Edizione Italiana
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    Luigi Pulci

    Cantare terzo

    Padre, o giusto, incomprensibil Dio,
    illumina il mio cor perfettamente,
    sì che e’ si mondi del peccato rio;
    e pur s’io sono stato negligente,
    tu se’ pur finalmente il Signor mio,
    tu se’ salute dell’umana gente;
    tu se’ colui che ’l mio legno movesti
    e ’nsino al porto aiutar mi dicesti.

    Orlando gli rispose: - Egli è dovere. -
    E colle spade si son disfidati.
    E Lïonetto, ch’avea gran potere,
    molti pensieri aveva essaminati
    per fare al conte Orlando dispiacere;
    e perché tutti non venghin fallati,
    alzava con due man la spada forte
    per dare al suo caval, se può, la morte.

    Orlando vide il pagano adirato:
    pensò volere il colpo riparare,
    ma non poté, ché ’l brando è giù calato
    in su la groppa e Rondel fe’ cascare,
    tanto ch’Orlando si trovò in sul prato,
    e disse: - Iddio non si poté guardare
    da’ traditor: però chi può guardarsi?
    Ma la vergogna qua non debbe usarsi. -

    Poi fra sé disse: «Ove se’, Vegliantino?»;
    ma non disse sì pian che ’l suo nimico
    non intendessi ben questo latino:
    e’ si pensò di dirlo al padre antico.
    Orlando s’accorgea del saracino,
    e disse: «Se più oltre a costui dico,
    in dubbio son se mi conosce scorto:
    il me’ sarà ch’e’ resti al campo morto».

    La gente fu dintorno al conte Orlando
    con lance e spade, con dardi e spuntoni;
    e lui soletto s’aiuta col brando:
    a quale il braccio tagliava e’ faldoni,
    a chi tagliava sbergo, a chi potando
    venìa le mani, e cascono i monconi;
    a chi cacciava di capo la mosca,
    acciò ch’ognun la sua virtù conosca.

    Morgante vide in sì fatto travaglio
    il conte Orlando, e in là n’andava tosto,
    e cominciò a sciorinare il battaglio
    e fa veder più lucciole che agosto;
    e saracin di lui fanno un berzaglio
    di dardi e lance, ma gettan discosto;
    tanto che, quando dove è il conte venne,
    un istrice coperto par di penne.

    Era a cavallo Orlando risalito,
    e già di Lïonetto ricercava;
    ma Lïonetto, come e’ l’ha scolpito,
    inverso la città si ritornava,
    e per paura l’aveva fuggito.
    Orlando forte Rondello spronava,
    e tanto e tanto in su’ fianchi lo punse
    che Lïonetto alla porta raggiunse.

    Volgiti indrieto; onde è tanta paura, -
    gridò - pagano? - E colui pur fuggiva,
    perché e’ temeva della sua sciagura.
    Orlando colla spada l’assaliva,
    e non poté fuggir drento alle mura
    il giovinetto, ch’Orlando il feriva
    irato con tal furia e con tempesta
    che gli spiccò dallo imbusto la testa.

    Nel campo si tornò poi che l’ha morto;
    trovò Morgante che nella pressa era:
    ebbe di Lïonetto assai conforto,
    e ritornârsi inverso la bandiera.
    Il caso presto alla dama fu porto,
    che luce più ch’ogni celeste spera:
    graffiossi il volto e straccia i capei d’oro,
    sì che fe’ pianger tutto il concestoro.

    E ’l vecchio padre dicea: - Figliuol mio,
    chi mi t’ha morto? - e gran pianto facea.
    - O Macometto, tu se’ falso iddio,
    non te ne incresce di sua morte rea?
    Che pensi tu ch’onor più ti faccia io,
    o ch’io t’adori nella tua moschea? -
    Meredïana in così fatto pianto
    fece trovar tutte sue arme intanto.

