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Mario Rapisardi
Antinoo
Appoggiò l’arco alla parete, e lento
Volse, intorno guardando all’ampia sala,
Il vendicato Laerzìade il dorso.
Tutti giaceano i Proci, e il pavimento
Lagheggiava di sangue. Atre ei le mani
E maculati i fausti cenci avea;
Ma come terso cielo entro il suo core
Splendea l’animo suo, poiché diritta
E lungamente da una dea voluta
Di quel branco lascivo era la strage.
Al cenno dell’eroe corsero i fidi
Famigli a trarre i morti corpi ; venne
Euriclea con le fanti; e poi che in copia
Ebber dalle ritonde idrie versato
La schietta onda, che fuor dell’inclinate
Bocche sonando prorompea, sollecite
Nel sanguinoso guazzo altre si diedero
Le scope irsute ad agitar, non senza
Serrar fra l’anche le ondeggianti vesti ;
Altre, menando le assetate spugne
Con volubile braccio, ebbero in breve
Nitida fatta la marmorea sala.
Dal mucchio degli uccisi ultimo venne
Antinoo tratto, il più giocondo fiore
Dell’itacense gioventù: vincea
Tutti in bellezza ed in burbanza, e prima
L’avea d’ogn’altro il fatai arco vinto.
Fuori il trasser nell’atrio, e solo, in parte
L’adagiarono contro ad un pilastro
Presso la porta, su d’un bronzeo scanno,
Sì che spirar parea : volean con questo
Maligno gioco saettar la mente
De le ancelle, però che le proterve
Della specie di lui tutte eran prese,
Ed a’ bei dì sei disputavan. Bianco,
Non deformato dalla morte ancora,
Come di tuberosa, era il suo volto ;
E quai grappi di nera uva, alla prona
Fronte e alle gravi palpebre un’azzurra
Ombra irrigavan le scomposte ciocche.
Lo videro le donne, ed i singulti
Soffocavan ne’ petti ansj, ma calde
Le lagrime piovean fuor de’ loro occhi.
Essa Euriclea, benché già vecchia e troppo
Delle vendette del padron contenta,
Sentì serrarsi il cor : poi che all’aspetto
Di quel corpo venusto entro alla fredda
Ombra di morte acerbamente immerso,
D’un suo figliuol si risovvenne, pari
D’anni e non meno agli occhi suoi leggiadro,
Cui non avverso acciar, ma un improvviso
Malor le aveva in un sol dì mietuto.
Si fé’ da presso al giovinetto esangue
La saggia vecchia, e lentamente il bianco
Capo crollando tra le curve spalle,
E carezzando con trepida mano
Quella gelida guancia : Oh, non avessi,
Non avessi tu mai qui pósto il piede,
Ripetea sospirosa ; a te di ameni
Sollazzi i campi, a te di laute mense
Scarsa non era la magion paterna;
Ma ambizìon ti vinse, e forte solo
Del tuo piacer qui ne venisti i censi
A disertare, a soqquadrar le case
Del miglior degli eroi ; folle, e ti parve,
Poi che in beltà gli emuli tuoi vincevi,
La consorte di lui facil conquisto.
Misero ! e qual di senno opra o di braccio
Far ti poteva a quella donna accètto,
Che l’inconcusso talamo al ramingo
Marito custodia vigile, e sempre,
S’anco morto il sapea, pianto l’avrebbe,
Caste frodi tramando a cui voglioso
Era e pur tanto del suo core indegno?
A te, fuor che di balli e di furtivi
Mescolamenti, non accese mai
Nobile ardor questo femmineo petto
Ch’or non palpita più ; fuor che d’alterno
Mutar di gozzoviglie, a te più saldo
Pensier mai non picchiò qui dentro a questa
Breve fronte di marmo, a cui sì pura
Forma, certo per gioco, un dio concesse,
Bello non era il figlio mio? Ma forte
Era del pari e alle fatiche avvezzo ;
In poc’ora ei perì, ma su l’onesto
Lavoro la ferrigna Ate il percosse.
Te in ozj turpi un dio prostrò; cadesti
A par d’infruttuoso arbore, in cui
Vibra fischiando il contadin la scure :
Poco esso dura a’ colpi aspri, che vuoto,
Ancor che liscia ha la corteccia, è tutto,
E con vano fragor cade, allietando
Il provvidente agricoltor, che sgombro
Respirar vede il campo e liberati
Dall’uggia grave i sottostanti arbusti.
Tu cadesti così ; così deh possa
Giove sempre colpir chi, di benigni
Sensi sdegnoso e ad altre imprese inetto,
Nelle sostanze altrui, nelle altrui donne
L’iniqua mano insidioso avventa !