Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Silvio Pellico

    Alessandro Volta

    Erat vir ille simplex et rectus,
    et timens Deum.

    (Job. 1. 1.).


    Europa e il mondo onor ti rende, o Volta,
    Per l’altissimo ingegno ond’hai natura
    Scrutata, e in gravi magisterii svolta.

    E fin che indagin glorïosa dura
    Di scïenze tra i figli della terra,
    Il nome tuo d’obblio non fia pastura.

    Ma non sol perchè piacque a te far guerra
    De’ fisici misteri all’ignoranza,
    Giusta laude il cor mio qui ti disserra.

    Vidi altro merto ch’ogni merto avanza
    Splender nella tua grande anima, ardente
    D’ogni santa e magnanima speranza.

    In tua vecchiezza, a me giovin demente
    T’avvicinava il caso.... ah! non il caso,
    Ma la bontà del senno onnipotente!

    E ti vidi anelar, perch’io süaso
    Dai falsi lumi d’empietà non gissi,
    Ma dal lume del ver crescessi invaso.

    Un dì, seduto appo quel Sommo, io dissi
    Quai m’affliggesser dubbii sciagurati
    Sovra i destini a umanità prefissi;

    E gli narrai quai mi tendesse aguati
    Mia fantasia superba, investigante
    Supremi arcani, a noi da Dio negati.

    « O tu, gli dissi, che vedesti avante
    Più di molti mortali entro a’ secreti,
    Fra cui traluce il sempiterno Amante,

    Dimmi in qual foggia in mezzo a tante reti
    Di volgari credenze e d’incertezza,
    Circa la fede il tuo pensiero acqueti ».

    Il buon vegliardo a me con pia dolcezza:
    « Figlio, anch’io lungo tempo esaminando,
    Tenni la mente a dubitanze avvezza;

    E a’ giovani anni mi turbava, quando
    Mi parea che del secolo i primai
    Di Fè il giogo scotesser venerando,

    E s’infingesser di scïenza a’ rai
    Scoperto aver ch’Ara, Vangelo e Dio,
    Fuor ch’esca a plebe, altro non fosser mai.

    Temea non forse alfin dovessi anch’io
    Da’ miei studi esser tratto a dir: — La scuola,
    Che mi parlò d’un Crëator, mentìo.

    Ma benchè ardito e avverso ad ogni fola,
    E benchè in secol tristo in ch’ebbe regno
    Quella filosofia che più sconsola,

    E benchè procacciassi alzar lo ingegno,
    Sì che a Natura io lacerassi il velo,
    Sempre d’Iddio vidi innegabil segno ».

    Così Volta parlava, ergendo al cielo
    La cerulea pupilla generosa,
    Poi seguitava con paterno zelo:

    « Degli audaci all’imper resister osa,
    Che da lor alta fama insuperbiti
    Noman religïone abbietta cosa!

    Mal per dottrina ostentansi investiti
    Di maggior luce che non dan gli altari:
    Io negli studi ho i passi lor seguiti,

    Nè scorto ho mai ch’uom veramente impari
    Saldo argomento a diniegar quel Nume,
    Che splende nel creato anco agl’ignari.

    E se d’umano spirito all’acume
    Diniegare è impossibile l’Eterno,
    Lui trovo pur di coscïenza al lume ».

    « Lui troviam tutti! dissi; e mai governo
    Del mio cor non faranno atee dottrine,
    Ma fuor del tempio assai dëisti io scerno.

    E tu forse a costor più t’avvicine,
    Che non a quei che dall’Uom-Dio portate
    Estiman del Vangel le discipline ».

    « T’inganni, o giovin! replicò (e sdegnate
    Sfavillaron le ciglia del vegliardo,
    Poi su me si rivolsero ammansate).

    T’inganni, o giovin! Nel Vangel lo sguardo
    Figgo come ne’ cieli, ed in lui sento
    Tutto il poter di verità gagliardo.

    Sento che negli umani un vïolento
    S’oprò disordin per peccato antico,
    E che vizio e virtù son mio tormento.

    Sento che il Crëator rimase amico
    De’ puniti mortali; e, a noi disceso
    Per esserne modello, il benedico.

    Sento che siccom’ Egli uomo s’è reso,
    Divino debbo farmi, e tutto giorno
    Viver per lui d’amor sublime acceso.