    Vennono arnesi perfetti e gambiere
    sùbito innanzi a questa damigella;
    di tutta botta lo sbergo e lamiere,
    e la corazza provata era anch’ella,
    elmetto e guanti e bracciali e gorgiere:
    mai non si vide armadura sì bella;
    e spada che già mai non fece fallo;
    e così armata saltò in sul cavallo.

    Gente non volle che l’accompagnasse:
    uno scudiere a piè sol colla lancia;
    e così par che in sul campo n’andasse,
    se l’aütor della istoria non ciancia,
    e come giunse, un bel corno sonasse
    ch’avea d’avorio, come era la guancia.
    Orlando disse a Manfredonio: - Io torno
    alla battaglia, perch’io odo il corno. -

    Morgante presto assettava Rondello;
    Orlando verso la dama ne gìa
    che vendicar voleva il suo fratello;
    Morgante sempre alla staffa seguia.
    Meredïana, come vide quello,
    presto s’accorse che Brunoro sia.
    Orlando giunse e diègli un bel saluto;
    disse la dama: - Tu sia il mal venuto.

    Se se’ colui ch’hai morto Lïonetto,
    ch’era la gloria e l’onor di Levante,
    per mille volte lo iddio Macometto
    ti sconfonda, Apollino e Trivigante!
    Sappi ch’a quel famoso giovinetto
    non fu mai al mondo o sarà simigliante. -
    Orlando disse con parlare accorto:
    - Io son colui che Lïonetto ho morto. -

    Disse la dama: - Non far più parole:
    prendi del campo, io ne farò vendetta.
    O Macometto crudel, non ti duole
    che spento sia il valor della tua setta?
    ché mai tal cavalier vedrà più il sole,
    né rifarà così Natura in fretta. -
    E rivoltò il destrier suo lacrimando;
    così dall’altra parte fece Orlando.

    Poi colle lance insieme si scontrorno.
    Il colpo della dama fu possente,
    quando al principio l’aste s’appiccorno,
    tanto ch’Orlando del colpo si sente.
    Le lance al vento in più pezzi volorno,
    e Rondel passa furïosamente
    col suo signor, che tutto si scontorse
    pel grave colpo che colei gli porse.

    Orlando ferì lei di furia pieno:
    giunse al cimier che ’n su l’elmetto avea,
    e cadde col pennacchio in sul terreno:
    l’elmo gli uscì, la treccia si vedea,
    che raggia come stelle per sereno,
    anzi pareva di Venere iddea,
    anzi di quella che è fatta un alloro,
    anzi parea d’argento, anzi pur d’oro.

    Orlando rise, e guardava Morgante,
    e disse: - Andianne omai per la più piana.
    Io credea pur qualche baron prestante
    pugnassi qui per la dama sovrana:
    per vagheggiar non venimo in Levante. -
    Ebbe vergogna assai Meridïana:
    sanz’altro dir, colla sua chioma sciolta,
    collo scudiere alla terra diè volta.

    Manfredon disse, come e’ vide Orlando:
    - Dimmi, baron, come andò la battaglia? -
    Orlando gli rispose sogghignando:
    - Venne una donna coperta di maglia,
    e perché l’elmo gli venni cavando,
    su per le spalle la treccia sparpaglia.
    Com’io cognobbi che l’era la dama,
    partito son per salvar la sua fama. -

    Lasciamo Orlando star col saracino,
    e ritorniamo in Francia a Carlo Mano.
    Carlo si stava pur molto tapino,
    così il Danese, e lieto era sol Gano,
    poi che non v’è più Orlando paladino;
    ma sopra tutti il sir da Montalbano,
    Astolfo, Avino, Avolio ed Ulivieri
    piangevan questo, e così Berlinghieri.

