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Mario Rapisardi
Espiazione
I.
Chi è, disser, costui, che solitario, altero
Sul nostro capo il verso empio saetta,
E su la gloriosa luce del nostro impero
L’ombra sua getta?
Chi è costui, che i tetri sogni sferrando a volo,
Come falchi addestrati in noi li avventa;
E di amor, di giustizia all’affamato stuolo
Parlar si attenta?
Torbido evocatore di pazze ombre, l’abisso
O non vede o non cura a cui cammina:
Con l’occhio, acre di febbre, all’orizzonte fisso,
Ecco, ei ruina!
E noi frattanto in aurea rete impigliamo il biondo
Amore e l’affoghiamo entro al bicchiere:
Noi ci tiriamo dietro inguinzagliato il mondo
Come un levriere.
Che importa, se al nostro uscio Lazzaro derelitto
Frignando invidj a’ nostri cani il pranzo?
Avrà, quand’ei non sia ad alcun Fascio ascritto,
Pur qualche avanzo.
Che ci fa, se a quest’ora al suon della mitraglia
Nel ribelle Tigrè riddi la morte?
Terran le nostre schiere, in qual che sia battaglia.
Fronte alla sorte!
Pugnate, eroici petti, cadete: ad una voce
Noi gridiam « Viva! » e alziam colmo il bicchiere:
Le vostre salme avranno la medaglia e la croce
Di cavaliere.
L’onor della bandiera val bene una tal guerra :
Chiedon vendetta i nostri morti; e poi
L’ufficio glorioso d’incivilir la terra
L’abbiamo noi!
Gli Abissini, si sa, son predoni, selvaggi,
E con loro bisogna esser maneschi:
Trucidar donne, vecchi, fanciulli; arder villaggi...
Viva Radetzki!
In ogni caso, giova a noi, spiriti fini,
Mandar la calda giovinaglia a spasso:
La guerra a chi la plètora ha d’odj cittadini
È un buon salasso.
Urla, profeta nero, i tuoi strambotti audaci
All’egre ciurme ch’aizzando vai:
Noi delibiamo intanto con labbra arse da’ baci
Reno e Tokai!
II.
Non ei però si arresta. La pensierosa faccia
Torce da lor, qual da bruttura, altrove,
Mormorando con voce ch’è fede, e par minaccia
Eppur si muove!
Diritto, nella tragica sera che preme il mondo,
Strali e sogni vibrando all’età rea,
Passa incontaminato tra ’l bulicame immondo,
Non uomo, Idea.
Volano a lui dintorno dagli spazj stellati
Corruscanti fantasmi, ignee chimere,
Fronti di lauro cinte, petti di palma ornati,
Falangi austere.
Ah! non hai tu, regina, cui Dante un trono eresse
Sovra i popoli tutti, a Dio vicino,
Tu, nel cui core eterno di tutto il mondo lesse
Vico il destino:
Tu, santa, cui Mazzini invocava in ginocchio
Nel freddo esilio; tu ch’a’ più begli anni
Schiacciavi, del Nizzardo sotto al fulmineo cocchio,
Sette tiranni;
Non hai tu, donna, or ora a turpi sgherri in braccio
Inebbriati di poter maligno,
A chi diceati: « Pensa! » gittato in volto il ghiaccio
Del tuo sogghigno?
Non hai tu, che d’oltraggio le pure anime cibi,
Negati il pane al Giusto, il culto al Vero,
Per onorar l’Inganno, per ingrassar gli Scribi
Del vitupero?
Difeso col tuo nome, del tuo pallio coverto
Chi fa dell’are tue bisca e bordello?
Chi, più che penna o spada, è a maneggiare esperto
Il grimaldello?
Profuso oro a’ bertoni d’Astrea fatta baldracca?
Procacciato a Bonturo onor divino?
Scolpito in marmi e in bronzi (oh Giusti!) la guarnacca
Di Truffaldino?
Non hai tu, barcheggiando su le calde fiumane
Del pianto, druda delle altrui vendette,
Scagliato ai derelitti, che ti chiedeano pane,
Piombo e manette?
Non hai, madre, sofferto ch’a’ tuoi sacri captivi
Fosse un raggio di sole anco vietato?
Non hai tu su la fossa dei tuoi martiri vivi
Cancaneggiato?
Ed ecco, or nell’ecclisi del tuo giudizio, alata
Furia al tuo capo la Giustizia romba;
E l’Espiazione, vermiglia aquila irata,
Sopra a te piomba!
Oh fragor d’ improvvisi sdegni e d’immani lutti,
Dal ciel, dal mar, dalle cruente arene!
Oh suon misterioso di palpitanti flutti:
Ecco, ella viene!
Sostano a’ campi avari, alle officine, intorno,
l’opere in minacciosa alta quiete;
l’austero Etna nevoso, che si arrubina al giorno,
Viene, ripete.
Dalle reggie pollute, dai trafficati altari
Sorgono al casto cielo ululi immensi;
Mandano le severe Alpi a’ bollenti mari
Fraterni assensi.
O monti, asceti assorti nello splendor del Nume,
O flutto uman cui la speranza investe,
O dei cieli e dei cuori interminabil lume,
Voi mentireste?
Africa orrenda (Genn. ’96)