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Mario Rapisardi
Dopo la sconfitta
I.
Finchè briaca alla caterva sozza,
Che nell’obbrobrio e nel dolor l’atterra,
Porge Italia le groppe, ella che mozza
Agli apostoli il grido e i polsi inferra;
Finchè il turpe delirio in lei non langue
Di rei conquisti e di vendette oscene,
E tributo alle nostre esauste vene
Osa chiedere ancor d’oro e di sangue;
Finchè la Frode, ire affilando e spade,
Di mercate lusinghe il vulgo impregna,
E all’Abissin, cui la capanna invade,
L’infamia nostra e il nostro eccidio insegna:
Finchè, tra un baccanal d’anime guerce,
La Sconfitta e la Resa in Campidoglio;
L’Onore in ceppi, il Vituperio in soglio,
Ludibrio il Dritto, la Giustizia merce:
Lungi da questo sciagurato suolo,
Lungi dall’età rea sorga il poeta:
Liriche strofe, liberate il volo
A ciel più puro, a region più lieta.
A che turbar dei bellicosi ladri
L’animo pio con misurati pianti?
O cari petti giovanili infranti,
È troppo che su voi piangan le madri!
II.
Ove andrem noi? Sangue e miseria intorno
E fango. Oh ferrea notte
D’Europa! Oh immani lotte
Di truffatori! E ancor lontano è il giorno.
Gitta la vaticana Idra la squama
Fra’ mal guardati avelli,
E gl’incauti ribelli
Affascinando, il nostro esizio trama.
La jena di Stambùl, di terror folle,
Nel sanguinoso mare
Galleggia, ove affogare
Invan l’inglese mercator la volle.
Ecco, il deforme orso del Volga accampa
Sul provocato lido,
E con geloso strido
Porge alla rea l’insanguinata zampa.
Ma la francesca Libertà bastarda,
Che, le adipose cuoja
Date in custodia al boja,
Tutto vende ghignando e tutto infarda,
Indarno al Papa ed allo Czar gl’immondi
Quarti lambisce abjetta:
Giù nell’ampia belletta,
Ond’ora ingrassa, è forza pur che affondi.
Squassa il Leone castiglian la giuba,
E ruggendo si scaglia
Ove in armi travaglia
La invan contesa Libertà di Cuba.
All’auree vene del Trasvallo intanto
Calano in tetri giri
Gli europei vampiri,
Che di civile sapienza han vanto.
O Civiltà, se messe altra non dài
Che di sì tristi allori;
Se agli aspettanti cori
Fuor che stragi e miseria offrir non sai;
O che le armene piagge, o che la vetta
Dell’Amba orrida innostri,
Co’ tuoi bugiardi mostri,
Perfida Civiltà, sii maledetta!
III.
Oh agreste pace, candido
Regno dei buoni! Come fiamma viva
Agitata dal turbine,
Su l’età sfatta il gran Giudizio arriva.
E tu prima il benefico
Passo n’udrai, tu dal giaciglio fondo
Sorgerai prima, o triplice
Roma, cuore d’Italia, amor del mondo.
Ecco, ove un tempo il bufalo
Torvo sguazzava, e tra paduli morti
Serpean le Febbri, il florido
Lavoro avviva di Feronia gli orti.
Quanto vigor di giovani
Cori, asserviti all’Ignoranza e al Fasto,
La burbanzosa Ignavia
Gittava all’Ozio e alla Lussuria in pasto;
Quanto tesor di valide
Braccia, in miserie apriche, in odj bui,
Tingea con folli audacie
D’innocuo sangue il vituperio altrui:
Quanti all’altar cadeano
D’un bronzeo nume in sanguinose gare,
O di miseria indocili
Fuggian maledicendo il patrio mare,
Oggi a’ nuraghi inospiti.
All’ardue Sile, alle insalubri chiane
Un salutar diffondono
Fiume di redentrici opere umane:
Che, propagate in fervidi
Commerci, ignari di gelosi insulti.
Fan che redento a’ secoli
L’immenso core della Terra esulti.
Stendi l’oblio su l’umile
Mia fossa, o generosa itala prole;
Ma sul tuo capo indomito
L’alta speranza mia splenda col sole!
Africa orrenda (Marzo ’96)