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Nicola Sole
La storia di una perla
Chiedevi, Emilia, onde vien mai che tanti
Son poeti ed artisti in ogni età,
E sol pochi fra lor s’alzan giganti,
E il resto al mare de l’oblio sen va?
Onde vien mai che d’una lunga schiera
Aspirante a la gloria e a l’avvenir,
Un solo approda a l’anelata sfera,
E van gli altri fra l’ombre a impallidir?
Amabile fanciulla! Al tuo disio
Una perla risponda oggi per me:
È nota storia in Oriente: ed io,
Poi che tu m’odi, vo ridirla a te.
Fra miriadi di gocciole cadenti
Da le azzurre de l’Alba urne sul mar,
Più lenta una venia, che le frementi
Acque de l’Ocean parea sdegnar.
Era limpida e mesta al par di quella,
Che trema ne’ languenti occhi d’Amor:
E, su l’aure indugiando, in sua favella
Misterïosa apria nobil dolor.
— «Perchè, se nacqui su le nubi, e vissi
In campi di amaranto e di zaffir,
Perchè dovrei fra quei profondi abissi
Agitarmi un istante e disparir?
lo de la notte scintillai sul manto,
De’ sogni alati io mi cullai sul vol.
L’allodoletta mi svegliò col canto,
M’invocò da le valli il rossignuol.
Io, figlia de le stelle, peregrina
Gemma dell’ora che precorre al dì,
Sento in me la nativa aura divina,
E che morirmi non dovrei così!
Oh, chi mi torna in alto! Oh, chi raccoglie
Quest’esule celeste in suo cammin!
Chi mi recinge di più ricche spoglie,
Ch’io mi sento miglior del mio destin!
Non mi si lasci disparir con tante
Infelici sorelle in grembo al mar!...
Io di perenne gioventù raggiante
Sul capo d’un monarca amo posar!» —
Fra la dolente ambizïosa e il mare
Passava un Genio innamorato allor,
Che seguendo su l’acque iva le care
Pudiche Fantasie del primo albor.
Di fianco fra gli obliqui archi de l’ale
Venìa radendo l’etere sottil,
E d’un braccio nel vol si fea guanciale
Con fantastico vezzo ed infantil.
Eran le chiome refluenti e bionde,
L’ale di rosa, e d’alabastro il sen;
Ed il suo vol si riflettea de l’onde
Nel ceruleo purissimo seren.
Come il vide la gocciola dolente,
Novo di speme vagheggiò pensier,
E sul capo di lui soavemente,
Soavemente si lasciò cader.
E, fattosi caston de la più bella
Ciocca che fosse in que’ capelli d’or,
Reiterò più forte in sua favella
Quegli accenti di speme e di dolor.
Ne sorrise l’alato, e la diffusa
Chioma su le vaganti aure agitò:
La goccioletta, dai capelli esclusa,
Sulla punta d’un’ala indi passò.
E li più mesta, e nel dolor più bella,
La sua fugace rimpiangea beltà;
E sì pianse, e sì disse in sua favella,
Che il Genio alfine ebbe di lei pietà.
— «No, povera gentil, tu non andrai
Negli abissi del mare a disparir!
Se in fondo a quei turchini antri cadrai,
Tu glorïosa ne dovrai redir!
«Confida e scendi!» — E confidò la figlia
De la rugiada, e non morì nel mar;
Chè nel sen la raccolse una conchiglia
Surta le mattutine aure a spirar.
In quell’ospite guscio ella raccolta,
Illesa per le glauche onde calò,
Ove per sempre ita saria sepolta,
Se non era il divin che la francò.
Quanti dì fra gli spechi oceanini,
Quante notti rimase ad aspettar!
Sul capo si sentia foche e delfini,
E cupamente l’Ocean tuonar.
Nè disperò, ma confidente e lieta
Fantasticava del promesso onor:
Ed interfusa di virtù segreta
Di sè medesma si sentia maggior.
Da l’onde alfine la conchiglia emerse
Ad aspirar le prime aure d’un dì;
Fra le spume del lido indi si aperse,
Ed una perla dal suo grembo uscì.
La goccioletta era conversa in perla!
Sì potente d’un Genio è la pietà!
Che miracol di luce era a vederla!
Di che ridea celestïal beltà!
Tai nitidi baleni ella mettea
Pel crepuscol soave antelucan,
Che una stella caduta esser parea
Sul deserto confin dell’Ocean.
Un giovinetto schiavo, che rediva
Da remoti paesi al suo signor,
La mirò scintillante in sulla riva,
E tremò di contento e di stupor.
Se la celò gelosamente in petto;
L’avria recata al suo signor giurò.
Corse valli e montagne il giovinetto,
E mai dal correr suo, mai non cessò!...
Travalicò fuggendo erte e burroni,
Trovò boschi e deserti, e li varcò:
Incontrò sulla via pardi e leoni,
E mai dal correr suo, mai non cessò!
Così, molle, anelante e senza lena
Al serraglio salia del suo signor:
Ma sui tappeti si fu curvo appena,
Che da l’affanno se gli ruppe il cor.
E mentre muto impallidia, cadendo
Riverso al piè del suo Pascià, mostrò,
Languidamente le sue vesti aprendo,
La perla che la vita ahi gli costò!
Tacque assorto il Pascià, nel suo dolore,
Alma sì fida invidiando al ciel:
Poi della perla nel real fulgore
La sciagura obbliò del suo fedel.
E corse anch’ egli un infinito piano,
Fino al sangue spronando il suo corsier;
E dopo lunga via venne al Sultano,
Donator della perla e messaggier.
Benigno arrise il coronato, e stette
Quel prodigio di luce ad ammirar,
Ei possessor di quante gemme elette
Radïasser più vaghe in Istakar!
La man sul capo del Pascià distese,
E d’onori insperati il rimertò:
L’offerta perla raccettò cortese,
Che sul turbante imperïal brillò!
Traean le genti di tribù lontane
Quel prodigio di luce ad adorar:
Le Odalische, gli Emiri e le Sultane
Quella perla divina invidïar!
De’ profumati Arèmi anche le schiave
Le sciogliean fra le danze inno augural;
Dicean con nova melodia soave
De la perla il candore ed il natal;
Mentr’ella assisa del Sultan sul crine
Per l’Oriente diffondea chiaror;
E le oscure sorelle e peregrine
Pietosamente rimpiangea talor.
Oh quante, oh quante ne perir fra l’acque,
Oh quante ancora ne dovran perir,
Perchè nel Genio, che di lei si piacque,
Nïun conforto di pietà sortir!...
Ed ella ardita goccioletta errante,
Perchè nel Genio ritrovò pietà,
Salse l’altero imperial turbante,
Ove per sempre scintillar dovrà!
Settembre 1855.