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Nicola Sole
Al mare Jonio
I
Bella, o classico mare, è la celeste
Volta che t’incolora; o il suo più fosco
Antelucano azzurro entro i tuoi brevi
Seni rifletta, o le tue limpid’acque
De la sua luce declinante irrighi,
Bella, o classico mare, è la celeste
Volta che t’incolora. Ove più cupo
Sona il pianto di Scilla, ove solingo
Di Leuca il capo sovra l’onde avvalla
La tremula penombra e tu componi
Le correnti de l’Adria e le Tirrene,
Volsi la prua notturno; e a l’incessante
Palpito invitto de’ fraterni mari
In lungo amplesso quïetanti, il carme
Volò fremendo sovra l’acque!
II
Io solco,
Jonio, le tue pianure. Alta sul mondo
Dorme la notte: pel tuo curvo lido
I fochi de’ casali ardon remoti,
Come stelle lucenti ultime: spira
Il venticel più mite, e in candid’arco
Del mio breve naviglio enfia le vele.
III
Quando tonò la voce onnipossente
Che pose legge a l’acque, e sovra i mari
Aura feconda trascorse Jehòva,
Jonio, covrivi questi regni, o bello
De’ tuoi giovani flutti altri velavi
Interminati abissi? Immensa, arcana
È de’ tempi la notte. Unica luce,
E dubbia forse, che la rompa, è il grido
De le passate genti a le novelle
Genti creduto, o de’ pensanti il guardo
Vïolator de la terra profonda.
Altri, o Jonio, tu forse, altri tenevi
Ceruli regni allora. Ove infiniti
Vaneggiano i deserti, ove solinga
Ride l’Oàsi ed il Sahàra avventa
Verso un ciel senza sponde un mar di arene,
Ivi tu forse il palpito primiero,
Jonio, sentivi in grembo a le tonanti
Acque novelle; e qui, dove tu posi,
Furon campi, fiumane, alberi, ville,
Uomini, colpe, e tracotante ingegno.
Onde la provocata ira celeste
Ruppe gli argini al mare, e l’empia terra
Ne l’abisso deterse! — Oh allor tu pure,
Or sì limpido e piano, a le contese
Cime de’ monti il torbido attollevi
Flutto ruggente a le vendette! — E quando
Su la viaggiatrice arca sorrise
L’iride giovinetta il riversato
Mar seminando d’amorosa luce,
E la nivea palomba iva radendo
Le refluenti acque vittrici, e gaie
Saliano a l’aria le montagne, e Dio
Perdonava a la terra, allor tu forse
Per novo imperio agli ospiti migravi
Liti che bagni. Maraviglia al sole,
Fiorir di boschi i discoperti abissi,
E sonâr di città.
IV
Salve! Tu prima
(Se ne le antiche età non erra il carme)
Prima ponevi le capanne in queste
Rive odorate, o generosa e bella
Tirrenia prole! Vergini boschetti
Di mortelle e d’aranci eran ghirlanda
A queste onde lucenti; e mentre al sole
Le cavalle pascean per la pianura,
Tu, riposata a l’ombra, inni campestri
Meditavi, l’estiva ora ingannando.
Sovente io vidi la dïurna luce
Romper da l’acque e alluminar l’estreme
Zone del mar di timidi baleni;
De’ monti azzurri circuir le cime
Di porpora gentile; indi, fugate
Le vaporose ombre supreme, in cielo
Crescer sovrana e glorïosa, e tutta
D’un manto d’oro avviluppar la terra.
Così l’antica civiltà, per voi,
O Tirreni vaganti, in queste piaggie
I primi lampi del suo disco effuse,
Ch’indi schiarò l’Occaso; e tal successe
Il nomade Pelasgo a queste prode,
Tipo miglior de l’uomo, e qui la santa
De’ nostri padri sapïenza eterna
Pura trasferse, che fu l’ampio stame
De la superba tunica gemmata,
Onde si cinse il barbaro Occidente;
Fu vivo sol, che per mutar d’etadi
Non venne manco di splendor, ma, pari
Al Titon de le favole cadute,
Giovane sempre e poderoso, informa
De’ primi veri ogni novella idea,
Ogni trovato degli umani.