    Chimento un giorno, il messaggio, è tornato,
    e inginocchiossi innanzi alla Corona
    dicendo: - Carlo, tu sia il ben trovato,
    di cui tanto il gran nome e ’l pregio suona. -
    Rinaldo, che lo vide addolorato,
    disse: - Novella non debbi aver buona. -
    Donde il messaggio disse lacrimando:
    - Io ho trovato il tuo cugino Orlando. -

    E mentre che più oltre volea dire,
    sì fatta tenerezza gli abbondava
    che e’ non poté le parole finire,
    quando i baroni intorno riguardava
    ch’Orlando ricordò nel suo partire,
    e tramortito in terra si posava;
    per che ciascuno allor giudica scorto
    che ’l conte Orlando dovessi esser morto.

    Dicea Rinaldo: - Caro cugin mio,
    poi che tu se’ di questa vita uscito,
    sanza te, lasso, che farei più io? -
    ed Ulivier piangea tutto smarrito.
    Carlo pregava umilemente Iddio
    pel suo nipote, tutto sbigottito,
    e maladia quel dì che di sua corte
    e’ si partì, ch’a Gan non diè la morte.

    Piangeva il savio Namo di Baviera
    e Salamon ne facea gran lamento.
    Bastò quel pianto per infino a sera,
    ch’ognun pareva fuor del sentimento;
    e Gan fingea con simulata cera.
    Ma risentito alla fine Chimento
    levossi e confortò costor, pregando
    che non piangessin come morto Orlando,

    dicendo: - Orlando sta di buona voglia -,
    e tutti per sua parte salutòe.
    - Io il trovai nel deserto di Girfoglia,
    ch’a una fonte per caso arrivòe,
    dove un altro corrier mi diè gran doglia
    (ma nella fonte annegato restòe),
    che lo mandava qui Gan traditore
    per far morire il roman senatore. -

    Gridò Rinaldo: - Questo rinnegato
    distrugge pure il sangue di Chiarmonte,
    come tu vuoi, o Carlo mio impazzato. -
    Gan gli rispose con ardita fronte
    e disse: - Io son miglior in ogni lato
    di te, Rinaldo, e del cugin tuo conte. -
    Rinaldo disse: - Per la gola menti,
    ché mai non pensi se non tradimenti. -

    E volle colla spada dare a Gano;
    Gan si fuggì, ch’appunto il cognosceva.
    Bernardo da Pontier, suo capitano,
    irato verso Rinaldo diceva:
    - Rinaldo, tu se’ uom troppo villano. -
    Allor Rinaldo addosso gli correva
    e ’l capo dalle spalle gli spiccava,
    e tutti i Maganzesi minacciava.

    I Maganzesi, veggendo il furore,
    di sùbito la sala sgomberorno.
    Carlo gridava: - Questo è troppo errore!
    Rinaldo mette sozzopra ogni giorno
    la corte nostra, e fammi poco onore. -
    I paladini in questo mezzo entrorno,
    e tutti quanti confortâr Rinaldo
    ch’avessi pazïenza e stessi saldo.

    Rinaldo dicea pur: - Questo fellone
    non vo’ che facci mai più tradimento.
    O Carlo, Carlo, questo Ganellone
    vedrai ch’un dì ti farà mal contento. -
    Carlo rispose: - Rinaldo d’Amone,
    tempo è da operar sì fatto unguento:
    a qualche fine ogni cosa comporto. -
    Disse Rinaldo: - Ch’Orlando sia morto:

    a questo fine il comporti tu, Carlo,
    e che distrugga te, la corte e ’l regno.
    Io voglio il mio cugino ire a trovarlo. -
    Ed Ulivier dicea: - Teco ne vegno. -
    Dodon pregò ch’e’ dovessi menarlo,
    dicendo: - Fammi di tal grazia degno. -
    Disse Rinaldo: - Tu credi ch’io andassi
    che ’l mio Dodon con meco non menassi? -

