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Luigi Pulci
Cantare secondo
O giusto, o santo, o etterno Monarca,
o sommo Giove per noi crucifisso,
che chiudesti la porta onde si varca
per ire al fondo dello oscuro abisso;
tu ch’al principio movesti mia barca,
tu sia il nocchiere intento sempre e fisso
alla tua stella e la tua calamita:
che questa istoria sia per te finita.
L’abate, quando vide lacrimare
Orlando, e diventar le ciglia rosse
e per pietà le luce imbambolare,
e’ domandava perché questo fosse;
e poi che vide Orlando pur chetare,
ancor più oltre le parole mosse:
- Non so s’ammirazion forse t’ha vinto
di quel che in questa camera è dipinto.
Io fui della gran gesta naturale:
credo che io sia nipote o consobrino
di quel Rinaldo, uom tanto principale,
che fu nel mondo sì gran paladino;
benché il mio padre non fu madornale,
perché e’ non piacque all’alto Iddio divino:
Ansuigi chiamossi in piano e in monte,
e ’l nome mio diritto è Chiaramonte.
Così ci fussi il figliuol di Millone
che fu fratel del mio padre perfetto!
Deh, dimmi il nome tuo, gentil barone,
se così piace a Gesù benedetto. -
Orlando s’accendea d’affezïone
bagnando tutto di lacrime il petto;
poi disse: - Abate, mio caro parente,
sappi ch’Orlando tuo t’è qui presente. -
Per tenerezza corsono abbracciarsi;
ognun piangeva di soperchio amore,
che non poteva a un tratto sfogarsi
e per dolcezza trabocca nel core.
L’abate non potea tanto saziarsi
d’abbracciar questo, quanto è il suo fervore.
Diceva Orlando: - Qual grazia o ventura
fa ch’io vi truovi in questa parte scura?
Ditemi un poco, caro padre mio,
per che cagion voi vi facesti frate
e non prendesti la lancia come io
e tante gente che di noi son nate?
- Perché e’ fu volontà così di Dio, -
rispose presto a Orlando l’abate
- che ci dimostra per diverse strade
donde e’ si vadi nella sua cittade:
chi colla spada, chi col pasturale,
poi la Natura fa diversi ingegni,
e però son diverse queste scale:
basta che in porto salvo si pervegni,
e tanto il primo quanto il sezzo vale.
Tutti siàn peregrin per molti regni;
a Roma tutti andar vogliamo, Orlando,
ma per molti sentier n’andian cercando.
8 Così sempre s’affanna il corpo e l’ombra
per quel peccato dell’antico pome:
io sto col libro in man qui il giorno e l’ombra,
tu colla spada tua tra l’elsa e ’l pome
cavalchi, e spesso sudi al sole e all’ombra;
ma di tornare a bomba è il fin del pome.
Dico ch’ognun qui s’affatica e spera
di ritornarsi alla sua antica spera. -
Morgante avea con loro insieme pianto,
sentendo queste cose ragionare,
e pur cercava d’armadure; e intanto
un gran cappel d’acciaio usa trovare,
che rugginoso si dormia in un canto.
Orlando, quando gliel vide provare,
disse: - Morgante, tu pari un bel fungo;
ma il gambo a quel cappello è troppo lungo. -
Una spadaccia ancor Morgante truova;
cinsela, e poi se n’andava soletto
là dove rotta una campana cova,
ch’era caduta e stava sotto un tetto,
e spiccane un battaglio a tutta pruova,
ed a Orlando il mostrava in effetto:
- Di questo che di’ tu, signor d’Angrante?
- Dico che è tal qual conviensi a Morgante. -
Disse il gigante: - Con questo battaglio,
che vedi come è grave e lungo e grosso,
non credi tu ch’io schiacciassi un sonaglio?
Io vo’ schiacciare il ferro e tritar l’osso:
parmi mill’anni or d’essere al berzaglio. -
Orlando a Chiaramonte ha così mosso:
- Or vi vorrei pregar, mio santo abate,
che di trovar ventura c’insegniate.