V
O Magna
Grecia, qui fosti! Questo mar fu specchio
A le tue scole cittadine, ai tuoi
Interrogati oracoli profondi,
Ai tuoi sonanti portici! Qui fosti,
Divin paese, unica gente! Ah dite,
Stelle del ciel, che de la stessa luce
Le sue notti allegraste, esser può core,
Italo cor, che di potenti affetti
Su queste onde non arda, e di quei monti
Pe’ lucidi contorni alto su l’ale
Del sovvenir non voli? Oh quante ville,
Quante città per quel tacito lido!
Quanta gagliarda gioventù, qual forte
Popol vi stette, splendido, gigante,
Immaginoso! Eran per lui le nubi
Popolate di eterni: alberi, laghi,
Fiumi, boschi, dirupi eran di arcane
Intelligenze alberghi. Armonïose
Nereïdi quest’acque ivan fendendo;
Fuor da l’intime selve uscian le ninfe
Al niveo lume, onde ridea Diana.
Fatidiche cortine ondavan lente
Sul limitar de’ delubri; perenni
Ardean le fiamme sul riposto altare.
Ridea l’Olimpo su quest’onde aperto,
O radiante mare, e tu parevi
Anfiteatro azzurro, a cui spalliera
Eran verdi colline, ardue montagne
Greche, Japige, Sicule, Lucane,
E di Morea le balze; anfiteatro,
Ove fragranti de l’elisia rosa
Scendean gli eterni a visitar la terra.
Lucenti cocchi ivan per l’aria, ignote
Melodie da quest’onde uscian, rapite
Dai Zefiri fuggiaschi e da’ Favoni.
Compaginata di più forti nervi,
Men dal tedio evirata, emunta meno
Da ridolenti ozi superbi, un’alta
Stirpe tenea queste montagne e queste
Verdeggianti pianure. Irrequïeti
Scendeano i Geni de la patria intorno
Agl’inaccessi lari, ai vigilati
Sacri pomerî. De la guerra al grido
La federata gioventù pugnava
Glorïose battaglie. Odi remote
Sonar le trombe: sconfinato piano
D’alta messe coperto è il circo orrendo
De’ vindici guerrieri: ecco da lunge
Di sfrenati cavalli onda crescente
Venir col suon de la tempesta incontro
Ad un’altra onda di cavalli; avanti!
Avanti, o prodi! De’ poeti il grido
Le pianure discorre e l’aria e l’onda:
Freme il vento ne’ grani, e in flutti d’oro
Batte la spica ai sanguinosi fianchi
Degli anelanti alipedi: le folte
Messi vastate un mar di sangue allaga!
Nel tripudio de l’ira ecco caduti
Mille gagliardi giovinetti! Anch’essi
I fumanti cavalli al cor feriti,
Spirando esultan resupini al sole!
Bello è morir sul campo; avanti, avanti!
Sul niveo carro la Vittoria appressa
Le festanti città; scende la morte
Coi mille estinti a l’Erebo. Beati,
Più beati i caduti! Eterna ad essi
La cittadina lode, il pianto e i fiori
De le discinte vergini deserte,
E la luce del canto! O voi del Brada
Floride sponde! Sinuose rive
De l’Aciri e del Sinno, e sacri pioppi!
O famosa Cotrone! O Tarentino
Golfo, speranza, asilo ultimo, e tomba
Ai tornati da l’Ida eterni Achei!
O mura di Petilia! O Locri! O verdi
Campi del Nieto! Io vi saluto, e piango!
Noverator di divinate zolle
Su voi non langue il pensier mio, ma caldo
Di carità profonda in un concento
Di tanta età le ricordanze avvolge!
VI
Stretta di muri e di colonne il cinto,
Di cupole e di torri incoronata,
La Jonica Cibele il pié tuffava
Giù ne l’acque del Bradano; l’antica
Metaponto famosa, alta Metàbo.
Per dovizie potente e per costante
Pietade avita, prezïose lampe
Ed aurei busti ai deprecati offerse
Templi di Delfo: onde feconda e bella
Venia la messe ne’ suoi campi e il pingue
Provvido olivo e la purpurea vite.