    Chiamò Guicciardo, Alardo e Ricciardetto:
    - Fate che Montalban sia ben guardato,
    tanto ch’io truovi il cugin mio perfetto:
    ognun sia presto là rappresentato,
    ch’io ho de’ traditor sempre sospetto,
    e Gan fu traditor prima che nato;
    non vi fidate se non di voi stesso,
    e Malagigi getti l’arte spesso. -

    Rinaldo e ’l suo Dodone ed Ulivieri
    da Carlo imperador s’accomiatorno;
    e nel partirsi questi cavalieri
    tre sopravveste verde s’acconciorno,
    che in una lista rossa due cervieri
    v’era, e con esse pel camino entrorno:
    era questa arme d’un gran saracino
    disceso della schiatta di Mambrino.

    Così vanno costor alla ventura:
    usciron della Francia incontanente,
    passoron della Spagna ogni pianura:
    tra mezzodì ne vanno e tra ponente.
    Lasciàngli andar, che Cristo sia lor cura,
    e tratterem d’un saracin possente
    che inverso Barberia facea dimoro:
    era gigante e chiamato Brunoro,

    ovver cugin carnale ovver fratello
    del gran Morgante, ch’avea seco Orlando,
    e Passamonte ed Alabastro, quello
    ch’Orlando nel deserto uccise quando
    il santo abate riconobbe, e féllo
    contento il parentado ritrovando.
    Brunor, per far de’ suo’ fratei vendetta,
    di Barberia s’è mosso con gran fretta,

    con forse trentamila ben armati
    e tutti quanti usati a guerreggiare:
    alla badia ne vengon difilati
    per far l’abate e’ monaci sbucare;
    e tanto sono a stracca cavalcati
    che cominciorno le mura a guardare;
    e giunti alla badia, drento v’entraro,
    ché contro a lor non vi fu alcun riparo.

    E ’l domine messer lo nostro abate
    la prima cosa missono in prigione.
    Disse Brunoro: - Colle scorreggiate
    uccider si vorria questo ghiottone;
    ma pur per ora in prigion lo cacciate:
    riserberello a maggior punizione:
    cagione è stato principale e mastro
    che Passamonte è morto ed Alabastro. -

    Rinaldo in questo tempo alla badia
    con Ulivieri e Dodone arrivava;
    vide de’ saracin la compagnia,
    e del signor, chi fusse domandava.
    Brunor rispose con gran cortesia:
    - Io son desso io, e se ciò non vi grava,
    ditemi ancor chi voi, cavalier, siete. -
    Disse Rinaldo: - Voi lo ’ntenderete.

    Noi siàn là de’ paesi del Soldano
    pur cavalieri erranti e di ventura:
    per la ragion come Ercul combattiàno;
    abbiamo avuto assai disavventura:
    questo ci avvenne perché il torto avàno,
    e la ragion pur ebbe sua misura;
    nostri compagni alcun n’è stato morto,
    che nol sappiendo difendeano il torto. -

    Disse Brunoro: - Io mi fo maraviglia
    che voi campassi, e per Dio mi vergogno
    a dirvi quel che la mente bisbiglia:
    voi siete armati in visïone o in sogno.
    Se voi volete colla mia famiglia
    mangiar, che forse n’avete bisogno,
    dismonterete, ed onor vi fia fatto,
    e fate buono scotto per un tratto. -

    Disse Rinaldo: - Da mangiare e bere
    accetto. - Il re chiamava un saracino;
    disse: - Costor son gente da godere,
    e vanno combattendo il pane e ’l vino,
    e carne quando e’ ne possono avere;
    non debbe bisognar dar loro uncino
    o por la scala, ove aggiungon con mano;
    dice che son cavalier del Soldano.

    Se la ragione aspetta che costoro
    l’aiutino, in prigion se n’andrà tosto,
    s’avessi più avvocati, argento o oro
    o carte o testimon che fichi agosto. -
    Dicea fra sé sorridendo Brunoro:
    «A Ercol s’agguagliò quel ciuffalmosto,
    o cavalier di gatta o qualche araldo».
    Ed ogni cosa intendeva Rinaldo.