    Sento che puote ingegno essere adorno
    Di ricco intendimento e di scïenza,
    Della Croce adorando il santo scorno;

    E m’umilio con gioia e reverenza
    Col cattolico volgo a questa Croce,
    E in lei sola di scampo ho confidenza ».

    Eloquente dal cor rompea la voce
    Del buon canuto, come a tal, cui forte
    Dell’error d’un amato angoscia cuoce.

    « Tu mi garrisci e in un mi riconforte,
    Dissi, e poichè alla Chiesa un Volta crede,
    Spezzar de’ dubbii spero le ritorte ».

    « Le spezzerai! quegli gridò con fede;
    Vedrai che bella fra’ più colti ingegni
    Anco religïosa anima incede!

    Nè immaginar che lungo tempo regni
    La gloria de’ filosofi or vantati,
    Che fur di scherno e di superbia pregni:

    Pochi anni ti prenunzio, e smascherati
    Vedrai que’ mille turpi falsamenti,
    Con che in lor carte i fatti han travisati.

    Il più splendido autor di que’ furenti,
    Che tutto diffamò col vil sogghigno,
    E con tai grazie che parean portenti,

    Malgrado i pregi del suo stil volpigno,
    E il suo bel Lusignano e sua Zaìra,
    Detto sarà filosofo maligno.

    Ei tutti i dì già meno ossequio ispira,
    E Francia, ond’ei sembrò tanto dottore,
    Già del mentir di lui parla, e s’adira.

    Ed al crollar del gran profanatore
    La ciurma crollerà dei men famosi,
    Che volean Dio strappar dall’uman core ».

    Io di Volta ridire i luminosi
    Sensi mal so, ma dell’egregio vecchio
    Amor mi prese, e più a lui mente posi.

    Più fïate percossero il mio orecchio
    I suoi santi dettami, e più fïate
    Divisai farli di mia vita specchio.

    Io meditando tue parole amate,
    O incomparabil uom, più non gustava
    Degli audaci le carte avvelenate.

    Ancor pur troppo da te lungi errava,
    Ma pur m’innamoravan que’ volumi
    Che il dolce genio tuo mi commendava.

    Io debol era, ma ogni dì i costumi
    Del mondo a me tornavan più molesti:
    Chè li scernea della tua fede ai lumi.

    Sovente i giorni miei trascorrean mesti,
    Perocchè i tuoi consigli io non seguìa,
    Mentre pur mi fulgean veri e celesti.

    Varie sorti e distanze a quella mia
    Tenerezza per te scemàr vantaggio,
    E poco al tuo savere io mi nodrìa.

    Vedendoti di rado, il mio coraggio
    Appo la Croce non durò abbastanza,
    E a follìe tributai novello omaggio.

    Ahi! diè l’Onnipossente a mia incostanza
    Castigo di sventura e di catena,
    E lurid’antro a me divenne stanza!

    Tu, certo, benchè allor pensieri e lena
    Ti s’infiacchisser per decrepiti anni,
    Raccapricciasti di mia orribil pena,

    E con secreti gemiti ed affanni
    Per me a’ pie’ del Signore hai dimandato
    Sollievo e forza, ed alti disinganni.

    Ei t’esaudiva, e il creder tuo stampato
    Così alfine in quest’alma addentro venne,
    Che più da dubbii non andò crollato.

    E gaudio e libertà poscia m’avvenne,
    E rividi la madre e il genitore
    Dopo la sanguinosa ansia decenne.

    Ma ne’ giorni del mio lungo dolore
    Molte vite finìan la mortal traccia,
    E di batter cessò tuo nobil core.

    Duolmi che più non posso infra tue braccia
    Gettarmi alcun momento, e alzare il ciglio
    In tua paterna, veneranda faccia.

    In tutti i dì del mio terreno esiglio
    Pregherò Dio che schiuda a te sua reggia,
    Se mai fuor ti legasse aspro vinciglio.

    Ma te già spero nell’eletta greggia!
    Di là mi vedi, e preghi impietosito
    Che in tua pace per sempre io ti riveggia.

    Perdonami se tardi io t’ho obbedito!
    A tua amistà m’affido, e affido pure
    Quel diletto mio Porro, a te gradito!

    Impetra il fin dell’alte sue sciagure;
    Impetra ch’io con esso e gli altri amici
    Troviam nel divo Amor gioie secure,

    Sì che n’abbian giovato i dì infelici!




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