Qualche battaglia, qualche torniamento
trovar vorremo, se piacessi a Dio. -
Disse l’abate: - Io ne son ben contento,
e credo satisfare al tuo desio.
Sappi che qua verso Levante sento
che in una gran città, parente mio,
un re pagan vi fa drento dimoro,
il qual si fa chiamar re Caradoro.
Ed ha una sua figlia molto bella,
onesta, savia, nobile e gentile;
e non è uom che la muova di sella,
e ciascun cavalier reputa vile:
s’ella non fussi saracina quella,
non fu mai donna tanto signorile.
Dintorno alla città sopra i confini
sono accampati molti saracini;
ed èvvi un re di molta gagliardia,
Manfredonio appellato dalla gente:
costui si muor per la dama giulìa,
e fa gran cose, come amor consente,
ed ha con seco tutta Pagania,
per acquistar questa donna piacente:
dicon che v’è di paesi lontani
cento quaranta migliaia di pagani.
E quel re Carador n’ha forse ottanta
di gente saracina, ardita e forte;
e Manfredonio ogni giorno si vanta
d’aver questa donzella o d’aver morte,
ed or trabocchi ed or bombarde pianta:
ogni dì corre insino in sulle porte. -
Il conte Orlando, quando questo intese,
non domandar quanto desio l’accese.
E dopo molte cose ragionate
di nuovo la licenzia ridomanda,
dicendo nuovamente al santo abate
ch’alle sue orazion si raccomanda;
che vuol trovarsi fra le gente armate
in quel paese là dove e’ lo manda:
che gli lasciassi andar colla sua pace.
Disse l’abate: - Sia come a voi piace:
contento son, se tanto v’è in piacere.
Voi avete apparata la magione:
sarò sempre fidato e buono ostiere:
ciò che ci è, è del figliuol di Millone;
ma non bisogna tra noi profferere.
A tutti do la mia benedizione. -
Così da Chiaramonte lacrimando
si dipartirno Morgante ed Orlando.
Per lo deserto vanno alla ventura:
l’uno era a piede e l’altro era a cavallo;
cavalcon per la selva e per pianura
sanza trovar ricetto o intervallo.
Cominciava a venir la notte oscura.
Morgante parea lieto sanza fallo,
e con Orlando ridendo dicia:
- E’ par ch’io vegga appresso una osteria. -
E in questo ragionando, hanno veduto
un bel palagio in mezzo del deserto.
Orlando, poi ch’a questo fu venuto,
dismonta, perché l’uscio vide aperto:
quivi non è chi risponda al saluto.
Vannone in sala, per esser più certo:
le mense riccamente son parate
e tutte le vivande accomodate.
Le camere eran tutte ornate e belle,
istorïate con sottil lavoro,
e letti molto ricchi erano in quelle
coperti tutti quanti a drappi d’oro,
e’ palchi erano azurri pien di stelle,
ornati sì che valieno un tesoro;
le porte eran di bronzo e qual d’argento,
e molto vario e lieto è il pavimento.
Dicea Morgante: - Non è qui persona
a guardar questo sì ricco palagio?
Orlando, questa stanza mi par buona:
noi ci staremo un giorno con grande agio. -
Orlando nella mente sua ragiona:
- O qualche saracin molto malvagio
vorrà che qualche trappola ci scocchi
per pigliarci al boccon come i ranocchi,
veramente c’è sotto altro inganno:
questo non par che sia convenïente. -
Disse Morgante: - Questo è poco danno. -
E cominciava a ragionar col dente,
dicendo: - All’oste rimarrà il malanno:
mangiàn pur molto ben per al presente;
quel che ci resta, faren poi fardello,
ch’io porterei, quand’io rubo, un castello. -
Rispose Orlando: - Questa medicina
forse potrebbe il palagio purgare. -
Hanno cercato insino alla cucina:
né cuoco né vassallo usan trovare.
Adunque ognuno alla mensa camina:
comincian le mascella adoperare,
ch’un giorno avevon mangiato già in sogno,
tal che di vettovaglia avean bisogno.
