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Pietro Thouar
L’acciarino perduto
Cesare Valenti, di semplice garzone di bottega; a forza di lavoro e d’industria, nella sua vecchiaia era diventato principale di un grosso traffico. Pochi anni sono comprò una villetta con un podere, e venuto l’ottobre, vi si recò a villeggiare con lieta comitiva di parenti e di amici. Quella villa, pensava, dover essere il ricovero dei suoi ultimi anni, il desiderato riposo delle sue fatiche.
Il secondo giorno della prima villeggiatura ebbe bisogno di tornare in città a motivo dei suoi affari; e perchè voleva tenerne proposito nella quiete della campagna, così aveva divisato condur seco al ritorno il procuratore. Ma il procuratore non era ancora sbrigato delle sue faccende, e gli convenne ripartire senza di lui.
In distanza di cinque o sei miglia dalla città aveva da fare un pezzo di strada solitaria e stretta fra due larghi fossi; il sole era tramontato, il cielo coperto da molti nuvoli, e la pioggia pareva in terra; sicchè egli per non aver da contrastare col buio della sera e con l’acqua, frustò più del solito il suo cavallo. In uno dei punti più stretti di quella strada raggiunse un giovinetto che pareva di condizione civile benchè fosse vestito poveramente; e non potè subito rattenere il cavallo imbizzarrito dalle frustate.
Roberto (era il nome del giovinetto) senza impaurirsi si lanciò nel fosso come un baleno, e risalito subito con sveltezza quantunque avesse una mano impicciata da un fagottino, seguitò in silenzio la sua strada. Quel pericolo gli aveva risvegliato un improvviso risentimento contro il malaccorto guidatore; ma Roberto era d’animo generoso; e trovate subito da sè stesso le ragioni per iscolparlo, gli perdonò. Indi, nel guardar dietro al calesse, gli parve che una ruota fosse per uscire dal cannello della sala; ed allora postosi a correre quanto più poteva, gridò: La ruota esce, la ruota esce! Il guidatore sulle prime o non intese o non volle badarvi; ma Roberto urlava tanto forte, che alla fine si guardò accanto, vide la ruota che ondulava, rattenne il cavallo, balzò dal calesse, e conobbe che se il cavallo avesse fatto un’altro passo gli sarebbe toccato a trabaltare nel fosso con grave rischio della sua vita... L’acciarino legato male era saltato fuori.
Intanto Roberto lo raggiunse, e mentre il Valenti lo ringraziava d’avergli salvato la vita, gli si offerse per istare davanti al cavallo e per dargli tempo di assicurare provvisoriamente la ruota al suo posto: «Qui vicino, aggiungeva intanto il fanciullo, c’è la mia casa, e può darsi che si trovi un altro acciarino o almeno un chiodo che regga più dello stecco che ora ci avete messo.» Dopo che il Valenti ebbe assicurato la ruota tanto da condurre a mano il calesse fino alla casa, tornò a ringraziare affettuosamente il fanciullo: «E poi, vedete che combinazione, diceva egli cammin facendo, per colpa di questo cavallo troppo ardente e della poca pratica che ho della strada, non sono stato in tempo a rattenerlo o a tirarlo da parte; e se voi non avevate il coraggio di lanciarvi nel fosso, io vi poteva aver fatto del male; ora voi stesso mi liberate da tanto rischio! Ah! io non potrò mai fare quanto basti per dimostrarvi la mia riconoscenza. Ma Roberto con ingenuità rispondeva: «E cosa volete dire con questo? Io so che non avevate intenzione di farmi male, e non vi penso più. Ora poi non ho fatto altro che il mio dovere. Ciascheduno che vede un uomo in pericolo è obbligato, se può, ad avvertirlo e ad aiutarlo. Qui non c’è da ringraziare che il caso. Chiunque altro avrebbe potuto fare quel che ho fatto io.» Il Valenti non potè rattenersi dal prendergli una mano, e dallo sfringerla con effusione di tenerezza. Intanto vide che nell’altra aveva una boccetta ed un foglio. «Scusate, disse allora, se entro nei fatti vostri; ma il trovarvi sulla via così tardi e con cotesta roba in mano mi addolora, perchè dubito che abbiate in casa qualche malato.» — «Pur troppo! rispose Roberto sospirando, pur troppo; è un calmante per mia madre che mi aspetta forse con impazienza. Anzi, scuserete se ora vi lascio per correr da lei. La casa che vi ho detto è la prima che incontrerete a destra; io la scorgo già tra quelli alberi. Preverrò il contadino perchè vi dia quel che v’occorre. Fate buon viaggio... felice notte.» E in ciò dire, quasi senza dargli tempo di rispondere, lo lasciò, e si diresse a gambe alla casa del contadino, dove abitava anch’egli insieme con sua madre.
