al monte Sinaì
    vi passa, quando e’ va che sia di verno,
    per non passare il fiume Balaì;
    e leggesi quel diavol dello inferno,
    come Rinaldo quivi lo partì;
    e vedesi ancor l’ossa drento al fesso
    e sèntivisi urlar la notte spesso.

    Poi si partirno; e il lïon, come e’ suole,
    sempre la strada mostrava a costoro.
    Era di notte: Rinaldo non vuole
    che per le selve si facci dimoro,
    tal ch’Ulivieri e Dodon se ne duole,
    ché cavalcare a stracca è lor martoro.
    Tutta la notte con sospetto andorno,
    insin che in orïente vidon giorno.

    Come e’ fu fuor dell’occeàno Apollo,
    si ritrovoron sopra a un poggetto;
    questo passorno, e poi più là un collo
    d’un altro monte ch’era al dirimpetto;
    e poi ch’a questo dato ebbono il crollo,
    vidono un pian con un certo fiumetto,
    trabacche e padiglioni e loggiamenti
    e cavalieri armati e varie genti.

    Quivi era Manfredonio innamorato,
    che lo facea morir Meredïana,
    con tutto quanto il populo attendato.
    E la fanciulla al suo parer villana
    al re Corbante avea significato
    ch’assediata è della gente pagana,
    e come Manfredon si sforza e ingegna
    tòrgli d’onor la sua famosa insegna;

    ed aspettava il guerrier del lïone
    che dovessi venirla a liberare;
    e stava giorno e notte in orazione
    e molti sacrifici facea fare,
    pregando umilemente il lor Macone
    che sua virginità debba servare;
    com’io seguiterò nell’altro canto
    colla virtù dello Spirito santo.




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