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Mario Rapisardi
A Vincenzo Bellini
Ode
Tu, se avvien che il mio canto oggi t’appelli,
Trovator di suavi itali modi,
Dammi un raggio del sole onde t’abbelli,
Un suon di tue melodi!
Sciolgo dal crin la civil quercia e il biondo
Premio d’eléi cimenti attico ulivo;
Di ciprio mirto alla mia chioma infrondo
Gentil serto votivo.
Ecco l’ara, ecco il dio. Da l’ardue sfere
Onda mi vien di numeri divini:
Garzon’bennati e giovinette intere,
Leviamo inni a Bellini!
Puri, in candide vesti, il crin vestito
Di roridi ligustri e di viole,
Convenite concordi al sacro rito,
Mescete inni e carole.
Appressatevi all’ara e voi che in fronte
Chiara avete del Genio orma divina,
Dal sen dischiuso del cenisio monte
A la scillèa marina.
Tu dagli esperj colli a le devote
Sicule piagge, al nativo Etna riedi,
Tu, cultor de le Grazie e sacerdote,
La sacra orgia presiedi.
Su la canizie tua santa di allori
Il sorriso dell’Arte ecco si avviva...
Cingi, o Pacini, i ridolenti fiori
Nati al Simeto in riva.
Ma chi mai del dolor sentì l’amara
Punta, che schiude a gentilezza il core,
Dilunghi le profane orme dall’ara
Sacra al cantor d’amore.
Su la cetera sua d’astri lucente
Il dolor raccogliea trepido il volo,
Quel dolor che ne l’alta ombra silente
Dà il canto a l’usignolo;
E del pudico amor nato gemello,
È dei petti mortali ignea catena,
Che i pigri infiamma, e del pensier rubello
L’empie baldanze affrena.
Indi i sensi celesti e le beate
Voci echeggiò l’etnea valle negletta,..
Oh ponete gli sdegni, empj, spezzate
L’archilochea saetta!
Qui nè cure mordaci, oggi, nè orrende
Gare e d’odio civil rabide erinni:
Limpidi come il sol che su noi splende
Dal cor sgorghino gl’inni.
Giacean le siracusie api dormenti
Del folto di papiri Ànapo al margo,
Allor che un suon d’italici concenti
Destolle dal letargo.
E qui trasser frettose ove un soletto
Su la cetra esprimea gli estri del core:
Era un biondo e pensoso giovinetto
Dal glauco occhio d’amore.
Lieto su quella cetra allor depose
Lo stuol de l’api armonïose il miele:
Indi al vario pensiero il suon rispose
Più dolce e più fedele.
Così l’idillio un giorno ebbe Aretusa,
Come la linfa sua placido e terso;
Così parlano ancor Sorga e Valchiusa
L’acceso italo verso.
Oh! benedetta sia l’arpa gentile
Che a cortesia le schive anime addestra,
Che piange il sol del fuggitivo aprile,
Che crede ed ammaestra!
Scendeva Orfeo da l’apollineo coro
Fra l’ombre e i mostri de la selva Idea;
Era sol con la cetra, altro tesoro
Al mondo ei non avea.
E assiso all’ombra dell’aeree piante,
Cui da ferro giammai non venne insulto
75Ai ferrei cori suadea le sante
Leggi e de’ campi il culto.
Lasciati allora i biechi antri e il dispetto
Che di sangue imbevea le glebe avare,
Corser le proli al socïal banchetto,
Statuîr nozze ed are.
Ubbidiente da l’aperto solco
L’oro sgorgò de le feconde spiche;
In commercio gentil mutò il bifolco
Onesti usi e fatiche.
Sceso dal pelio giogo al mar profondo,
Sfidò gli eolj nembi il vacuo pino;
E in civile armonìa fu stretto il mondo
Dal casto inno divino.
(1867)