Il Valenti era un uomo d’indole piuttosto ruvida, avvezzo ad aver che fare ed a contrastare con molta gente, ed ingolfato sempre negli affari. Non aveva famiglia; e qualche volta coloro che, per attendere alle molte faccende e per tener dietro alle imprese e ai guadagni non si curano di formarsela, sogliono parere indifferenti ai più teneri affetti. Si direbbe anzi che fossero uomini diversi dagli altri, uomini fatti solamente per negoziare; e taluni di essi reputano debolezza l’aprire il cuore alle affezioni domestiche. Ma egli restò commosso dalle ingenue attrattive e dal generoso contegno di Roberto; e forse per la prima volta accolse nell’animo un sentimento molto più umano di tutti quelli che lo avevano fin allora occupato. «Se io fossi sicuro di avere un figliuolo così, pensava egli, non avrei repugnanza a pigliar moglie e diventar padre di famiglia.»
Intanto arrivò alla casa, e trovò sull’uscio un contadino che lo aspettava. Questi era già consapevole del suo bisogno, ed aveva cavato dal baroccio un acciarino che facilmente potè essere adattato al calesse. Il Valenti pose mano alla borsa, e voleva largamente ricompensarlo; ma il contadino ritirandosi con risoluzione e con garbatezza: «Le pare? disse, non debbo, non posso accettar nulla; mi basta di aver fatto piacere al Sig. Roberto; questo per me vale più di qualunque ricompensa» — «Ma ditemi un poco, soggiunse il Valenti pigliandolo familiarmente sotto braccio e tirandolo in disparte, io non sono mosso a farvi questa domanda da una semplice curiosità. So che quel fanciullo ha una madre malata che abita qui; me l’ha detto egli stesso; e, a quanto pare, non appartiene ad una famiglia di contadini. Se fossero persone infelici, io potrei offrir loro la mia assistenza.» — «Se sono infelici! rispose il contadino, pur troppo!... Ma non posso dire altro... La signora non ha caro d’esser conosciuta ...» — «Amico, soggiunse con amorevolezza il Valenti, voi parlate con un uomo onesto. Sappiate che io debbo la salvezza della vita a quel giovinetto; se non era egli che mi avvertiva dell’acciarino perduto, a quest’ora sarei precipitate nel fosso; ed ho il rimorso d’aver fatto correre anche a lui un grave rischio. Figuratevi quanto debbo desiderare d’essergli utile! Voi mi fareste proprio un servigio a somministrarmene il mezzo, a palesarmi l’esser suo.» Ma il contadino si ostinava a tacere; ed egli allora non volle insistere, e partì proponendosi di cogliere una migliore occasione per arrivare all’intento.
