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Vincenzo Monti
La Musogonia
Cor di ferro ha nel petto, alma villana
chi fa de' carmi alla bell'arte oltraggio,
arte figlia del cielo, arte sovrana,
voce di Giove e di sua mente raggio.
O Muse, o sante dee, la vostra arcana
origine vuo' dir con pio linguaggio,
se mortal fantasia troppo non osa
prendendo incarco di celeste cosa.
Ma come in pria v'invocherò? Tespìadi
dovrò forse nomarvi o Aganippee?
O titolo di caste Eliconìadi
più vi diletta o di donzelle Ascree?
So che ninfe Castalie e Citerladi
chiamarvi anco vi piace e Pegasee;
e vostro sulle rive d'Ippocrene
di Pleridi e il nome e di Camene.
Qualunque suoni a voi più dolce al core
di sì care memorie, a me venite;
e qual fuvvi tra' numi il genitore
e qual la madre tra le dee mi dite:
ché ben privo è di senno e mentitore
chi di seme mortal vi stima uscite;
né Sicion a sue figlie or più vi chiama,
né d'Osiride serve invida fama.
Ma il maggior degli dèi, l'onnipossente
Giove di nembi adunator v'è padre,
e a lui vi partorì diva prudente
Mnemosine di forme alme e leggiadre;
diva del cor maestra e della mente,
e del caro pensier custode e madre,
all'Erebo nipote, e della bei la
Temi e del biondo Iperion sorella.
Reina della fertile Eleutera
sovente errava la titania dea
per la selva beota, e di Plera
visitava le fonti e di Pimplea.
Sotto il suo piè fiorìa la primavera;
e giacinti e melisse ella cogliea,
amor d'eteree nari, e quel che verno
unqua non teme, l' amaranto eterno.
Il timo e la viola, onde il bel suolo
soavemente d'ogni parte oliva
va depredando la sua mano, e solo,
solo del loto e del narciso e' schiva;
ché argomento amendue di sonno e duolo
crescon di Lete su la morta riva,
ed uno di Morfeo le tempie adombra,
l'altro il crin bianco delle Parche ingombra.
Fiori adunque mietea l' avventurosa
ilari e vivi, e se 'n dolea 'l terreno:
ella sovente un'infiammata rosa
al labbro accosta ed un ligustro al seno;
e il candor del ligustro e l'amorosa
de' fior reina al paragon vien meno,
e dir sembra: Colei non è sì vaga
che vermiglia mi fe' colla sua piaga
Ma la varia beltate, onde natura
le rive adorna de' ruscelli e il prato,
l'antica non potea superba cura
acchetar, di che porta il cor piagato.
Incessante la punge ed aspra e dura
la memoria del cielo abbandonato,
alla cara pensando olimpia sede
venuta in preda di tiranno erede.
Quindi nell'alto della mente infissi
stanle i fratelli al Tartaro sospinti,
ivi in quei tenebrosi ultimi abissi
dal fiero Giove di catene avvinti.
E molto è già che in quell'orror son vissi,
né gli sdegni lassù son anco estinti;
ché nuova tirannia sta sempre in tema,
e cruda è sempre tirannia che trema.
Arroge, che del suo minor germano
novella più non intendea, da quando
re Giove usurpator figlio inumano
dal tolto Olimpo lo respinse in bando;
né sapea che Saturno iva di Giano
per le quete contrade occulto errando,
ai nepoti d'Enotro a,
al Lazio amico,
del secol d'oro portator mendico.
In tante d'odio e d'ira e di cordoglio
altissime cagioni ella smarrito
del gran titanio sangue avea l'orgoglio;
e fior parea depresso, abbrividito,
quando soffiar dall'iperboreo scoglio
si sente d'Orizìa l'aspro marito,
e tutta carca di soverchia brina
l'odorosa famiglia il capo inchina.
Sol che il nome tremendo oda talvolta
del saturnio signor la sconsolata
tutta nel volto turbasi, e per molta
paura indietro palpitando guata.
Ma che? la Parca indietro era già volta,
e decreto correa che alfin placata
del patrio ciel ricalcherìa le soglie
Mnemosine di Giove amante e moglie.
