Edizione Italiana
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    Silvio Pellico

    I Santuarii

    Et induxit eos in montem
    sanctificationis suae.
    (Ps. 77).


    Infelice colui che ignobilmente
    Mira natura e le bell’opre umane,
    Ed allor più s’estima alto veggente
    Che più freddo e schernevol si rimane!
    Quant’evvi di sublime e d’innocente
    Gli par macchiato di bruttezze strane:
    Per le spine la rosa gli par truce,
    E, perchè il Sole avvampa, odia la luce.

    No, non è tal la verità, ma ad onta
    Delle sue spine amabile è la rosa,
    E l’alma luce immense gioie impronta,
    Benchè talor dardeggi anco dannosa;
    E il passegger che faticando monta,
    Pago sovra le balze indi si posa;
    E benchè abbondin gli empi in sulla terra,
    Frode non è per ogni dove o guerra.

    L’ipocrita, ahi! s’accosta anco all’altare,
    Ma i non infinti quell’altar migliora:
    Ogni spirito umano, alto o volgare,
    Pervertesi dal dì che più non òra;
    Ed in ogni uso della Chiesa appare
    Celeste senso che a virtute incuora.
    Chi d’amor sante preci insania crede,
    Quai vuol foggiarle, e non quai son, le vede.

    Voi pur, voi pur siete di scherno oggetto,
    Famosi Santuarii, ove i credenti
    Peregrinando anelan con diletto,
    Sebben plebee taluni abbian le menti.
    Menti han plebee, ma candido l’affetto,
    E l’esempio comun li fa più ardenti.
    O Santuarii, abbiatevi il mio canto:
    Io ne’ delùbri di Varallo ho pianto!

    Tutelare di Sesia Angiol gentile,
    Come nobile e vaga è tua vallea!
    Qual v’ha Meandro all’acque tue simìle?
    Qual altra auretta i cor tanto ricrea?
    E come, fuor del consüeto stile,
    Qui il villanel di belle arti si bea!
    Qui leggiadri pittori ebbero cuna,
    E lor opre Varallo in copia aduna.

    Ma più di tutti i Varallensi egregio
    Di virtù per la forte orma stampata
    Fu il buon Caïmo ch’or sull’are ha pregio,
    Ei che alla valle nova gloria ha data,
    Ei che v’aggiunse così fregio a fregio,
    Che da’ secoli andasse indi ammirata.
    Umil cappuccio lo coprìa, ma ardente
    D’alti pensier gli rifulgea la mente.

    Caïmo giovin mosse in Terra Santa,
    Poi tornò pien di rimembranze il core,
    Ed ambìa che sua terra tutta quanta
    Innalzasse le brame al Crëatore;
    Ed era di color, cui non va infranta
    La volontà da inciampi o da timore.
    Ardüissima cosa immaginossi,
    La predicò, la volle, e gridò: « Puossi! »

    » Puossi, gridò, glorificare Iddio,
    » A questi lochi eccelso lustro dando.
    » Ergasi un Santuario in un sì pio,
    » E sì per inclit’opere ammirando,
    » Che inviti pure il miscredente e il rio,
    » I quai vengan da pria maravigliando,
    » Poscia vinti si sentan dall’incanto
    » Del Bel, del Ver, del sommamente Santo.

    » Puossi! e tristo colui che m’opporrebbe
    » Che opulenta non è questa convalle!
    » Dal voler forte ognor la forza crebbe,
    » E le ben chieste grazie il Signor dàlle.
    » Più costante di noi popol non v’ebbe,
    » Zelo non fia ch’indi all’impresa falle:
    » Dìam chi l’or, chi le braccia, e chi lo ingegno,
    » E di Dio monumento alzerem degno ».

    In tal guisa ispirato predicava
    Il reduce da’ liti Palestini,
    E col robusto dir comunicava
    Negli altrui cor suoi palpiti divini.
    Universale un plauso s’elevava
    Primamente da’ borghi più vicini,
    Poi rapido quel plauso si diffonde
    Pur tra fedeli di lontane sponde.

    E quasi per prodigio ecco tant’oro,
    E tanti chiari spirti, e tante braccia
    Moltiplicarsi e gareggiar fra loro
    Sì che novo Sïonne ivi si faccia.
    Non manca all’alta impresa alcun decoro;
    L’aspra montagna trasmutato ha faccia;
    Magnifico cammin fra ombrose piante
    Guida a esimii delùbri il vïandante.

    Ascendendo quell’erta, evvi un mistero
    Tal nel loco e nell’aer, che pria che giunga
    A’ consecrati muri il passeggero,
    Forz’ è che preghi, ed ami, e si compunga.
    Vista non v’ha che nol ritragga al vero,
    Che dal mondo fallace nol disgiunga,
    Tanto, dovunque ei volga la pupilla,
    Del Crëator la mäestà gli brilla.

    Quanto più progredisci alla salita,
    Tanto più ti stupiscon da ogni parte
    Quel bosco là della vallea romita:
    Là le fumanti capannette sparte;
    Là un torrente fra scogli che s’irrìta,
    E mormorando e spumeggiando parte;
    E colà un altro che sue rapid’onde
    Rotola verso il piano, e in lui s’infonde.

    Qui il ciel sovente è limpido zaffiro,
    E spande fulgidissima la luce,
    Poscia improvvisa là sui gioghi io miro
    Nube che tuoni e fulmini conduce,
    E ne’ rami degli alberi uno spiro
    Freme di vento, or lusingante, or truce,
    E in tutte quelle cose è un’armonìa
    Che scuote l’alma ed al Signor l’avvìa.

