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Mario Rapisardi
XXXI Marzo
PERCHÈ ad ambigua libertà redenta
La Tíade de la Senna erge la faccia,
E, immemore del suo sangue, s’avventa
Del nostro sangue in caccia;
E così di furor torbido ha il lume,
O di solita ebbrezza i sensi infermi,
Che affogar di Sedàn l’onta presume
In petti itali inermi,
Splender devono al Sol nudi gli acciari
E cader le cognate anime a mille?
A vendetta suonar da l’alpi ai mari
Le orrende itale squille?
No; grave scenda sul fraterno insulto
E perdono ed oblio: resti a’ malfidi
La gloria. Al nostro sagrificio inulto,
O civiltà, sorridi.
De le genti a’ conflitti ed a le paci,
A la gloria de’ regni e a la rovina
Vindice impera tra serpenti e faci
Nemesi adamantina;
E quando è l’ora, che il Titan dormente
Ne la polve si scuota, ed apra i lumi,
Caggiono allora al suo crollo possente
Genti, monarchi e numi.
Giorno verrà, nè sia lontan, che, dòma
L’idra che le fraterne ire ridesta,
In un patto d’amor Lutezia e Roma
Trïonferan: su questa
Ciurma, ch’or siede insidïosa al temo
Ed arma occulta a le due genti il braccio,
Giustizia piomberà qual falco, e al remo
Dannerà gli empj e al laccio;
Mentre su’ troni eversi e l’are infrante
Poseran, chete sorridendo, il guardo
Leonino le teste inclite e sante
De l’Hugo e del Nizzardo.
Ghigni fra tanto da’ sabaudi gioghi
Su le nostre fortune il Brenno invitto,
E al suo carro, se può, facile aggioghi,
I leoni d’Egitto.
O ruffianando il popolesco orgoglio
Con finte audacie e marziali aspetti,
Sorga al curule seggio il Furto, e il Broglio
Di frigio s’imberretti.
Gloria a’ trionfatori; a le infelici
Ostie pace. Un’infesta itala prole
Quest’aure ammorba, altri più rei nemici
Strisciano al nostro sole:
Fere spente d’amor, cui la vigliacca
De’ gaudenti adiposa alma carezza,
Mentre, o popolo, il tuo collo si fiacca
Sotto la lor gravezza;
Fere dal vario pel, che di mentita
Suavità mèlan l’ingegno iniquo
E il cor vile: tu primo, o pio Levita
Dal sorrisetto obliquo;
Voi, tetri mostri, gracidanti a’ vivi
L’ultimo esizio e l’infinita notte,
Voi dal rostro di ferro e d’occhi privi,
Che a branchi, a stormi, a frotte
Con perenne clamor da l’inquinate
Macerie sacre e da’ sanguigni altari,
Al mal di noi, che vi pasciam, chiamate
Mostri a voi d’alma pari.
Urlate, osate: i dì son vostri, è vostra
Questa tomba d’eroi; fuma al divino
Occhio più grata de la gloria nostra
L’offerta di Caino.
Irta vigila al ben vostro la vecchia
Volpe in giornea, ch’oro ed obbrobj insacca,
Essa che al nostro onor cauta sonnecchia,
E la discreta lacca
Porge al nerbo sonante, onde s’indraca
Ne’ vili il ferreo domator del Reno;
Ed or le dubitose alme ubbriaca
D’arguzie e di veleno;
Or con bieco pensier guida la buona
Stirpe sabauda a l’asburgense albergo,
Quando, o Silvio, de’ tuoi ferri ancor suona
L’antro de lo Spilbergo.
E intanto il crasso mercator negli atri
Scrigni il sangue del popolo usureggia,
E in auree sale, in cocchi ed in teatri
Con vasta epa troneggia;
O d’ignoranza tumido e di vento
Trulla in tribuna l’animo bugiardo,
O per compri suffragj in parlamento
Legislator linguardo
Piomba, e di libertà schivo e d’onore,
Indulgente de’ suo’ pari a’ delitti,
D’ogni antica virtù bruttando il fiore,
Rece l’alma in editti.
Vili! Ma così un dì cangi la buffa,
Che in alto or mena la progenie rea,
Via di qua, griderem, Fucci in camuffa,
Aristidi in livrea,
Via da la casa degli eroi, da’ santi
Vertici de la gloria, o bulicame
Di nani, che su’l dorso de’ giganti
Adagi il nido infame,
E pesti i capi glorïosi! Il giorno
Sacro a l’ire verrà: questo ch’or vedi
Muto, inerme, digiuno errar d’intorno
Come larva a’ tuoi piedi,
Questo, a cui con mille arti e mille ferri
Smungi ed apri le vene, ed è sol reo
Di tua grandezza, questo che tu inferri
Nel fango, è Brïareo.
E sorgerà: su la spezzata gogna
Agiterà le cento braccia immani,
E schiaccerà la tua viva carogna
Co’l martel de’ Titani;
Nè croci o stemmi onde superbo or vai,
O reggie, o tempj ti saran di schermo,
Quando tu suonerai tu suonerai
I tuoi bronzi, o Palermo!
Giustizia, 1883