Il giorno dopo, il suo contadino andò premurosamente a trovarlo, e gli disse che vi sarebbe stato da comprare a buon mercato un bel podere nelle sue vicinanze. Si trattava di una vendita forzata per fare un pagamento di debiti e di frutti scaduti da lungo tempo. «E di chi e questo podere? domandò il Valenti.» — «Appartiene, rispose il contadino, alla vedova di un signore che morì fallito per cattiva condotta, e lasciò la moglie in miseria. I creditori s’impossessarono d’ogni cosa, fuorchè di questo podere; e la vedova sperava di conservarlo; ma sono stati scoperti altri debiti; ha perduto una causa, ed ora è costretta...» — «Povera signora! interruppe il Valenti; e voi volete che io mi approfitti della sua disgrazia?... — Signor mio! so che l’ha i denari preparati per comprare un altro podere... un compratore per questo vi deve essere; e se non è l’uno, sarà l’altro.» — «Trista necessità! soggiunse il Valenti.» — «E giacche il podere è buono, seguitava il contadino, non mi parrebbe partito da disprezzare. — E dove rimane questo podere? — Sulla strada, alla distanza di qui di due miglia. — Sulla strada! E la padrona dove abita? — Io non lo so di sicuro; ma corre voce che dopo la disgrazia del marito la si sia ricoverata nella casa del suo contadino. — Sapete voi se ha figliuoli? — Credo che ne abbia uno. — E a quanto ascende il debito per il quale e costretta a vendere il suo podere? — Per quello che ho udito dire deve essere un debito di quattrocento scudi.» — «Ho capito, soggiunse il Valenti, non importa che me ne parliate più; lasciate correre...» E licenziò il contadino. Quindi andò subito alla Canonica a cercare del parroco; ed avuti da lui più esatti ragguagli, potè riscontrare che la infelice vedova era appunto la madre del suo liberatore. Allora gli narrò l’accaduto della sera innanzi, e lo pregò di recare con segretezza a quella signora una somma per liberarla dalla perdita dell’ultimo podere che le era rimasto. «Le direte, aggiungeva, che questa somma le appartiene; che è il pagamento di un debito che un uomo onesto confessa di aver con lei; che se ella non lo accettasse, gli cagionerebbe un gran dolore... Insomma fate in modo che non abbia ragione di rifiutare il donativo o di offendersene, e che nel tempo stesso non arrivi mai a scoprirmi...» Il parroco encomiando quell’atto di riconoscenza, accettò volentieri l’incarico; allora il Valenti uscì per recargli il denaro, e consegnatogli quattrocento scudi, si tenne per l’uomo più felice di questo mondo, se gli fosse riescito di sodisfare in quel modo al suo cuore.
Il sacchetto del quattrocento scudi era pesante, ed il parroco pensò di prendere il calesse per recarlo con minore scomodo; ma egli, che era solito di far le sue gite a cavallo, non aveva calesse, e lo prese in prestito dal contadino del Valenti.
Eccolo già montato, eccolo sulla via. Il Valenti ansioso aspettava l’esito di quella gita, e ne affrettava con impazienza il ritorno. Poichè il parroco arrivò e scese alla casa del contadino della vedova, fu ricevuto con festa da quei suoi popolani che lo amavano e lo rispettavano molto, e chiese di parlare alla loro padrona. Intanto desiderò che introducessero il calesse sotto la loggia ed accostò all’uscio, e poi gli pregò ad accudire alle loro faccende senza curarsi del resto. Essi obbedirono volentieri, ed egli fu condotto nella stanza della vedova.
Quella signora nata e vissuta in un palazzo della città, era ridotta ad abitare con disagio in una povera stanza della casa del suo contadino. Quella stanza le faceva da salotto e da camera. Un piccolo letto per lei ed un canapè pel figliuolo, tre sedie, una cassa e un tavolino componevano la mobilia del suo quartiere. Per salvare l’onor del marito aveva saputo privarsi delle sostanze e dei comodi della vita; ma la compagnia di Roberto le teneva luogo di tutto. In qualunque più misera condizione, purchè fosse stata con lui, sarebbe vissuta volentieri ed in pace. Nonostante tra pochi giorni doveva perdere anche quell’ultimo ricovero. Poi le sarebbe stato necessario affidarsi tutta nel lavoro delle sue mani.
Ma per colmo di sventura le passate tribolazioni l’avevano fatta ammalare, e chi sa se avesse potuto reggere ad una vita sempre più meschina e tanto diversa da quella per la quale era nata! Tuttavia Roberto cresceva sano, robusto, amoroso; ogni speranza di quella povera madre era fondata su lui; ed esso lo sapeva, e si preparava a salvarla un giorno dalla miseria.
Appena che il parroco fu entrato, la vedova aiutata dal figliuolo si alzò per salutarlo rispettosamente, e lo invito a sedere.
Fatte le prime accoglienze, il parroco prese a dire così: «Mi scuserete, o signora, se vengo ad incomodarvi...» — «La vostra visita mi onora, rispose la vedova.
Par. Grazie, ma io mi prendo anche maggior libertà, perchè vorrei che mi permetteste di parlarvi dei vostri interessi...