Quivi vivande è di molte ragioni:
pavoni e starne e leprette e fagiani,
cervi e conigli e di grassi capponi,
e vino ed acqua per bere e per mani.
Morgante sbadigliava a gran bocconi,
e furno al bere infermi, al mangiar sani;
e poi che sono stati a lor diletto,
si riposorno intro ’n un ricco letto.
Come e’ fu l’alba, ciascun si levava
e credonsene andar come ermellini,
né per far conto l’oste si chiamava,
ché lo volean pagar di bagattini;
Morgante in qua ed in là per casa andava,
e non ritruova dell’uscio i confini.
Diceva Orlando: - Saremo noi mézzi
di vin, che l’uscio non si raccapezzi?
Questa è, s’io non m’inganno, pur la sala,
ma le vivande e le mense sparite
veggo che son; quivi era pur la scala.
Qui son gente stanotte comparite,
che come noi aranno fatto gala;
le cose ch’avanzorno, ove sono ite? -
E in questo errore un gran pezzo soggiornano:
dovunque e’ vanno, in sulla sala tornano.
Non riconoscono uscio né finestra.
Dicea Morgante: - Ove siàn noi entrati?
Noi smaltiremo, Orlando, la minestra,
ché noi ci siam rinchiusi e inviluppati
come fa il bruco su per la ginestra. -
Rispose Orlando: - Anzi ci siam murati. -
Disse Morgante: - A volere il ver dirti,
questa mi pare una stanza da spirti:
questo palagio, Orlando, fia incantato
come far si soleva anticamente. -
Orlando mille volte s’è segnato,
e non poteva a sé ritrar la mente,
fra sé dicendo: «Aremol noi sognato?».
Morgante dello scotto non si pente,
e disse: - Io so ch’al mangiare ero desto;
or non mi curo s’egli è sogno il resto.
Basta che le vivande non sognai;
e s’elle fussin ben di Satanasso,
arrechimene pure innanzi assai. -
Tre giorni in questo error s’andorno a spasso
sanza trovare ond’egli uscissin mai;
e ’l terzo giorno, scesi giù da basso,
in una loggia arrivon per ventura
donde un suono esce d’una sepultura,
e dice: - Cavalieri, errati siete:
voi non potresti di qui mai partire
se meco prima non v’azzufferete;
venite questa lapida a scoprire,
se non che qui in eterno vi starete. -
Per che Morgante cominciò a dire:
- Non senti tu, Orlando, in quella tomba
quelle parole che colui rimbomba?
Io voglio andare a scoprir quello avello
là dove e’ par che quella voce s’oda;
ed escane Cagnazzo e Farferello
o Libicocco col suo Malacoda. -
E finalmente s’accostava a quello,
però che Orlando questa impresa loda
e disse: - Scuopri, se vi fussi dentro
quanti ne piovvon mai dal ciel nel centro. -
Allor Morgante la pietra sù alza:
ecco un dïavol più ch’un carbon nero
che della tomba fuor sùbito balza
in un carcame di morto assai fiero,
ch’avea la carne secca, ignuda e scalza.
Diceva Orlando: - E’ fia pur daddovero:
questo è il dïavol, ch’io ’l conosco in faccia. -
E finalmente addosso se gli caccia.
Questo dïavol con lui s’abbracciòe:
ognuno scuote; e Morgante diceva:
- Aspetta, Orlando, ch’io t’aiuteròe. -
Orlando aiuto da lui non voleva;
pure il dïavol tanto lo sforzòe
ch’Orlando ginocchion quasi cadeva;
poi si rïebbe e con lui si rappicca:
allor Morgante più oltre si ficca.
E’ gli parea mill’anni d’appiccare
la zuffa; e come Orlando così vide,
comincia il gran battaglio a scaricare,
e disse: - A questo modo si divide. -
Ma quel demon lo facea disperare,
però che i denti digrignava e ride.
Morgante il prese alle gavigne stretto
e missel nella tomba a suo dispetto.
Come e’ fu dentro, gridò: - Non serrare,
ché se tu serri, mai non uscirai. -
Disse Orlando: - In che modo abbiamo a fare? -
E’ gli rispose: - Tu lo sentirai.
