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Maria Pezzé-Pascolato
L'arcobaleno
Me ne persuado ogni volta che all’ospedale guardo i visi pallidi ma sorridenti dei nostri feriti; o quando sento con quale calma un giovane di vent’anni parli della gamba artificiale che gli costruiscono, raccontando d’averla provata e che «gli va d’incanto». Me ne persuado vedendo, nel treno dei feriti gravi, restituiti alla Patria per lo scambio dei prigionieri, quanta gioia sappiano ancora trovare nel melanconico ritorno questi cari figliuoli, che della guerra sono le vittime più dolorose.
Hanno sofferto, nei mesi dell’esilio, angosce, tribolazioni, torture infinite, ma ora gioiscono, ora si rallegrano tutti per il profumo dei fiori, per le note della Marcia Reale squillanti sotto la tettoia della prima stazione italiana in cui si fermano, e per lo sventolare delle bandiere tricolori — le nostre bandiere, finalmente! — e per i dolci, e per i piccoli doni offerti loro con mani tremanti.
Si, tanta serenità viene dalla coscienza di avere compiuto verso la Patria il più alto dovere; ma questi martiri sentono certo, sia pure confusamente, che il loro sacrifizio frutterà un bene più grande ancora della vittoria oramai vicina: un bene che oltrepassa il nostro tempo, e sarà per i nostri figli e per i figli dei figli, puro come il dolore, eterno come la giustizia per cui hanno combattuto.
Già il dolore ci ha uniti tutti, come non mai prima d’ora.
L’avete provato anche voi, non è vero? Possono uscirci di mente i compagni coi quali s’è riso e cantato; ma quando si sono divisi patimenti, ansie, pericoli, si resta amici per sempre, per la vita e per la morte.
La fratellanza che troppo spesso, nella pace, nel benessere, abbiamo dimenticata, è tanto naturale in vece, e tanto dolce, quando si piange insieme!
Un giorno nel viale d’un cimitero, due madri s’incontrarono, una povera cucitrice, con la pezzuola nera in capo, ed una gran signora, col lungo velo di crespo al cappello: fecero strada insieme e si raccontarono il loro dolore.
— Vengo qui, tanto per recitare un requiem, — disse la cucitrice: — ma il mio figliuolo è in un piccolo cimitero di montagna, dove anche adesso ci sono più di due metri di neve. I suoi compagni gli hanno messo una croce col nome, e mi hanno mandato la fotografia: vuol vederla? — E, addolorata ma fiera, la cavò da una busta, accuratamente avvolta in un foglio.
— Io non ho neppure questo conforto — disse tristamente la signora: — Mio figlio è in fondo al mare. Fu per lo scoppio di una mina.... Ed era appena guarito d’una ferita! Almeno fosse morto com’è morto il suo, in combattimento!
— Poveretta! E non aveva che quello! — mi raccontava poi la cucitrice: — M’ha detto di portarle a leggere la lettera del Colonnello.... È una contessa, ma si cambierebbe subito con me, che almeno ne ho altri due alla fronte....
Come ci unisce il dolore, così ci unisce tutti il sentimento di affetto, d’infinita riconoscenza, di ammirazione, che portiamo ai nostri soldati, ai nostri marinai.
Per amore dei valorosi che combattono alla fronte e sui mari, accettiamo anche noi volentieri, non con rassegnazione soltanto, ma con fierezza, quasi con gioia, privazioni e sacrifizii.
L’inverno scorso, in una notte d’incursione di aeroplani su Venezia, un’altra mamma mi diceva: — Sono quasi contenta di dovermi alzare la notte e di patire anch’io un po’ di freddo. Quando sento sopra la testa il ronzio delle zanzare tedesche, penso: Siamo in mano di Dio — e mi par d’essere meno lontana da mio figlio!
Tutti ci unisce la fede nell’avvenire, nella grandezza d’Italia: — «Abbia fede il Paese, ed avrà la Vittoria» — sono parole di chi ci ha guidato tante volte alla vittoria.
La fede è una immensa forza, e i nemici lo sanno e vorrebbero strapparcela; e per ciò lavorano ed hanno sempre lavorato, sin dal primo giorno, copertamente, vigliaccamente, a propagare bugie e menzogne.
Chiudiamo la bocca a chi sparge lo sconforto; non diamo retta a chi porta cattive notizie, e non ripetiamole mai: si farebbe il gioco dei nostri nemici. Ricordiamo che un’altra grande forza, in questi solenni momenti, è il silenzio: vi può sempre essere una spia in ascolto.
Nè alcun sacrifizio ci sembri inutile, ci sembri da trascurare, perchè sia di poca cosa: poter fare poco non è mai buona ragione per non far niente. Di gocciole è fatto il mare. Se ognuno fa quanto può, ma proprio tutto quanto può e con tutto il cuore, farà abbastanza.
Il Generale comandante la zona di Gorizia disse una volta ai suoi soldati: — «Un’unica fede ci animi, e sia tale da centuplicare le nostre energie, sì che ognuno, nelle prove immancabili che ci attendono, si senta come se la patria non avesse altro combattente che lui».
Così, in ogni più remoto villaggio d’Italia, ciascuno di noi, sia pur piccolo, sia pur debole, metta tutta l’anima sua nella sua pazienza, nel risparmio, nelle privazioni, nei sacrifizii, come se il destino della Patria dipendesse dalla sola sua resistenza.
Tutte le piccole forze riunite formano la potenza della Nazione, per la Vittoria.
Non c’è scusa per non fare, per non dare tutto quello che si può: non ci sono più partiti, nè dissensi, nè differenze. Quando la casa brucia, non si sta a guardare se sia la figlia o la nuora che porti la prima secchia d’acqua. Dopo, magari, si tornerà a leticare, ma intanto tutti han da lottare senz’altro pensiero che di domare l’incendio. Ma, quand’anche dopo la guerra si tornasse un po’ a leticare, non sarebbe più come prima. Dopo avere tanto patito, nessuno più potrà guardare alla vita con gli stessi occhi; dopo aver patito insieme, nessuno più si sentirà lontano dai propri fratelli. Il dolore fa che ci domandiamo certi perchè, fa che ricerchiamo certe ragioni profonde, alle quali troppo poco si pensa nei tempi lieti, tra le cure materiali; e c’insegna a guardare a quello che importa, alle cose essenziali, e a non badare alle altre.
Da questa prova suprema, l’Italia uscirà più forte, e il suo popolo avrà più giustizia nell’interno del paese e troverà più rispetto all’estero.
«La guerra uccide i corpi, ma suscita le anime» disse un altro illustre Comandante. E le anime nuove dopo la guerra faranno un mondo migliore.
Come l’arcobaleno nel cielo, dopo la tempesta, è formato di limpide goccie e di luce, così sarà la prossima pace del mondo, fatta di tutte le nostre lacrime e di una luce nuova, di giustizia e di bontà.
Venezia, maggio 1917.