Sotto vergine lauro un giorno assisa
di Piera ei la vede alla sorgente.
La vede; e d'amor pronta ed improvvisa
per le vene la fiamma andar si sente,
e dalle vene all'ossa; in quella guisa
che d'autunno balen squarcia repente
la fosca nube e con veloce riga
di lucido meandro i nembi irriga.
Per quell'almo adempir dolce disìo
che Venere gli pose in mezzo al core,
che farà il caldo innamorato iddio?
Che far dovrà, che gli consigli, Amore?
Amor, che già scendea propizio e pio,
manifestossi in quella all'amatore;
e gli sorrise così caro un riso,
che di dolcezza un sasso avrìa diviso.
Ed umile pigliar sembianza e panno a
l'esortò di pastore e portamento.
Villano e illiberal parea l'inganno
al gran Tonante, e ne movea lamento.
Oh! gli rispose quel fanciul tiranno,
oh! che dirai, superbo e frodolento,
quando giovenco gli agenorei liti
empirai di querele e di muggiti?
Quando di serpe vestirai la squamma,
e or d'aquila le piume ora di cigno?
Quando pioggia sarai, quando una fiamma,
e l'erba calcherai con piè caprigno?
Sì dicendo lo tocca e più l'infiamma,
e il bel labbro risolve in un sogghigno.
Pensoso intanto di Saturno il figlio
né mover chioma si vedea né ciglio.
Stavansi muti al suo silenzio i venti,
muta stava la terra e il mar profondo;
languìa la luce delle sfere ardenti,
parea sospesa l'armonia del mondo.
Allor l'idalio dio delle roventi
folgori gli togliea di mano il pondo,
arme fatali che trattar sol osa
Giove e Palla Minerva bellicosa.
Ed or le tratta Amore, e nella mano
guizzar le sente irate a, e non le teme;
e appiè d'un'elce
le depon sul piano,
che tocco fuma, e l'elce suda e geme.
Ne pute l'aria intorno e da lontano
invita i nembi; e roco il vento freme,
dir sembrando: Mortal, vattene altrove,
ché il fulmine tremendo e' qui di Giove.
Fatto inerme così l'egìoco nume
tutta deposta la sembianza altera,
di pastorel beoto il volto assume,
e questa di sue frodi è la primiera.
S'avvìa lunghesso il solitario fiume:
la selva si rallegra e la riviera,
e del dio che s'appressa accorta l'onda
più loquace a baciar corre la sponda.
Guida al fervido amante è quell'alato
garzon che l'alme a suo piacer corregge,
contro cui poco s'assecura il fato,
il fato a cui talor rompe la legge.
Egli alla diva l'appresenta, e aurato
dardo allor tolto dalla cote elegge;
e al vergin fianco di tal forza tira,
ch'ella tutta ne trema e ne sospira.
Loda il volto gentil, le rubiconde
floride guance e il bel tornito collo;
loda le braccia vigorose e tonde,
e l'omero che degno era d'Apollo;
bel sorriso, bel guardo, e vereconde
care parole, e tutto alfin lodollo.
Amor sì dolce le ragiona al core,
che in lui questo pur loda, esser pastore.
Verrà poscia stagion ch'altre due dive
faran la scusa del suo basso affetto,
quando Anchise del Xanto in su le rive
e quel vago d'Arabia giovinetto
famoso incesto delle fole argive,
la dea più bella stringeransi al petto;
e sul sasso di Latmo Endimione
vendicherà Callisto ed Atteone.
In poter dunque di due tanti dèi
congiurati in suo danno, Amore e Giove,
cess'ella al frodo, e castitate a lei
porse l'ultimo bacio, e mosse altrove.
Forniro il letto allegri fiori e bei
spontaneo–nati ed erbe molli e nuove
e intonar consapevoli gli augelli
il canto nuzial fra gli arboscelli.
Facean tenore alle lor dolci rime
l'aure fra i muti e ancor non dotti allori,
e il vicino Parnaso ambe le cime
scotea, presago de' futuri onori.