A la parete del suo tempio appese
Splendean l’ascia e la pialla, onde d’Epeo
Si armò la man quando commesse i fianchi
Al miro inganno espugnator di Troia.
Col Sinno a ritta e l’Aciri a mancina
Sovra un facile colle alta Eraclea
Incontro al raggio orïental posava.
Ne la memoria de l’età lontane
Città famose; venerandi altari,
Onde la fiamma del saver Pelasgo,
Pari al foco di Vesta, arse, rompendo
De l’Occaso le folte ombre ritrose.
VII
Or la spica e il lentisco occupa i seggi
Di quelle auree città: silenzïoso
Volge il Bradano al mar l’onda romita.
Spesso il Lucano agricoltor, spezzando
Quei putridi novali, in elmi aperti
E in rotti brandi coll’aratro offende;
E spesso il solco riconduce al sole
Lapidi eterne, ove la man degli avi
Pose leggi immortali. Ove Eraclea
Stette, ombreggian le selve; e il cinghiai scava
Fra le macerie e i lividi pantani
Discontinue colonne. Entro quei boschi
Sonò lunghi anni de’ romiti il salmo;
Ed or biancheggia infra le folte macchie
Turrito ostello ai circoli rurali
E ai prandi amico onde la caccia è lieta.
Talor, quando la notte alta più vola,215
Per queste onde deserte ascolti il grido
Del barcaiuol che trafficando in mare
Da Taranto a Cotrone apre le vele.
Ed or che passo e canto una indistinta
Da l’acque esala melodia soave,
E aleggia intorno al mio naviglio. Ah forse
Tu sei, Calipso solitaria, errante
Su questi flutti, a te sì cari? O questa
Forse è la ricorrente eco del canto,
Cui da l’aerea rupe ultimo sciolse
Saffo infelice, allor che volta ai cieli,
E date a l’aure le riverse chiome
In grembo a le pietose acque disparve?
O tu sei che rivieni ai molli climi
Di Zacinto materna, ombra del fiero
Foscolo mio? Tua lunga ansia, tuo lungo
Disperato sospir questi sereni
Spazi di cielo erano un dì fra i nembi
D’Albïone! Ti allegra, anima ardente!
Sovra i colli di Zante arde peranche
L’ira de’ carmi, e di tua mente un raggio
Di Sòlomos nel petto inni profondi
Spira. Chi mai, chi non saria poeta
Su queste piaggie, ove abitò colui,
Che l’armonia de’ firmamenti intese?
VIII
Qui Pitagora eterno, allor che l’empio
Pugnal Crotonïate incontro al santo
Cor la sua nova carità gli mosse,
Qui ramingò lunghi anni, e qui, sublime
Per divino ardimento, i templi aperse
De’ rinnovati studi. Un infinito
Popol di alunni lo seguia ne l’ampie
Scole di Metaponto; indomite alme,
A l’esiglio, a la fame, a le catene,
A la morte parate, anzi che vili
Disdir la fede de la sua parola,
I suoi dommi tradir. Venian le donne,
Le gentili obblïando opre e le danze,
Severamente a meditar sui marmi
Del suo Liceo. Sofo immortal! Qual mente
Corse dietro al tuo volo, e sì dappresso
Vide ne’ cieli? Qual fu mai, de’ nati
A le pugne del dubbio e del mistero,
Qual fu mai che felice un tanto sguardo
Gittar potesse ne l’età ventura?
Ultimo raggio d’una età caduta,
Raggio primier d’una sorgente etade,
Di qui, sovrano, a federarle alzavi
La tua profonda universal parola.
Questo mare, quei monti, e questi cieli
Erano il tempio e la fatal cortina,
Onde parlavi ad erudir le genti;
E mille età concelebrâr devote
Questi cieli, quei monti e questo mare.
Tu riflettevi l’universo, e nulla
Stranier ti parve, o fondator del miro
Italogreco socïal Liceo!
