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Mario Rapisardi
A un segatore di marmi
Con l’ostinato filo
Del tuo pigro strumento
Il duro sasso esercitando vai,
O assiduo segatore,
Né per sole o per vento
Da la lunga penosa opra ristai,
A cui la sorte misera ti danna;
Ma l’egro petto e il dorso
Sopra la sega stridula affatichi,
E sol di quando in quando,
A l’ardua lama agevolando il corso,
Versi nel sasso con la bugia canna,
Sciolta ne l’acqua la mordente arena,
Malinconicamente mormorando
La nota cantilena.
Al monotono suono
Di tua lenta fatica,
Che la tarda del tempo opra somiglia,
Da le mie ciglia si dilegua il miele
Del dolcissimo sonno mattutino
Di rosee larve apportator fedele.
Su le tiepide piume
Snodo le membra non ben deste ancora
Guizza il notturno lume
Morente a la parete;
Già tremano le liete
Rose de l’alba a lo spiraglio incerto;
Odo il festante grido
De le rideste vie
E il rumor vago dei carri balzanti,
E gli striduli canti
De l’amorosa rondine che suole
Sotto la gronda mia tessere il nido;
A la nota bottega,
Cantando una canzone,
Il garzoncel s’avvia;
Per la frequente via
Passan belando sotto al mio balcone
Le capre mattutine,
E con assidua ressa
La picciola campana de la pieve
Chiama i fedeli a messa.
Allora io sorgo, e tersa
In schietta onda la faccia,
Schiudo i vetri custodi, e anch’io cantando
il nuovo aprile e il fresco aer saluto.
Ma se dal roseo cielo,
Ove cerco di mia vita la luce,
Pallido segatore, a te mi giro,
Di repentino gelo
Pensierosa tristezza il sen mi vince,
E ne l’intimo cor gemo e sospiro:
Quale o colpa o fortuna
A sì diverso fato obbliga e preme
Questa dolente umanità raminga,
Ch’altri scarno e cencioso
Sul duro solco si travagli e sudi,
Altri d’ozio fastoso
E d’opulenza e di splendor si cinga?
Dunque è destin, che a faticosi studi
Più vii mercè si renda?
E che tanta di noi parte migliore
D’inedia eterna e di dolor languisca,
E altri del suo soffrir gioco si prenda?
Povero segatore, a noi non lice
Investigar la sacra ombra che chiude
Tanto nume di Dio. Forse la prova
Di cotanto dolore
E de l’onesta poverezza i pianti
L’occulta stancheranno ira del cielo
Che ormai splendida e nova
Di santa civiltà stagion migliore
Ne impromettono i fati. A più sublime
Vol, non più visto altrove,
Poggia l’umano ingegno;
Da la superba cattedra discende
A popolar convegno
L’agevole Scienza, e a tutti è schiusa,
Quanta concessa è in terra,
Felicità. Su la contesa soglia
Più non mendica il provvido lavoro
Di ricche orgie i rifiuti,
Ma a se stesso è tesoro. Ecco, vegg’io
Co ’l vetusto patrizio il fabbro umile
Confondere la destra;
E Civiltà di miti usi maestra
Chiama fra tutte genti arbitro il merto.
Sorge dal fango, in nome
Di Lui, che l’onorate opre fé’ sante,
La derelitta povertade, e come
Pioggia che le morenti erbe rinnova,
Sugli adusti mortali
Uguaglianza ed Amor distendon l’ali.
Le Ricordanze