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Ugo Foscolo
A Bonaparte liberatore
Dove tu, diva, da l’antica e forte
dominatrice libera del mondo
felice a l’ombra di tue sacre penne,
dove fuggivi, quando ferreo pondo
di dittatoria tirannia le tenne
umìl la testa fra servaggio e morte?
Te seguìr le risorte
ombre de’ Bruti, ai secoli mostrando
alteramente il brando
del padre tinto e del figliuol nel sangue;
te, o Libertà, se per le gelid’onde
del Danubio e del Reno
gisti fra genti indomite guerriere;
te se raccolse nel sanguineo seno
Brittannia e t’ascondea mortifer angue;
te se al furor di mercenarie spade
de l’Oceàno da le ignote sponde
t’invitàr meste, e del tuo nome altere
le americane libere contrade;
o le batave fonti,
o tu furo ricetto
coronati di gel gli elvezi monti;
or che del vero illuminar l’aspetto
non è delitto, or io te, diva, invoco:
scendi, e la lingua e il petto
mi snoda e infiamma di tuo santo foco.
Ma tu l’alpi da l’aërie cime,
al rintronar di trombe e di timballi
Ausonia guati e giù piombi col volo;
anelanti ti sieguono i cavalli
che Palla sferza, e sul latino suolo
Marte furente orme di foco imprime:
odo canto sublime
di mille e mille che vittoria, o morte
da l’italiche porte
giuran brandendo la terribil asta;
e guerrier veggo di fiorente alloro
cinto le bionde chiome
su cui purpuree tremolando vanno
candide azzurre piume; egli al tuo nome
suo brando snuda e abbatte, arde, devasta;
senno de’ suoi corsier governa il morso,
ardir li ’ncalza, e de’ marziali il coro
Genj lo irraggia, e dietro lui si stanno
in aer librate con perpetuo corso
Sorte, Vittoria, e Fama.
Or che fia dunque, o diva?
Onde tal’ira? e qual fato te chiama
a trar tant’armi da straniera riva
su questa un dì reina, or nuda e schiava
Italia, ahi! solo al vituperio viva,
al vituperio che piangendo lava!
E depor le corone in Campidoglio,
e i re in trionfo tributari e schiavi
Roma già vide, e rovesciati i troni:
re-sacerdoti or con mentite chiavi
di oro ingordi e di sangue, altri Neroni,
grandeggiar mira in usurpato soglio:
siede a destra l’Orgoglio
cinto di stola, e ferri e nappi accoglie
sotto le ricche spoglie,
vendendo il cielo, ai popoli rapite;
sgabello al seggio fanno e fondamento
cataste di frementi
capi co gli occhi ne le trecce involti,
e tepidi cadaveri innocenti,
cui sospiran nel fianco alte ferite
pel fulminar di pontificio labbro;
e misti in pianto e in sangue, atro cemento,
calcati busti e cranj dissepolti
fanvi; e lo Inganno di tal soglio è fabbro:
quindi, al Solopossente
la folgore è strappata,
eran d’Orto terrore e d’Occidente,
e si pascean di regni e di peccata.
Non più. - Dio disse: e lor possa disparve;
pur ne l’Ausonia ancor egra e acciecata
passeggian truci le adorate larve.
Passeggian truci, e ’l diadema e il manto
de’ boreali Vandali ai nepoti
vestendo, al scettro sposano la croce;
onde il Tevere e l’Arno a te devoti,
Libertà santa dea, cercan la foce
sdegnosamente in suon quasi di pianto;
e la turrita Manto
offre scampo ai tiranni, e il bel Sebeto
irriga mansueto
le al Vesuvio soggette auree campagne
e ricche aduna a usurpator le messi;
abbevera il Ticino
Ungari armenti, e l’ospitali arene
non saluta il Panaro in suo cammino;
t’ode gridar oltre le sue montagne
la subalpina donna e l’elmo allaccia
e s’alza e terge i rai nel suol dimessi,
ma le gravano il piè sarde catene,
onde ricade e copresi la faccia;
e le a te care un giorno
città, nettunie, or fatte
son di mille Dionisj empio soggiorno:
Liguria avara contro sè, combatte;
e l’inerme leon prostrato avventa
ne’ suoi le zampe e la coda dibatte
e gli ammolliti abitator spaventa.
De! mira, come flagellata a terra
Italia serva immobilmente giace
per disperazïon fatta secura:
or perché turbi la sua dolente pace,
e furor matto e improvida paura
le movi intorno di rapace guerra?
Piaghe immense rinserra
nel cor profondo; a che piagar suo petto,
forse d’invidia oggetto,
per chi suo gemer da lontan non sente?
ma tu, feroce Dea, non badi e passi,
e a l’armi chiami, a l’armi,
e al tuon de’ bronzi e al fulminar tremendo
e a l’ululo guerrier perdonsi i carmi.