Tu guerrier, tu potente unico sofo,
Tu generoso cittadin, tu voce
Conciliatrice di due mondi, ardente
Martire del pensiero e de l’amore,
Tu presentivi, meditando, l’alta
Necessità d’una parola eterna
Rivelata ai mortali. Astro sublime
Del ciel pagano! Di solinga luce
Per mille età rifolgorasti il mondo;
Fin che temprato nel gran Sol di Giuda
Su l’orizzonte cristïan salivi
Come gigante a correre la via!
Nel tuo splendor santificato, oh quanto,
Quale altissimo volo aprìr sovrani
L’Angiol di Bova e l’Angiolo d’Aquino!
IX
Sparso le nivee chiome a l’aura errante,
Negli ampi seni del suo pallio avvolto,
Per queste prode solingo vagava,
Converso a lo stellato etere: ed era
Una lira il creato, un infinito
Ocean di splendori e d’armonia.
Misterïoso angiol rimaso in terra,
D’un idioma a consolar gli umani,
La Musica dappria gemea ne l’onde,
Ne le boscaglie sospiranti al vento,
O nel gorgheggio de’ pennuti. Spesso,
O da l’amore o dal dolor percosso,
Armonïosi e disperati gridi
Il mortale traea; soventi ancora
Destò per caso ne le canne argute
Modulati sospir, gemiti e suoni
E meditovvi; e di voluttuosi
Pur dubbi ritmi ingentili cogli anni
Quanto il caso creò. Ma sempre arcano,
Incomprensibil sempre angiol canoro
La Musica spandeva intorno a l’uomo
Inebbrïante rapimento. Ei primo,
Pitagora, al sorriso aureo degli astri,
Santi commerci instaurò col vago
Angiol misterïoso; il vel gli tolse,
E sì, riflesso in numeri soavi,
Il diè nudo al mortai. De l’ardimento
Si piacque il Divo, e sua perenne elesse
Melodïosa reggia Italia intera.
E a lui, che il vinse, le sorgenti aperse
D’un’armonia più vasta, onde ordinati
Van tanti mondi in una danza: i cieli
Di soli e soli scintillàr sul capo
De l’estatico sofo, ed ei, rapito
Arcanamente pe’ celesti azzurri,
La copïosa melodia bevea
Che in onde eterne si riversa e spande
Fra le correnti de l’eterea luce:
E in quelle notti divinò le vie,
Che, dopo il giro di si lunga etade,
Tener dovea Copernico!.... Ah fin quando,
Fin quando il sole irraggerà quest’acque
Del suo riso vital, fin che l’aprile
Rifiorirà queste campagne, e un cuore
A questa luce batterà, quest’una
Itala sponda splenderà su tutte
Conservatrice e creatrice eterna
De l’armonia, de l’arti e del pensiero!
Senno è questo di Dio; senno di Dio,
Che su quei campi seminò da l’alto
Squadre, seste, compassi, arpe, colori,
Onde la vita palpitò ne’ marmi
Di Prassitele al cenno, onde la vita,
Di Zeusi al tocco, come desta emerse
Fuor da le radianti inclite tele.
X
Tutto, ah tutto vi arrise, Italogreci
Figli de l’arte! Di beltà divina
La Sibarita vergine splendea:
Robuste forme v’offeria la terra
Ove lottò Milone, ove del Sagra
Pugnâr sui campi vigorosi atleti:
E lunghi soli, e profumati climi,
E nitore di cieli, e monti, e mari,
E diffuse pianure.... oh ben l’albergo
Degli artisti fu questo, e ben provvide
Quando di Geni il popolò l’Eterno.
Qui fra’ lucenti altari e su le svelte
Salïenti colonne un portentoso
Ordin correa di effigïati marmi.
Ricche di vita e di memorie, sacri
Monumenti de l’arte e del pensiero,
Mille dorate tavole pendeano
Per le Joniche sale. Ah, l’arti, dive
Ricreatrici del civil costume,
Non lascivia d’ingegno, erano allora!
Del patrio amor sacerdotessa ardente
La poesia di Nosside cantava
Ai combattenti giovinetti. I numi,
0 le memorie de’ vetusti Eroi
Del rapsodo a la musa eran subbietto,
E a l’armonia de’ marmi e de’ colori.
