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Paolina Secco Suardo
Lesbia Cidonia a Palide Lidio
D’alto incendio di guerra arde gran parte
D’Europa, e intorno a lei scorre fremente
Colla orribil quadriga il fiero Marte;
L’Istro e la Neva il sanno, il sa la gente
Che la Vistola beve, e sì vicine
Del crudo Nume le minacce or sente,
Che a lei si avventa, qual per nevi alpine
Torrente altier che giù tra balzi scende,
E mugghiando terror sparge e ruine.
E d’intorno alla Senna oh quai più orrende
Desta empie faci la discordia, oh quale
Onda immensa di fumo al ciel ne ascende!
Cresce il rio foco, incontro a cui non vale
Di leggi schermo, e va di tetto in tetto
Sin che la Reggia furibondo assale.
Oh Reggia, oh mura di piacer ricetto,
Di gloria un dì, come di lutto or siete
E di spavento ahi lagrimoso obbietto!
Ma dove, o carmi miei, che amar dovete
D’umili canne il suon, dove sì audace,
Per sentiero non vostro, il voi stendete?
Ah che in queste ov’io seggio, e dove tace
Ogni strepito d’armi, apriche rive
Miti accenti sol chiede amica pace;
E in dolce ozio tranquillo imbelli e schive
Sempre aborrirò il marzial furore,
Di pace amanti, le Castalie Dive.
Poiché d’ira fremendo e di dolore
Coll’Egizia Regina il Nil raccolse
Nel ceruleo suo sen le frante prore,
E poiché Augusto vincitor si sciolse
Dall’aspro usbergo, e il non più dubbio Impero
Con soavi a bear leggi si volse,
Né più Bellona il sanguinoso e fiero
Suo flagello agitò, né più le genti
Impallidìr di trombe al suon guerriero,
Delle Muse all’invito impazienti
Corsero i vati al Tebro, e non pria uditi
Gl’insegnaro a ridir febei concenti.
Maro gli affanni allora, gl’infiniti
Cantò dal teucro Eroe varcati orrori,
Seguendo il fato, i vènti, i lazj liti.
Narrò Tibullo i suoi teneri ardori,
Dolci note accordando a flebil cetra,
Che amor di propria man spargea di fiori:
E mentre ei Delia e la vezzosa all’etra
Nemesi alzava, i forti inni sciogliea
Il Venosin dalla dircea faretra,
Ond’or bei nomi al tardo oblìo togliea,
Ed or di rose intatte e mirtee fronde
Serti a Glicera e a Lalage tessea.
Chiare in quegl’inni di Blandusia l’onde
Splendono ancor dopo tant’anni, ancora
Il Lucretile amene ombre diffonde.
Oh come a tanti eletti cigni allora
Eco fean lieta i colli e le beate
Rive cui lambe il biondo Tebro e infiora!
Né lungo a quelle rive avventurate
Or men vivace la sua fiamma spira
De’ carmi il Genio a cent’alme bennate.
Roma, superba Roma, abbatter l’ira
Te non poteo del tempo, ancor nudrice
Te dell’arti d’Apollo il mondo ammira.
Vedi qual figlio oggi additar ti lice,
Di Mecenate a un tempo e degli ascrei
Cultor più esperti emulator felice.
Palide egli è. Con piena man gli Dei
Ricchezze in lui versaro e onori e quanti
Pregi ornar ponno un’alma eccelsi e bei.
Chi di cetre le fila auree sonanti
Più dotto a ricercar, chi più gradite
Rime elette a temprar fia che si vanti?
Voi che sovente la sua voce udite,
Campagne amene, e voi, d’Arcadia al Dio
Diletto albergo, ombrose selve, il dite.
Ed oh potessi, o selve, un giorno anch’io
A lui dappresso offrirgli in seno a voi
Di grat’animo in segno il canto mio!
Egli il mio nome co’ begl’inni suoi
Volle fregiar, e a eternità il commise,
Che i nomi ha in guardia de’ più chiari eroi;
E sin dai sette colli amico arrise
Agl’incolti miei carmi, e là talvolta
Intorno intorno a verdi allòr gl’incise.
E quando il fato estremo avrammi tolta
La dolce aura di vita, e fia da questo
Infermo vel l’ignuda alma disciolta,
Né più forse sarà chi sul funesto
Sasso ove l’ossa mie chiuse staranno
Un guardo sol volga pietoso e mesto,
E immemori di me forse ahi! saranno,
Que’ che amici sperai, pur sempre chiara
Vita i miei versi gloriosi avranno,
Poiché, Palide, a te Lesbia fu cara.