Cede Sabaudia, e in alto orribilmente
del tuo giovin Campion splende la lancia;
tutto trema e si prostra anzi i suoi passi,
e l’Aquila real fugge stridendo
ferita ne le penne e ne la pancia.
Gallia intuona e diffonde
di Libertade il nome
e mare e cielo Libertà risponde:
l’Angel di morte per le imbelli chiome
squassa ed ostende coronata testa:
Libertà! grida a le provincie dome,
del Re dei folli Re vendetta è questa.
Del Re dei Re! - Quindi tra il fumo e i lampi
s’involve in sen di tempestosa nube,
che occupa e offusca di Germania il suolo;
donde precorsa da mavorzie tube
balda rivolge e minacciosa il volo
l’Aquila, e ingombra di falangi i campi;
e par che Italia avvampi
di foco e guerra, di ruina e morte:
né spezzar sue ritorte
osa, né armarsi del francese usbergo.
Ma s’affaccia l’Eroe; sieguonlo i prodi
repubblicano in fronte
nome vantando con il sangue scritto;
ecco d’estinti e di feriti un monte,
ecco i schiavi aleman ch’offrono il tergo
e la tricolorata alta bandiera
in man del Duce che in feral conflitto
rampogna, incalza, invita, e in mille modi
passa e vola qual Dio di schiera in schiera:
pur dubbio è marte; ei dove
più de’ cavalli l’ugna
nel sangue pesta, e sangue schizza e piove,
e regna morte in più ostinata pugna
co’ suoi si scaglia, e la fortuna sfida
guerriero invitto, e tra le fiamme pugna
e vince; e Italia libertade grida.
E del Giove terren l’augel battuto
drizza a l’aere natio tarpati i vanni
e sotto il manto imperïal si cela:
ma il vincitor lo inceppa, e gli alemanni
colli che borea eternamente gela,
senton lo altero vertice premuto
dal Guerrier cui tributo
offre atterrita dal suo cenno e doma
la pontificia Roma,
dal Guerrier che ad Esperia i lumi terge
e falla ricca de’ tuoi puri doni,
o Libertà gran dea,
e l’uom ritorna ne gli antichi dritti
che prepotente tirannia premea.
In vetta a l’Aventin Cesare s’erge
tirannic’ombra rabbuffata e fera,
e mira uscir di Libertà campioni
popoli dal suo ardir vinti e sconfitti,
ond’alza il brando, e cala la visiera...
Ombra esecranda! torna
sitibonda di soglio
ove lo stuol dei despoti soggiorna
oltre Acheronte a pascerti d’orgoglio:
eroe nel campo, di tiran corona
in premio avesti, or altro eroe ritorna,
vien, vede, vince, e libertà, ridona.
Italia, Italia, con eterei rai
su l’orizzonte tuo torna l’aurora
annunziatrice di perpetuo sole;
vedi come s’imporpora e s’indora
tuo ciel nebbioso, e par che si console
de’ sacri rami dove a l’ombra stai!
I desolati lai
non odi più di vedove dolenti,
non orfani innocenti
che gridan pane ove non è chi ’l rompa: -
ve’ ricomporsi i tuoi vulghi divisi
nel gran Popol che fea
prostrare i re col senno e col valore,
poi l’universo col suo fren reggea;
vedi la consolar guerriera pompa
e gli annali e le leggi e i rostri e il nome!
Come, non più del civil sangue intrisi,
vestonsi i campi di feconde messi
e di spiche alla pace ornan le chiome!
E come benedice
il cittadin villano
tergendo il fronte, Libertà felice!
Come dovizïanti a l’oceàno
fendon gl’immensi flutti onusti pini,
cui commercio stranier stende la mano
sin da gli americani ultimi fini!
Ma de l’Italia o voi genti future,
me vate udite cui divino infiamma
libero Genio e ardor santo del vero:
di Libertà la non mai spenta fiamma
rifulse in Grecia sin al dì che il nero
vapor non surse di passioni impure;
e le mura secure
stettero, e l’armi del superbo Serse
dai liberi disperse
di civico valor fur monumento:
ambizïon da le dorate piume
sanguinosa le mani,
e di argento libidine feroce,
e molli studj, piacer folli e vani
a libertà cangiar spoglia e costume.
Itale genti, se Virtù suo scudo
su voi non stende, Libertà vi nuoce;
se patrio amor non vi arma d’ardimento,
non di compre falangi, il petto ignudo,
e se furenti modi
dal pacifico tempio
voi non cacciate, e sacerdozie frodi,
sarete un dì a le età misero esempio:
vi guata e freme il regnator vicino
de l’Istro, e anela a farne orrido scempio;
e un sol Liberator dievvi il destino.