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Ugo Foscolo
A Luigia Pallavicini caduta da cavallo
I balsami beati
Per te Grazie apprestino,
Per te i lini odorati
Che a Citerea porgeano
Quando profano spino
Le punse il piè divino,
Quel dì che insana empiea
Il sacro Ida di gemiti,
E col crine tergea
E bagnava di lacrime
Il sanguinoso petto
Al Ciprio giovinetto.
Or te piangon gli amori,
Te fra le dive Liguri
Regina e diva! e fiori
Votivi all’ara portano
D’onde il grand’arco suona
Del figlio di Latona.
E te chiama la danza
Ove l’aure portavano
Insolita fragranza,
Allor che a’ nodi indocile
La chioma al roseo braccio
Ti fu gentile impaccio.
Tal nel lavacro immersa,
Che fior, dall’Eliconio
Clivo cadendo, versa,
Palla dall’elmo i liberi
Crin su la man che gronda
Contien fuori dell’onda.
Armonïosi accenti
Dal tuo labbro volavano,
E dagli occhi ridenti
Traluceano di Venere
I disdegni e le paci,
La speme, il pianto e i baci.
Deh! perchè hai le gentili
Forme e l’ingegno docile
Vôlto a studi virili?
Perchè non dell’Aonie
Seguivi, incauta, l’arte,
Ma i ludi aspri di Marte?
Invan presaghi i venti
Il polveroso agghiacciano
Petto e le reni ardenti
Dell’inquïeto alipede,
Ed irritante il morso
Accresce impeto al corso.
Ardon gli sguardi, fuma
La bocca, agita l’ardua
Testa, vola la spuma,
Ed i manti volubili
Lorda, e l’incerto freno,
Ed il candido seno;
E il sudor piove, e i crini
Sul collo irti svolazzano,
Suonan gli antri marini
Allo incalzato scalpito
Della zampa che caccia
Polve e sassi in sua traccia.
Già dal lito si slancia
Sordo ai clamori e al fremito;
Già già fino alla pancia
Nuota . . . e ingorde si gonfiano
Non più memori l’acque
Che una Dea da lor nacque:
Se non che il Re dell’onde,
Dolente ancor d’Ippolito,
Surse per le profonde
Vie dal Tirreno talamo,
E respinse il furente
Col cenno onnipotente.
Quel dal flutto arretrosse
Ricalcitrando, e, orribile!
Sovra l’anche rizzosse;
Scuote l’arcion, te misera
Su la pietrosa riva
Strascinando mal viva.
Pera chi osò primiero
Discortese commettere
A infedele corsiero
L’agil fianco femineo,
E aprì con rio consiglio
Nuovo a beltà periglio!
Chè or non vedrei le rose
Del tuo volto sì languide;
Non le luci amorose
Spïar ne’ guardi medici
Speranza lusinghiera
Della beltà primiera.
Di Cintia il cocchio aurato
Le cerve un dì traéno,
Ma al ferino ululato
Per terrore insanirono,
E dalla rupe etnea
Precipitâr la Dea.
Gioìan d’invido riso
Le abitatrici olimpie,
Perchè l’eterno viso,
Silenzïoso e pallido,
Cinto apparìa d’un velo
Ai conviti del cielo;
Ma ben piansero il giorno
Che dalle danze efesie
Lieta facea ritorno
Fra le devote vergini,
E al ciel salìa più bella
Di Febo la sorella.