Convienti quel gigante battezare,
poi a tua posta andar te ne potrai:
fallo cristiano, e come e’ sarà fatto,
a tuo camin ne va sicuro e ratto.
Se tu mi lasci questa tomba aperta,
non vi farò più noia o increscimento:
ciò ch’io ti dico, abbi per cosa certa. -
Orlando disse: - Di ciò son contento,
benché tua villania questo non merta;
ma per partirmi di qui, ci consento. -
Poi tolse l’acqua e battezò il gigante,
ed uscì fuor con Rondello e Morgante.
E come e’ fu fuor del palagio uscito,
sentì drento alle mura un gran romore;
onde e’ si volse, e ’l palagio è sparito;
allor cognobbe più certo l’errore:
non si rivede né mura né il sito.
Dicea Morgante: - E’ mi darebbe il cuore
che noi potremo or nell’inferno andare
e far tutti i dïavoli sbucare.
Se si potessi entrar di qualche loco,
ché nel mondo è certe bocche, si dice,
donde e’ si va, che di fuor gettan fuoco,
e non so chi v’andò per Euridice,
io stimerei tutti i dïavol poco.
Noi ne trarremo l’anime infelice;
e taglierei la coda a quel Minosse,
se come questo ogni dïavol fosse;
e pelerò la barba a quel Caron,
e leverò della sedia Plutone;
un sorso mi vo’ far di Flegeton
e inghiottir quel Fregiàs con un boccone;
Tesifo, Aletto, Megera e Ericon
e Cerbero ammazzar con un punzone;
e Belzebù farò fuggir più via
ch’un dromedario non andre’ in Soria.
Non si potrebbe trovar qualche buca?
tu vi vedresti il più bello spulezzo,
pur che questo battaglio vi conduca;
e mettimi a’ dïavoli poi in mezzo. -
Rispose Orlando: - E’ non vi si manuca,
Morgante mio: noi vi faremo lezzo,
e nell’entrar ci potremo anco cuocere:
dunque l’andata starebbe per nuocere.
Quando tu puoi, Morgante, ir per la piana,
non cercar mai né l’erta né la scesa,
o di cacciare il capo in buca o in tana:
andian pur per la via nostra distesa. -
E così ragionando, una fontana
trovoron, dove due fan gran contesa:
eron corrier con lettere mandati,
e come micci si son bastonati.
Orlando, come e’ giunse, gli domanda:
- Ditemi un poco, perché v’azzuffate?
Voi mi parete corrier: chi vi manda,
o che imbasciate o lettere portate?
Venite voi di Francia o di qual banda?
Lasciate un poco star le bastonate:
ditemi ancor se voi siete cristiani,
se Dio vi salvi e bastoni e le mani. -
Rispose l’un di loro: - Io son cristiano,
e poco tempo è ch’io venni abitare
a un castel chiamato Monte Albano.
Rinaldo, il mio signor, mi fa cercare
d’un suo cugino; e ’l traditor di Gano
lo séguita per far male arrivare:
manda costui, che tu vedi, cercando
di questo suo cugin c’ha nome Orlando.
A questa fonte a caso ci trovamo,
e come egli è de’ nostri pari usanza
di domandar l’un l’altro, domandamo:
«Che lettera o imbasciata hai d’importanza?»,
e come stracchi un poco ci posamo.
Costui mi dice che Gan di Maganza
per far morire Orlando lo mandava,
e che per Pagania di lui cercava.
E perch’io presi la parte d’Orlando,
alzò la mazza sanza dir nïente:
così si venne la zuffa appiccando. -
Orlando, quando le parole sente,
diceva: - O Dio, a te mi raccomando
da questo traditore e frodolente!
Io pur non truovo, ovunque io mi dilegui,
luogo che ’l traditor non mi persegui. -
Quando Morgante vede il suo signore
che si doleva e contro a Gano sbuffa,
tanto gli venne sdegno e pietà al core
che per la gola il corrier tosto ciuffa,
cioè quel che mandava il traditore,
e nella fonte sott’acqua lo tuffa,
calpesta e pigia, e per ira si sfoga,
tanto che tutto lo ’nfranse ed affoga.