Or chi ti svelse dal fulgido stallo,
Terribile Tonante? Or chi ti ruppe
La formidata clava, Ercol pensoso,
Che su la combattuta idra spirante
Con leonina maestà sedevi?
Ove il tuo cinto, i tuoi colombi, e il tuo
Di cangiante conchiglia etereo cocchio,
Diva madre del riso e degli amori?
E tu, più bianca de l’intatta neve
Che de l’Olimpo in cima ultima cada,
Giovinetta celeste, Ebe divina,
Ove sei? Su quali aure erran tue bionde
Trecce diffuse? Come te, raggiante
Di profumata giovinezza eterna,
Per questi lidi ricorrea serena
La fantasia de l’arte Italogreca.
Pura come la nova alba del mondo
Fuor da quest’acque emerse in sua gentile
Semplicità. Deh, perchè mai nel cielo
Spaventata risalse? Anche il dolore,
Anche il dolore ella vestia d’un vago
Fulgidissimo velo: e non vedevi
In quei marmi sublimi un disperato
E di membra scompiglio e di sembianze;
Ma un tal pensoso reclinar di fronti,
E una grazia di teste, ed un soave
Languor di sguardi, che svelar parea
Le occulte gioie d’un dolor virile.
Deh perchè mai, deh perchè mai nel cielo,
E in eterno, risalse? Ah perchè mai
De’ suoi portenti le reliquie estreme
Con la gelida man disperse il Tempo?
XI
Chi può dir mai quanti tesauri accogli
Sotto quest’acque, o mar? S’anco potessi
Le tue glauche voragini profonde
D’un cenno aprir novellamente al sole,
Qui troverei le tavole sepolte,
Ove Caronda suggellò col sangue
Le sue leggi tremende, ed i civili
Codici intemerati, onde d’Archita
La carità parlava e la virtute.
E voi, forti Lucani, a cui natura
Maschio petto concesse e cor gentile,
Voi che per lungo tralignar di etadi
Non ismetteste l’ospital sorriso
E la virtù de’ vostri padri, voi
Qui, superbendo, i dissepolti avanzi
De le vostre città contemplereste:
De le vostre città, che la inquïeta
Ala del tempo, ribellando i fiumi,
Tutte sovverse e trasportò nel mare.
Sotto quest’acque trovereste gli elmi
De’ vostri antichi, e le corazze, e l’aspre
Targhe di rame e i sandali guerrieri.
XII
Sepolcro eterno, o mia Lucania, è questo
Ampio mar, che veleggio, a le tue prische
Marittime città. Come sei bella,
Terra de’ forti, or che distende il cielo
Un manto azzurro su le tue montagne,
E nel suo riso la recente luna
I tuoi boschi inargenta! A me diletta
Ride ogni itala zolla: eppur le tue
Aure bebbi vagendo, e nel tuo seno
Dormono i padri miei. Tutto a te diede
Clemente il cielo; le montagne e i mari,
I vulcani e le nevi, il fosco abete
E l’aureo pomo orïental, franati
Brulli dirupi ed ondulati piani
Ricchi d’alberi e d’acque e di verzura,
E pampinosi poggi, e lauri, e tutto!
Ed i tuoi figli, rispondenti al suolo,
Ne la battaglia eroi, soavi al canto,
Ed atti al grave meditar profondo.
Indi il Lucano Ocello, e la secura
Fantasia di colui, che d’aurei strali,
Adulando feria gli omeri olenti
De la sua Roma tralignata, e tutti
Del Bello i dommi in un concento accolse,
Ed incarnò ne l’opre; e, a le supreme
Regïoni del Genio aprendo il volo,
Mostrò che sola per quegl’ignei giri
Di Pindaro più l’ala ornai non era.
Or l’angiol del passato erra solingo
Fra le tue querce, e parla ai nembi: siede
Sovra le ripe de’ tuoi fiumi, e muto
Novera l’onde mormoranti al mare.