    Truova cosa che faccin collezione,
    se v’è reliquia, arcame o catrïosso
    rimaso, o piedi o capi di cappone,
    e dà pur broda e macco a l’uom ch’è grosso:
    vedrai come egli scuffia, quel ghiottone,
    che debbe come il can rodere ogn’osso.
    Assettagli a mangiare in qualche luogo,
    e lascia i porci poi pescar nel truogo. -

    Rinaldo facea vista non udire
    e non gustar quel che diceva quello:
    non si voleva al pagano scoprire
    per nessun modo, e fa del buffoncello.
    Ecco di molta broda comparire
    in un paiuol, come si fa al porcello,
    ed ossa, dove i cani impazzerebbono,
    e in Giusaffà non si ritroverrebbono.

    Rinaldo cominciava a piluccare,
    e trassesi di testa allor l’elmetto;
    ma Ulivier non sel volle cavare,
    così Dodon, ché stavon con sospetto:
    per che Brunor, veggendogli imbeccare
    per la visiera, guardava a diletto;
    e comandava a un di sua famiglia
    ch’a’ lor destrier si traessi la briglia;

    e fece dar lor biada e roba assai,
    dicendo: - Questi pagheran lo scotto,
    o l’arme lasceran con molti guai:
    non mangeranno così a bertolotto. -
    Dicea Rinaldo: «Alla barba l’arai»;
    e cominciò a mangiar come un arlotto.
    Ma quel sergente a chi fu comandato
    avea il caval di Dodon governato.

    Poi governò, dopo quel, Vegliantino
    ch’avea con seco menato il marchese;
    poi se ne va a Baiardo il saracino;
    e come il braccio alla greppia distese,
    Baiardo lo ciuffòe come un maschino
    e in sulla spalla all’omero lo prese,
    che lo schiacciò come e’ fussi una canna,
    tal che con bocca ne spicca una spanna.

    Sùbito cadde quel famiglio in terra
    e poi per grande spasimo morìo.
    Disse Rinaldo: - Appiccata è la guerra:
    lo scotto pagherai tu, mi credo io:
    vedi che spesso il disegno altrui erra. -
    Quando Brunor questo caso sentìo,
    disse: - Mai vidi il più fero cavallo:
    io vo’ che tu mel doni sanza fallo. -

    Rinaldo fece «albanese, messere»;
    disse: - Questo orzo mi par del verace. -
    Brunor diceva con un suo scudiere:
    - Questo caval si vorrà, ché mi piace. -
    Rinaldo torna e riponsi a sedere,
    e rimangiò come un lupo rapace.
    Un saracin, che ancor lui fame avea,
    allato a lui a mangiar si ponea.

    Rinaldo l’ebbe alla fine in dispetto,
    però che diluviava a maraviglia
    e cadegli la broda giù pel petto;
    guardò più volte, e torceva le ciglia;
    poi disse: - Saracin, per Macometto,
    che tu se’ porco o bestia che ’l somiglia!
    Io ti prometto, s’ tu non te ne vai,
    farò tal giuoco che tu piangerai. -

    Disse il pagan: - Tu debbi esser un matto,
    poi che di casa mia mi vuoi cacciare. -
    Disse Rinaldo: - Tu vedrai bell’atto. -
    Il saracin non se ne vuole andare,
    e nel paiuol si tuffava allo ’mbratto.
    Rinaldo non poté più comportare,
    e ’l guanto si mettea nella man destra,
    tal che gli fece smaltir la minestra:

    ché gli appiccò in sul capo una sorba
    che come e’ fussi una noce lo schiaccia:
    non bisognò che con man vi si forba,
    e morto nel paiuol quasi lo caccia,
    tanto che tutta la broda s’intorba.
    Dodon gridava al marchese: - Sù, spaccia,
    lieva sù presto, la zuffa s’appicca! -
    donde Ulivieri abandonò la micca.