Orlando disse a quell’altro corriere:
- Io son colui per chi tu se’ mandato.
Di’ a Rinaldo che in questo sentiere,
come tu vedi, il cugino hai trovato:
io son Orlando, e poi ch’egli è in piacere
di Carlo, vo pel mondo disperato. -
Quando il corrier sentì ch’Orlando è questo,
maravigliossi e inginocchiossi presto.
Dimmi a Carlo - diceva ancora Orlando
- che si consigli col suo Gano antico;
ed io pel mondo vo peregrinando
come s’io fussi qualche suo nimico.
Digli dove trovato e come e quando
tu m’hai qui solo e povero e mendico;
e quel ch’io ho fatto, corrier, per costui,
credo che ’l sappi ognun, salvo che lui,
che non sa quel che beneficio sia,
non si ricorda ch’io sia suo nipote
o ch’i’ in sua corte in Francia stessi o stia:
basta che Gan ciò che vuol con lui puote,
tanto ch’io me ne vo in Pagania
pur come voglion le volubil rote.
E di’ ch’io ho sol con meco un gigante
ch’è battezato, appellato Morgante,
e ’l caval che tu vedi, e questa spada;
altro non ho se non questa armadura;
e ch’io non so io stesso ove io mi vada
o dove ancor mi guidi la ventura;
ma inverso Barberia tengo la strada:
andrò dove mi porta mia sciagura,
poi che e’ consente a cercar la mia morte;
e che mai più non tornerò in sua corte.
Dimmi a Rinaldo mio, figliuol d’Amone,
che la mia compagnia che io lasciai
gli raccomando con affezïone;
ch’io penso in Pagania morire omai.
Saluta Astolfo, Namo e Salamone
e Berlinghier, che sempre molto amai;
a Ulivier di’ che la sua sorella
gli raccomando, e mia sposa, Alda bella.
Dimmi al Danese, caro imbasciatore,
che in Francia a questi tempi non m’aspetti;
e di’ ch’io ho Cortana e ’l corridore,
acciò che forse di ciò ignun sospetti;
della mia sopravvesta il suo colore
vedi come è dipinta a Macometti;
che si ricordi del suo caro Orlando
che va pel mondo sperso or tapinando.
Dimmi il tuo nome or, se t’è in piacimento. -
Onde e’ rispose: - Questo è ben dovere,
o signor mio: chiamar mi fo Chimento.
Cristo ti muti di sì stran pensiere,
ché tua risposta mi dà gran tormento:
questo non è quel che ’l signor mio chiere.
Io voglio, Orlando, voi mi perdoniate,
e ch’alquante parole m’ascoltiate.
Quand’io da Montalban feci partita,
io fui a Parigi, dond’io vengo adesso:
la corte pare una cosa smarrita,
lo ’mperador non pareva più desso,
vedovo il regno e la gente stordita.
Gli orecchi debbon cornarvi qua spesso,
ch’ognun ragiona della vostra fama,
e ’l popul tutto a un grido vi chiama.
Il mio signor con gran disio v’aspetta;
Parigi e Francia, ogni cosa si duole.
Or vi vo’ dire una mia novelletta,
ché spesso la ragion lo essemplo vuole.
Un tratto a spasso anco la formichetta
andò pel mondo, come far si suole,
e trovò infine un teschio di cavallo
e semplicetta cominciò a cercallo.
Quand’ella giunse ove il cervello stava,
questa gli parve una stanza sì bella
che nel suo cor tutta si rallegrava,
e dicea seco questa meschinella:
«Qualche signor per certo ci abitava».
Ma finalmente, cercando ogni cella,
non vi trovava da mangiar nïente,
e di sua impresa alla fine si pente;
e ritornossi nel suo bucolino.