Ved. Avete saputo della vendita del podere?
Par. Sì signora.
Ved. Ed avreste intenzione di comprarlo, o siete incombensato di parlarmene? In questo caso vi pregherei di farlo col mio procuratore, perchè io...
Par. Scusate se v’interrompo; ma non è questo lo scopo della mia visita. La persona a nome della quale vi parlo, ed io stesso, abbiamo supposto che debba dolervi la perdita di questo podere; e non saremmo capaci di approfittarcene a nostro vantaggio.
Ved. Ma, caro signor parroco, e una necessità; e siate certo che io sono preparata a tutto. Comunque possa essere interpretata la mia ritiratezza, vi assicuro che non mi vergogno della condizione infelice nella quale sono ridotta. Vi dirò di più, che non mi sgomenta nemmeno, poichè ho un sostegno, un valido sostegno, signor priore (e abbracciava Roberto); e dopo aver perduto tutti i miei beni, mi rimane il maggiore, il bene inestimabile di un figliuolo che mi ama e mi assiste.
Par. È vero; e la vostra fiducia è ben riposta. Oh signora, crediate che non ho mai provata tanta tenerezza quanta ne sento ora che sono in mezzo a una madre e ad un figliuolo così amorosi. La vostra rassegnazione poi è mirabile. Oh! no, non avete bisogno del vano merito delle ricchezze per conciliarvi l’amore e il rispetto delle persone; voi possedete ben altri pregi...
Ved: Vi prego di non farmi arrossire con un elogio che io non merito. Il non avvilirsi nella disgrazia è dovere di una madre, e specialmente di una madre che, come confessate voi stesso, fonda bene le sue speranze in chi può renderla felice senza bisogno delle ricchezze.
Par. Obbedirò col tenere in me i sentimenti della stima che mi ispirate; ma io ho bisogno di parlarvi più francamente dello scopo pel quale son qui venuto, e vorrei esser sicuro di non dispiacervi.
Ved. Ma, signor priore, non tenete meco questo contegno: il vostro ministero vi dà l’autorità di parlarmi liberamente.
Par. Mi prevarrò dei diritti dell’amicizia. Io so già con quanta forza d’animo abbiate incontrato le vostre disgrazie, e sempre più mi confermo che siete pronta a superarne delle altre; ma se io vi proponessi un mezzo per conservare questo podere, vi degnereste voi di accettarlo?
Ved. Signor priore, vi confesso che la perdita di questo podere mi ha amareggiato; ma ormai ho visto che è inevitabile, e me ne sono già distaccata. Credo poi di avere adoprato tutti quei mezzi che il dovere di madre poteva suggerirmi pel bene del mio figliuolo.
Par. Oh chi ardirebbe dubitarne? Io vi parlo di un mezzo che non era in vostra mano, e che io stesso ho conosciuto ora soltanto; e ringrazio il cielo di non esser venuto troppo tardi. Signora, io ho meco una somma di 400 scudi che appartiene a voi. Con essa potrete sodisfare gli ultimi debiti del marito, e conservare il podere. Ora ve la reco.» E si era già alzato e diretto alla porta. Ma la vedova, presa dalla maraviglia, si alzò anch’essa, e si mosse per rattenerlo, esclamando: «Signore, io non accetterò mai questa somma senza conoscerne la provenienza. Non so che mio marito avesse un tal credito; io non l’ho mai avuto di certo; non posso, non debbo accettare...
Par. Signora, (tornando in dietro, e pregandola con cenni a sedere) dianzi avete parlato dell’autorità che mi veniva dal mio ministero. So che non ho bisogno di rammentarvela, so che il rifiuto nasce dalla delicatezza del vostro animo, e che non potete nutrire alcun sospetto indegno di voi e di me. Io potrei senza arrossire lasciarvi qui una somma che è vostra, o pagare il debito che vi obbligava alla vendita del podere; ma non ardirei usare la più piccola violenza, perchè so che l’accettare da voi stessa i 400 scudi non vi può offendere in alcun modo. Tuttavia voglio novamente asserirvi che una persona onorata si confessa in faccia mia debitrice a voi di questa somma, e vi prega di accettarla. Non deve dispiacervi il segreto quando riposa sulla mia onoratezza e sull’autorità del mio ministero. No, non potrete rifiutare un aiuto quando vi viene offerto come cosa vostra e per mia mano, e quando vi esorto ad accettarlo pel bene del vostro figliuolo.