    Allora una brigata di que’ cani
    sùbito addosso corsono a Dodone,
    e cominciossi a menarvi le mani.
    Rinaldo vide appiccar la quistione
    e in mezzo si scagliò di que’ pagani;
    così faceva Ulivier borgognone:
    trasse dallato la spada sua bella,
    ma presto brutta e sanguinosa félla.

    Al primo che trovò la zucca taglia;
    Dodone uccise un pagan molto ardito.
    Brunor, veggendo avvïar la battaglia,
    sùbito verso Rinaldo fu ito
    e disse: - Cavalier, se Iddio ti vaglia,
    per che cagion se’ tu stato assalito? -
    e gridò forte che ciascun s’arresti,
    tanto che ’l caso a lui si manifesti.

    Sùbito la battaglia s’arrestava.
    Saper voleva ogni cosa Brunoro;
    verso Rinaldo di nuovo parlava:
    - Dimmi, baron, perché tu dài martoro
    alla mia gente, che troppo mi grava? -
    Disse Rinaldo: - Come san costoro,
    non vo’ mai noia quando io sono a desco,
    e sto, come il caval, sempre in cagnesco.

    Venne a mangiar qua uno; io lo pregai
    che se n’andassi, e’ non curò il mio dire:
    mangiato non parea ch’avessi mai
    ed ogni cosa faceva sparire.
    Le frutte dopo al mangiar gli donai
    perché il convito s’avessi a fornire. -
    E mentre che e’ dicea questo al pagano,
    Frusberta sanguinosa tenea in mano.

    Disse Brunor: - Poi che così mi conti,
    di questo fatto se ne vuol far pace.
    Non siate così tosto al ferir pronti.
    Io t’ho fatto piacer: se non ti spiace,
    i peccati commessi sieno sconti;
    rimettete le spade, se vi piace. -
    Rimisson tutti allora il brando drento.
    Brunor seguiva il suo ragionamento:

    Detto m’avete, s’io v’ho inteso bene,
    che combattete sol per la ragione:
    però d’un altro caso vi conviene
    dirne con meco vostra oppinïone.
    Dirovvi prima quel che s’appartiene,
    e voi poi solverete la quistione;
    se non, tu lascerai qui il tuo cavallo,
    che ristorò dell’orzo il mio vassallo. -

    Disse Rinaldo: - Apparecchiato sono. -
    Brunoro allor gli raccontava il fatto:
    - Questa badia s’è messa in abbandono
    perché due miei frategli furno a un tratto
    fatti morir sanza trovar perdono;
    ond’io, sentendo sì tristo misfatto,
    venuto sono a vendicargli, e preso
    l’abate ho qui, da cui mi tengo offeso.

    Se la ragion tu di’ che suol difendere,
    tu doverresti aiutar me per certo,
    ed a me par che tu mi vogli offendere:
    onor t’ho fatto aspettando buon merto. -
    Disse Rinaldo: - Falso è il tuo contendere.
    Io ti dirò quel ch’io ne ’ntendo aperto:
    con un sol bue io non son buon bifolco,
    ma s’io n’ho due, andrà diritto il solco.

    Se due campane l’una odi sonare
    e l’altra no, chi può giudicar questo,
    qual sia migliore? Io odo il tuo parlare;
    vorrei da quello abate udire il resto. -
    Disse Brunoro: - E questo anco a me pare. -
    Venne l’abate appiccato al capresto,
    e liberato fu della prigione
    perché e’ potessi dir la sua ragione.

    Disse Brunoro: - Io ho detto a costui
    l’oltraggio che da te ho ricevuto:
    contato gli ho come diserto fui
    pe’ tuoi consigli da chi t’ha creduto.
    Or tu le ragion tue puoi dire a lui,
    che mi pare uom assai giusto e saputo. -
    Disse l’abate: - Or l’altra parte udite,
    a voler ben giudicar nostra lite.