Perdonimi, s’io fallo, chi m’ascolta,
e intenda il mio vulgar col suo latino:
io vo’ che a me crediate questa volta
e ritorniate al vostro car cugino,
se non ch’ogni speranza gli fia tolta:
disse che mai a lui non ritornassi,
se meco in Francia non vi rimenassi.
Il grande amor mi sforza a quel ch’io dico:
riconoscete e gli amici e’ parenti;
l’andar così pel mondo è pure ostìco. -
Orlando, udendo e suoi ragionamenti,
disse: - Chimento, tu se’ buono amico. -
E gittò fuor molti sospir dolenti;
e da costui alfin s’accomiatava
sanz’altro dir, ché piangendo n’andava.
Orlando, poi che partì da Chimento,
tutto quel giorno seco ha sospirato;
così il messaggio ne va mal contento,
non sa come a Rinaldo sia tornato.
Morgante ne va a piè di buon talento
con quel battaglio che è duro e granato;
e in su ’n un poggio le pagane schiere
di Manfredon cominciono a vedere,
padiglioni e trabacche e pennoncelli,
e sentono stormenti oltra misura,
nacchere e corni e trombe e tamburelli,
e cavalier coperti d’armadura
vedean, cogli elmi rilucenti e belli.
Orlando guata inverso la pianura,
e vede tanti pagani attendati
come l’abate gli avea numerati.
Di questo molto se ne rallegròe;
così Morgante; e poi che ’l poggio scese,
dinanzi a Manfredon s’appresentòe,
ch’era gentil, magnanimo e cortese,
e di Morgante si maravigliòe;
e ’l conte Orlando per la briglia prese,
e disse: - Benvenuto sia, barone.
Dismonta, e poi verrai nel padiglione. -
Orlando lascia a Morgante Rondello
e va nel padiglion col re pagano;
e Manfredon così diceva a quello:
- Chi tu ti sia, saracino o cristiano,
ti tratterò come gentil fratello;
e perché il tuo venir non sia qui invano,
soldo darotti, se t’è in piacimento,
tanto che tu sarai, baron, contento. -
Rispose alle parole grate Orlando:
- Preso m’avete col vostro parlare;
soldo nïente da voi non domando
se non vedete l’arme adoperare. -
E così molte cose ragionando,
disse il pagano: - Io vi vo’ ragguagliare
di quel che forse per voi non sapete,
ché cavalier discreti mi parete.
Io vi dirò la mia disavventura,
s’alcun rimedio sapessi trovarmi:
io ardo tutto, per la mia sciagura,
d’una fanciulla, e non so più che farmi;
due volte abbiam provato l’armadura:
ogni volta ha potuto superarmi,
sì che da lei vituperato sono
e messo ho la speranza in abbandono.
Egli è ben vero ch’io ho qui tanta gente
che mi darebbe il cuor di superarla;
ma non sarebbe onor certanamente,
ché colla lancia intendo d’acquistarla.
S’alcun di voi sarà tanto possente
ch’a corpo a corpo credessi atterrarla,
ricomperrollo ciò ch’io ho nel mondo:
ché basta a me sol lei, poi son giocondo. -
Orlando disse: - Noi ci proverremo:
ognun ci adoperrà tutta sua possa;
e credo pure alfin noi vinceremo,
se femina sarà di carne e d’ossa. -
Disse il pagano: - Ogni cosa diremo.
Prima che la fanciulla facci mossa,
manda in sul campo sempre un suo fratello,
molto gagliardo e gentil damigello;
e per nome si chiama Lïonetto,
ed è figliuol del gran re Caradoro,
e non adora alcun più Macometto
che sia sì forte, per più mio martoro.
E la sorella ch’io v’ho prima detto,
per cui solo ardo, mi distruggo e moro,
gentile, onesta, anzi cruda e villana,
sappi che chiamata è Meredïana.
E veramente è come ella si chiama,
perché di mezzodì par proprio un sole.
Io innamorai di questa gentil dama
non per vista, per atti o per parole,
ma per le sue virtù ch’udi’ per fama,
ovver che ’l mio destin pur così vuole;
e da quel giorno in qua ch’amor m’accese
per lei son fatto e gentile e cortese.