    Venìa meco Tancredi, ed ammutiti
    Or contemplando questo, or quell’obbietto,
    Più gioïvam perchè fra noi partiti
    Sensi cotanti d’intimo diletto
    Scorger ne fean quanto da Dio forniti
    D’unanime eravam mente ed affetto:
    Tacean le lingue, ma l’alterno sguardo
    Il söave dicea sentir gagliardo.

    Più oltre i passi producemmo, e alfine
    I delùbri toccammo desïati:
    Su, ciascun di essi vaghe ombre son chine
    D’olmi vetusti, sotto a cui posati
    Già si son peregrini e peregrine,
    Ora in polve dispersi ed ignorati.
    Quanti, com’io, veduto han queste rive!
    Tutti son morti, e quella ombra sorvive!

    Il pio silenzio di tai sedi appella
    A veridici e gravi pensamenti.
    Scende sul cor rimorso, e lo flagella,
    Ma speme santa mitiga i tormenti.
    Scerne l’uom ch’ogni vita si scancella,
    Quasi che gli anni suoi fosser momenti,
    E invaso allor da salutar terrore,
    S’umilia, e invoca, e trova il Redentore.

    Oh! chi d’uopo non ha di chi il redima?
    Qual adulto vivente è immacolato?
    Chi non desìa tornar ciò che fu prima,
    Quando non era ad empietà varcato?
    E chi fia mai che irreverente imprima
    In Santuario i piedi, ove adorato
    Mirasi quanto, sceso in terra Iddio,
    Per redimerci tutti, oprò e patìo?

    No, qui nulla è volgar, nulla è concetto
    Di scempi ingegni! tutto è sapïenza!
    Rider vorrìa l’incredulo intelletto,
    E falla qui a lui stesso la impudenza:
    Qui riconoscer debbe ei con dispetto
    Esservi un Bel che sforza a reverenza:
    Istorïate scene del Vangelo
    Han qui una voce che rammenta il Cielo.

    Di Varallo i sacelli adorni sono
    Di cento effigie di gentil lavoro:
    Ed una v’ha che par d’angioli un dono,
    Cotanto pinge di Maria il martoro!
    Di Maria, che in orribile abbandono
    Indicibil, divin serba decoro,
    Di Maria che, abbracciando il morto Figlio,
    Frena le amare lagrime in sul ciglio!

    Fra gli sparsi tempietti si divelle,
    Qual tra la prole sua la genitrice,
    Qual magnifica luna infra le stelle,
    Sommo Tempio che al loco appien s’addice.
    Egli è sacro a Maria, che fra le belle
    Schiere de’ cherubin sorge felice,
    E dir sembra a’ mortali: — « Oh figli miei!
    » Meco voi tutti alzare in ciel vorrei! »

    Non fulge dì, non fulge ora del giorno,
    Che sul monte preganti alme non meni.
    Sono pii villanelli del contorno
    Che invocan messi a’ patrii lor terreni;
    Sono un padre sanato, e a lui d’intorno
    I figli suoi di gratitudin pieni;
    Son donne antiche e vergini montane
    Vestite a fogge in un leggiadre e strane.

    E queste e quelli, a varii gruppi onesti,
    Van ramingando qua e là pel monte.
    Mormoran preci, e i rai tengon modesti,
    Ed in ogni sacel chinan la fronte,
    E più si ferman dolcemente mesti
    Dove San Carlo ha sue pedate impronte;
    E sotto voce ai figli il genitore
    Le virtù narra di quel gran Pastore.

    Poscia ciascun pur là s’arresta molto,
    Dove il fulcro d’un letto anco si vede:
    Il letto fu di Carlo! Ivi quel volto
    Dormì e vegliò quando a lodar la fede
    De’ Varallensi a lor si fu rivolto
    Dalla Lombarda glorïosa sede.
    Oh reliquia onorata! oh quanti ispira
    Di pietà desiderii in chi la mira!

    E colà presso, d’un più antico Santo
    Venerevole avanzo è custodito:
    Un teschio egli è! Chi di facondia incanto
    Effuse da quel teschio ora ammutito?
    E chi da quelle or vote occhiaie ha pianto?
    Chi cogli sguardi i cuori indi ha colpito?
    Caïmo fu! quel forte che volea,
    Ed all’opre ardüissime impellea!

    Adorator de’ secoli vetusti
    No, non son io: so che barbarie assai
    Contro a’ fiacchi porgeva arme agl’ingiusti,
    E alle vendette succedean più guai:
    Ma sfavillar pur si vedean tai giusti,
    Che d’obblio non saran preda giammai:
    Del secol lor vinceano il genio tristo,
    L’alme träendo a caritate e a Cristo.

    Onore a nostra età per fatti egregi,
    Ma non per la calunnia e pel sogghigno,
    Con che vorriansi vilipesi i pregi
    Di chi fra rozzi oprò saggio e benigno!
    Ogni secolo ha menti onde si fregi;
    Ogni secolo impulsi ha dal maligno:
    Ah! in ogni età da’ cuori ingentiliti
    Abbiansi laude gli atti a Dio graditi!

    A Dio graditi certo erano e sono
    D’alta religïon que’ monumenti,
    Ov’ansio d’impetrar pace e perdono
    Tutti elèva il mortal suoi sentimenti;
    Ove chi più fu sotto i vizi prono,
    Talor più sorge, e move a’ begli intenti;
    Ove color che già inimici furo,
    Si rïabbraccian con fraterno giuro.

    Ah! tutto ciò che alle passate sorti
    De’ natii ne congiunge amati liti,
    È quasi suon di glorïosi morti,
    Che di virtù civil ne drizza inviti;
    E ben di patrio amor vincoli forti
    Son quindi i Templi e i Santuarii avìti;
    Ed ogni buon là grandi lumi scerne,
    Pregando ove pregàr l’alme paterne.




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