    Io mi posavo in queste selve strane,
    e’ suoi frategli ogni dì mi facevano
    a torto mille ingiurie assai villane,
    e spesso i faggi e le pietre sveglievano;
    hanno più volte rotte le campane
    e de’ miei frati con esse uccidevano.
    Convennemi alcun tempo comportarli,
    ché forze non avea da contastarli.

    Ma come piacque a quel Signor divino
    ch’aiuta sempre ognun c’ha la ragione,
    ci capitò un mio fratel cugino
    il qual si chiama Orlando di Millone;
    e come quel che è giusto paladino
    ebbe di me giusta compassïone,
    e in su quel monte andò a trovar costoro
    e con sua mano uccise due di loro.

    E ’l terzo per suo amor si convertìe
    e con quel conte Orlando se n’andòe
    verso Levante, e da me si partìe,
    tanto che sempre ne sospireròe. -
    Quando Rinaldo le parole udìe,
    molto d’Orlando si maravigliòe,
    e non sapea rassettar nella mente
    come l’abate fussi suo parente.

    E cominciò così al pagano a dire:
    - Or ti parrà che ’l solco vadi ritto,
    or due campane si possono udire.
    Tu mi parlavi simulato e fitto;
    però, s’a questo non sai contraddire,
    la mia sentenzia è data già in iscritto:
    se vero è quel che l’abate m’ha porto,
    egli ha ragione, e tu, pagano, hai il torto.

    E intendo di provar quel ch’io ti dico
    a corpo a corpo, a piede o a cavallo,
    perch’io son troppo alla ragione amico. -
    Disse il pagano: - E’ si vorria impiccallo
    con teco. Or guârti come mio nimico:
    tu debbi esser un ghiotto sanza fallo. -
    Disse Rinaldo: - Come io sarò ghiotto
    tu mel saprai dir meglio al primo botto. -

    Disse Brunoro: - Noi faremo un patto:
    che s’io ti vinco, io vo’ questo destriere,
    ch’al primo so ti darò scaccomatto
    colla pedona in mezzo lo scacchiere. -
    Disse Rinaldo: - Come vuoi sia fatto:
    se tu m’abbatti, questo è ben dovere;
    ed anco a scacchi ti potria dir reo,
    ch’io fo i tuo’ par ballar come il paleo.

    Ma voglio un altro patto, se ti piace:
    che s’io ti vincerò nella battaglia,
    l’abate liber sia lasciato in pace
    dalla tua gente sanz’altra puntaglia.
    Così, se ’l mio pensier fussi fallace,
    questo caval ch’io ho, coperto a maglia,
    vo’ che sia tuo; ma s’ tu m’abbatterai,
    a ogni modo che dich’io l’arai. -

    Poi che l’accordo così si fermava,
    ognun quanto volea del campo tolse;
    come Brunoro il suo destrier girava,
    così Rinaldo Baiardo rivolse.
    Il saracin la sua lancia abbassava:
    sopra lo scudo di Rinaldo colse,
    passollo tutto, e pel colpo si spezza.
    Rinaldo ferì lui con gran fierezza,

    e passagli lo scudo e l’armadura:
    per mezzo il petto la lancia passava;
    due braccia o più d’una buona misura
    dall’altra parte sanguinosa andava;
    e cadde arrovesciato alla verzura;
    l’anima nello inferno s’avvïava.
    Gli altri pagani, veggendol morire,
    Ulivier presto corsono assalire.

    Rinaldo non avea rotta la lancia,
    e ’l primo ch’egli scontra de’ pagani
    gli passò la corazza e poi la pancia;
    poi con Frusberta sgranchiava le mani;
    ed Ulivier, che è pur di que’ di Francia,
    que’ saracini affetta come pani,
    e sopra Vegliantino era salito
    e del diciotto teneva ogni invito.