«Quand’è così, rispose allora la vedova quasi pentita della sua resistenza, io non mi oppongo. Compatitemi se ho esitato, e siate benedetto dal Cielo, poichè siete venuto a liberarmi inaspettatamente dalla miseria.» E posando il volto sulle spalle del figliuolo che l’abbracciava, nascose al parroco le lacrime della sua tenera riconoscenza. Allora egli corse tutto giubbilante a levare dal calesse il sacchetto, e glie lo portò sul tavolino. Poi dato un bacio a Roberto: «Signora, disse, mi permetterete di levarvi l’incomodo.»
La vedova si alzava, proferiva alcune parole di ringraziamento; ma erano interrotte dalla commozione; e il parroco esclamò allontanandosi: «Accetto i vostri ringraziamenti; ma non debbo ascoltarli. Non ho fatto altro che il mio dovere. Spero che non parlerete più di questa cosa. Per qualunque altro motivo sono ai vostri servigi.» E salutatala cortesemente andò via. La vedova voleva accompagnarlo; ma esso non lo permise. Allora corse a lui Roberto, a pigliarlo per la mano, a baciargliela, e lo aiutò a salire nel calesse. Il parroco gli mostrò colle lacrime quanto gradiva quelle tenere cortesie, lo abbracciò, gli strinse la mano, e si allontanò con l’animo pieno di consolazione. Roberto nel soffermarsi un poco a vederlo partire, crede di riconoscere il calesse della sera innanzi, e gli s’affacciò il sospetto, che quello che aveva perduto l’acciarino fosse stato il donatore dei 400 scudi; ma era un indizio troppo debole; e la premura di ritornare dalla mamma lo distolse da quel pensiero.
«Vedi, figliuolo mio, disse la madre quando lo scorse rientrar nella stanza, vedi tu in quanti modi la Provvidenza ci soccorre nelle disgrazie? Chi avrebbe aspettato questa somma? Stasera verrà il mio procuratore, e rimarrà maravigliato a tal notizia. Rallegriamoci dunque. Non saremo più costretti ad abbandonare quest’ultimo ricovero; e con la rendita libera del podere e col risparmio avrai modo di studiare e d’intraprendere a suo tempo una professione onorata e lucrosa.
Rob. Ah sì, mamma; è una fortuna; e me ne rallegro di più perchè vi vedo contenta.
Ved. Sì, figliuolo mio, io mi sento sollevata da un gran peso. Ma, lo confesso, mi rimane il desiderio di scoprire questo segreto. Chi può mai essere quell’uomo benefico, il quale ha saputo sovvenire così bene al nostro bisogno? Ah! la mia mente non mi sa suggerir nulla!»
Roberto stava a capo basso, e ripensava al riconoscimento del calesse. Non sapeva se fosse stato opportuno raccontare alla mamma il fatto della sera innanzi, o tacerlo.
Essa che lo vide così pensieroso, si insospettì e gli fece qualche dimanda Roberto esito un poco, ma alla fine le narrò ogni cosa.
«Figliuolo mio, disse allora la madre, la tua congettura è molto probabile. E se ciò fosse, io dovrei ripetere da te l’inaspettato soccorso. Tanto meglio! Se col tempo arriveremo a scoprir davvero il benefattore, sapremo a chi dimostrare la nostra riconoscenza.» — «Sì, sì, esclamò Roberto, io sento il bisogno di conoscerlo; ci riescirò; e sarò doppiamente felice quando potrò fargli vedere che so esser grato. Oh! egli stesso non conosce forse la grandezza del suo beneficio. Che sono i 400 scudi, che sarebbero i mille? Egli ha reso la tranquillità a mia madre... Forse ha contribuito al miglioramento della sua salute. Ah! io solo, io solo posso conoscere quanto gli debbo! Mio Dio, accordami la grazia di abbracciare un giono il mio benefattore, e di essergli riconoscente quanto vorrei!»