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Mario Rapisardi
Per l'insurrezione della Grecia
Su queste rocce che la neve imbianca
E coronan le nubi e il mar flagella,
Dove rugge la scura ala mai stanca
De la procella;
E specchiate le cime irte ne accoglie
Il popolato Egeo, dove la bruna
Nave ottomana abbominata scioglie
L’Osmania luna;
Quando s’inalza in ciel l’ora più muta
Ed incerto l’austral Sirio fiammeggia,
Una voce per quelle aure perduta
Qual tuono echeggia.
E se spande la luna i suoi sereni,
Su quelle rupi solitarie assiso
Immenso Angiol si vede, e di baleni
Arde nel viso.
E le tenebre rompe e le secrete
Vigilate da Lui ore notturne;
E al suo grido fatal sorgono inquete
L’ombre dall’urne.
Spezza la pietra e leva il fronte al sole,
Fenice eterna: è il dì! Ti scuoti, o inulta;
Ecco un brando, ecco un’ara: Iddio lo vuole,
Sorgi, o sepulta!
Regina un dì ti salutai possente;
Su quattro mari allor libravi il volo:
Era meta l’Olimpo alla tua mente,
Al brando il polo.
Chè se indi il tempo e la tua sorte e il pondo
Di tua grandezza ogni virtù t’estinse,
E al carro trionfal, ladron del mondo
Quirin t’avvinse;
E di tenebra lunga indi t’avvolse
Dall’arabiche arene orda irrompente,
E brando e serti e nome e onor ti tolse
Ed ara e mente;
Or sorgi! E tu che al barbaro Ottomanno
Pieghi ancora la fronte, e tu che gemi
Sotto la verga del corsal Britanno
Lévati e fremi!
Pei visceri d’Europa indomito erra
Foco, che a troni e a re schiude gli avelli:
Tu non cadrai, s’è Dio nel ciel, se in terra
Son pur fratelli!
Tu non cadrai! Nè fia quel sangue vano,
Che di tua libertà l’are fe’ molli;
Onde vermiglio è di Cidonia il piano,
Di Suli i colli.
Chè se allor pesti i tuoi lauri, livore
Di potenti t’oppose argine al corso,
E se ignaro di te stranio signore
Ti strinse il morso;
Non disperare! Iddio levò il flagello
Sui nepoti d’Asburgo, e fien distrutti:
Ne l’indocile al sol paterno ostello
Torneran tutti.
Ma credi al ciel, credi al tuo braccio. È forte
Chi de le sue speranze è brando, è duce:
In tra le abbominose ombre di morte
Sarà la luce.
Men temi gli stranieri odi rompenti
Più le lusinghe! E già scoppia lontano
Grido a disingannar le illuse genti
Dal Vaticano.
Dal Vatican, che reggia una ed altare
A Italia esser dovea nei dì più belli;
Onde gli estinti da Superga al mare
Spezzàr gli avelli.
Tu leva il guardo al Pindo ed a l’Oeta,
Aquila dell’Olimpo, e ai quattro mari:
Ecco l’ombre di Marco e di Niceta,
Ecco Canari.
E già al lor grido si scatena e mugge
Della rovina il formidabil segno:
Sovra la terra è un uragan, che fugge
De l’empio il regno.
In sanguinose spire avviluppata
Rugghia attorno di lui l’ira di Dio;
Di Faraon la verga ecco è spezzata;
L’empio fuggìo.
L’empio fuggì! De la tua gloria il Sole
Splenda incontro alla nova alba latina:
Ecco un brando, ecco un’ara: Iddio lo vuole;
Sorgi e cammina!
Novembre 1862.