Or vo’ pregarvi, famosi baroni,
che ’l nome mi diciate in cortesia. -
Orlando disse con grati sermoni:
- Io vel dirò, perché in piacer vi sia,
benché far vi vorremo maggior doni;
pur negar questo sare’ villania
Più tempo ho fatto in Levante dimoro,
e son chiamato da ciascun Brunoro.
E questo mio compagno che è gigante,
veder potrete quanto è valoroso:
fassi chiamare il feroce Morgante,
ed è più che non mostra poderoso.
In Macometto crede e Trevigante. -
Il re, sentendol, molto grazïoso
rispose: - Per mia fé, che voi sarete
da me trattati come voi vorrete. -
E quanto può Manfredon gli onorava,
e nel suo padiglion sempre gli tenne,
e molte cose con lor ragionava.
Ma finalmente un dì per caso avvenne
che Lïonetto quel campo assaltava,
e inverso il padiglion, come e’ suol, vienne,
e Manfredon chiamava con un corno
alla battaglia, per più beffe e scorno.
E cominciò per modo a muover guerra
che molta gente faceva fuggire:
parea quando alle pecore si serra
il lupo, onde ’l pastor si fa sentire;
e qual ferisce e qual trabocca in terra,
e molti il dì ne faceva morire,
e chi fuggir non può ne va prigione;
onde e’ fuggivan tutti al padiglione.
Il conte Orlando udì che Lïonetto
aveva il campo in tal modo assalito
ch’ognun fuggìa dinanzi al giovinetto:
sùbito sopra Rondel fu salito,
e disse: - Vienne, Morgante, io t’aspetto:
di Lïonetto non hai tu sentito?
Tu vedrai or di Macon la possanza
e del tuo Cristo, ove tu hai speranza. -
Dicea Morgante: - Io non ho mai veduto
provare Orlando, io lo vedrò pure ora:
ringrazio Iddio ch’io mi sarò abbattuto. -
Orlando sprona il suo cavallo allora
e sparì via com’uno stral pennuto;
per che Morgante s’avvïava ancora,
e col battaglio si viene assettando,
e guarda pur quel che faceva Orlando.
Orlando nella pressa si mettea,
e pur Morgante guarda dove e’ vada,
e sempre drieto a Rondel gli tenea
dove e’ vedea che pigliava la strada.
E Lïonetto in quel tempo giugnea,
ch’aveva in man sanguinosa la spada.
Orlando il vide e la lancia abbassava;
ma Lïonetto un’altra ne pigliava.
Volse il cavallo e ’nverso Orlando abbassa,
e vannosi a ferir con gran furore,
e l’una e l’altra lancia si fracassa;
ma Lïonetto uscì del corridore,
e Rondel via, come il suo nome, passa.
Morgante guata drieto al suo signore,
e dice: «Orlando è pur baron perfetto,
e Cristo è vero, e falso è Macometto».
Ma Lïonetto pur si rilevòe
e sopra il suo cavallo è rimontato,
e Macometto a gran voce chiamòe
dicendo: - Traditor, ch’io ho adorato
a torto sempre, io ti rinnegheròe,
poi ch’a tal punto tu m’hai abandonato:
l’anima mia più non ti raccomando,
ché non are’ quel colpo fatto Orlando. -
Poi si rivolse a Orlando dicendo:
- Nota che e’ fu del mio destriere il fallo. -
Orlando gli rispose sorridendo:
- E’ si vorre’ co’ buffetti ammazzallo. -
Disse Morgante: - Così non la intendo:
or che tu se’ rimontato a cavallo,
mi par che sia tuo debito, pagano,
di riprovarvi colle spade in mano. -
Rispose Lïonetto: - A ogni modo
vo’ che col brando terminian la zuffa. -
Disse Morgante: - Per Dio, ch’io la lodo,
ché tu vedrai che ’l caval non fe’ truffa. -
Or tu, Signore, a cui servir sol godo,
per cui la terra e l’aria si rabbuffa,
guardaci e salva e ’nsino al fine insegna
tanto ch’io canti questa istoria degna.