    Allor Dodone all’abate correa,
    il quale era legato molto stretto:
    tagliò il capresto e le mani sciogliea.
    L’abate presto si misse in assetto:
    uno stangon dalla porta togliea
    ch’a un pagan levò il capo di netto;
    poi nella calca in modo arrandellollo
    ch’a più di sei levò il capo dal collo.

    I frati ognun la cappa si cavava:
    chi piglia sassi e chi stanga e chi mazza;
    ognuno addosso a costor si cacciava,
    molti uccidean di quella turba pazza.
    Rinaldo tanti quel dì n’affettava
    che in ogni luogo pel sangue si guazza:
    a chi balzava il capo e chi il cervello
    come si fa delle bestie al macello.

    Ed Ulivier, ch’aveva Durlindana,
    tu dèi pensar quel che facea di loro:
    e’ fece in terra di sangue una chiana.
    Dodon pareva più bravo ch’un toro.
    Missesi in fuga la gente pagana,
    ché non potean più regger al martoro.
    L’abate all’uscio per più loro angoscia
    s’era arrecato, e nell’uscir fuor croscia.

    Sùbito la badia isgomberorno:
    molti ne fecion saltar le finestre;
    fino al deserto gli perseguitorno,
    poi gli lasciorno alle fiere silvestre.
    E’ monaci la porta riserrorno,
    e rassettârsi all’antiche minestre.
    Poi, riposato, all’abate n’andava
    Rinaldo presto, e così gli parlava:

    Voi dite, abate, che siete cugino,
    se bene ho inteso tal ragionamento,
    d’Orlando nostro, degno paladino;
    però di questo mi fate contento:
    donde disceso siete e in qual confino,
    e che cagion vi condusse al convento? -
    Disse l’abate: - Se saper t’è caro
    quel che tu di’, tu sarai tosto chiaro.

    Io fui figliuol d’un figliuol di Bernardo
    che si chiamò dalla gente Ansuigi,
    fratel d’Amone (e fu tanto gagliardo
    ch’ancor la fama risuona in Parigi),
    d’Ottone e Buovo, s’io non son bugiardo.
    E la cagion ch’io vesto or panni bigi
    fu dal Ciel prima giusta spirazione,
    poi per conforto di papa Lïone. -

    Rinaldo, udendo contar la novella,
    con molta festa lo corse abbracciare,
    e ringraziava del cielo ogni stella;
    e disse: - Abate, io non vi vo’ celare,
    poi che scacciata abbiam la gente fella,
    il nome mio, ch’io nollo potrei fare,
    tanta dolcezza supera la mente:
    son come Orlando anch’io vostro parente:

    io son Rinaldo, e fui figliuol d’Amone;
    e come a lui, a me cugino ancora
    siete! - e piangeva per affezïone;
    per che l’abate lo strigneva allora,
    e mai non ebbe tal consolazione.
    - O giusto Iddio ch’ogni cristiano adora,
    dopo tante altre grazie e lunga etate
    veggo Rinaldo mio, - dicea l’abate

    ed ho veduto il mio famoso Orlando,
    benché del suo partir sia sconsolato;
    nunche dimitte servum tuum quando
    omai ti piace, Signor mio beato. -
    Rinaldo allor soggiunse lacrimando:
    - E questo è Ulivier, che è suo cognato;
    questo è Dodone, il figliuol del Danese. -
    L’abate abbraccia e Dodone e ’l marchese.

    I monaci facevan molta festa,
    perché partito è il popol saracino
    e che per grazia Iddio lor manifesta
    che Rinaldo è dell’abate cugino.
    Ma perch’io sento la terza richiesta
    di ringraziar Chi ci scorge il camino,
    farò sempre al cantar quel ch’è dovuto.
    Cristo vi scampi e sia sempre in aiuto.




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