Or come aquila offesa il vol raccoglie
Sul Vulture fatale; e mentre il vento
Le negre effuse chiome agita intorno
A la fronte severa, i monti e l’acque
Ei riguarda pensoso; indi, librato
Su le penne sonanti, a larghe ruote
D’Agri esplora e di Sinno i piani e i colli,
E con voce di tuono i forti evoca,
Che perîr su quei campi.
XIII
Armi e cavalli
E carri e picche e fere aquile di oro
Colà recava la virtù latina.
E allor che in mezzo ai sanguinosi brandi
Terribilmente soverchiâr le schiene
D’improvvisi elefanti, onde paura
Torse in fuga i Romani innanzi a Pirro,
Quell’ampie chiane di cotanti uccisi
Morte covrì, che il vincitor fremendo
A la vittoria maledisse. I fiumi
Menar sangue. A la notte, in mezzo al campo,
Del Molosso lo spettro alto vagava
Chiuso in armi corrusche; e, sogghignando
Su tanto fior di gagliardia mietuto,
Il proprio fato ricordò, quand’egli
Fra le correnti del fulvo Acheronte,
Imprecando a quel dì ch’ei piantar volle
In paese non suo l’asta guerriera,
Sotto al brando Lucan cadea trafitto,
E giù da le cruente acque rapito
Appo le porte d’Eraclea festante
Lutulento cadavere percosse.
Ed, ahi, que’ campi depredò crudele
Il clamoroso Saraceno, ed irte
Minacciose castella in quella vaga
Classica sponda fabbricò lo Svevo,
Ed il Normanno dissetò nel Brada
I suoi negri cavalli. Indi la fame,
I tremuoti, le pesti, il tempo in muta
Deserta landa converser quell’alma
Popolosa contrada, unica al mondo!
XIV
Ahi! Ben per lunga obblivïon la terra
Isterilisce! e non un arbor vedi
Che d’ombra amica le pianure allegri,
Ove tu, Metaponto, un dì sedevi
De le tue ville suburbane al rezzo.
Despota il sole e inesorato incende
Quelle mute campagne, allor che infoca
Le fulve giubbe del Leon: non odi
Aura che spiri fra le secche ariste,
O gli spazî del mar, che fuman lenti,
Colla punta de l’ale agiti. Immoto
Pestifero, affannoso aer si addensa
Per questo cielo solitario; i fiumi
Spiran la morte del villan, che, adusto
E resoluto ne le membra, indarno
I venticelli de l’april, le fresche
Rugiade del mattin, morendo, invoca!
Eppur quei campi torneran serena
Feconda sede di città fiorenti
Popolose e felici. Entro quei campi
Novellamente spunteran selvette
Di cederni e d’ulivi; entro le verdi
Ombre novelle il rossignuol le care
Sue melodie ripeterà. Le melme
Non veleran le tue correnti, o sacro
Bradano antico; ma deterso e puro
Per assiduo lavoro, in grembo al mare,
Ville e campagne fecondando, andrai!
Salve, tornante a queste piaggie, o diva
Potente aura d’amor! Dove tu spiri,
Anche i deserti allieti! Al tuo susurro
Canta il villan su la feconda zolla,
Carole intreccian le fanciulle, al cielo
Sorgon le torri e le città, la terra
Di fior s’ingemma e di navigli il mare!
XV
Senza vergogna la ventura prole
E senza pianto guarderà le tue
Sponde, o Jonio sublime! A questi lochi
Trarrà sovente ad ispirarsi. E voi,
Adriache antenne, e voi, Tirrene, in festa
Approderete fra quest’acque, e fide
Concordi voci da la ricca sponda
Vi accoglieran! Le grandi alme sublimi
Di Colombo e di Gioia alte pe’ mari
V’ enfieranno le vele, e a novi liti
Vi guideranno, o gloriose navi,
Messaggere d’un mondo!....
XVI
Or salve, o sole,
Su queste vote abbandonate rive!
Tu vi reddivi in altra età posando
Sovra mille città l’aureo tuo cocchio,
Stanco de’ climi boreali, ond’oggi
Ne vien l’insulto de’ superbi, ed ove
Inorridito illuminavi, o sole,
Per impervie foreste umane belve,
Ed empi riti e scellerati altari!
Aprile 1847.