Le scotea Pindo ed Elicon sublime,
che i lor boschi sentian farsi canori;
e Temide di Vesta in compagnia
dall'antro a Febo già dovuto uscìa.
Tre volte e sei l'onnipossente padre
della figlia d'Urano in grembo scese,
ed altrettante avventurosa madre
di magnanima prole il dio la rese:
di nove io dico vergini leggiadre,
del canto amiche e delle belle imprese:
Melpomene che grave il cor conquide,
e Talìa che l'error flagella e ride;
Calliopea che sol co' forti vive,
ed or ne canta la pietade or l'ira;
Euterpe amante delle doppie pive,
e Polinnia del gesto e della lira;
Tersicore che salta, e Clio che scrive,
Erato che d'amor dolce sospira;
ed Urania che gode le carole
temprar degli astri ed abitar nel sole.
A toccar cetre, a tesser canti e balli
si dier concordi l'inclite donzelle,
e pei larghi del ciel fulgidi calli
al padre s'avviar festose e belle.
Dalle rupi ascendeva e dalle valli
il soave concento all'auree stelle,
e l'ineffabil melodia le note
rendea men dolci dell'eteree rote.
Tacquero vinte al canto pellegrino
le nove delle sfere alme sirene,
quelle che viste da Platon divino
cingono il ciel d'armoniche catene.
e già l'olenio raggio era vicino,
e in nubi avvolta di tempesta piene
la gran porta apparìa, donde ritorno
fan gl'immortali all'immortal soggiorno.
Alla prole di Temi, alle vermiglie
ore l'ingresso i fati ne fidaro,
pria che lor poste in man fosser le briglie
del carro che a Feton costò sì caro.
Per questa di Mnemosine le figlie
carolando e cantando oltrepassaro,
e bisbigliar di giubilo improvviso
fer la cittade dell'eterno riso.
Dagli alberghi di solido adamante
tutta de' numi la famiglia uscìa,
e dell'empiro fervida e sonante
sotto i piedi immortali era la via.
All'affollarsi, al premere di tante
eteree salme cupo si sentìa
tremar l'Olimpo; e nel segreto petto
Giove un immenso ne prendea diletto.
Alle nuove del cielo cittadine
surse dal trono; per la man le strinse,
e le care baciò fronti divine
come paterna tenerezza il vinse.
Poi diè lor d'oro il seggio e di reine
l'adornamento, e il crin di lauro avvinse,
d'eterno lauro che d'accanto all'onda
del nettare dispiega alto la fronda.
Strada e lassù regal sublime e bianca,
che dal giunonio latte il nome toglie:
de' più possenti numi a destra e a manca
vi son gli alberghi con aperte soglie.
Ma dove più del ciel la luce è stanca
confuso il volgo degli dèi s'accoglie:
le Nebbie erran laggiù canute i crini,
e l'ignee Nubi delle nebbie affini,
e i Turbini rapaci, e le Tempeste
co' Zefiri che l'ali han di farfalle,
tal menando un rumor che la celeste
ne risuona da lunge ampia convalle.
Un più liquido lume infiora e veste
le sponde intanto di quel latteo calle.
ivi i palagi del Tonante sono,
ivi le ròcche tutte d'oro e il trono.
Ed in questa del ciel parte migliore
Giove accolse le Muse, e alle pudiche
liberal concedette il genitore
splendide case eternamente apriche:
a cui d'accanto la magion d'Amore
sorge con quella delle Grazie amiche,
dive senza il cui nume opra e favella
nulla è che piaccia e nulla cosa è bella.
Fra le Grazie e Cupido e le Camene
dolce allor d'amistà patto si feo.
Poi qual pegno d'amor a più si conviene
ogni nume lor porse; il Tegeèo
le sette amate disuguali avene;
Ciprigna il mirto; i pampini Lieo;
e a Melpomene fiera il forte Alcide
donar l'insegna del valor si vide.
Venne Mercurio, e alle fanciulle offerse
la prima lira, di sua man costrutta:
Apollo venne, e del futuro aperse
il chiuso libro e la scienza tutta:
Pito ancor essa a, onde il bel dire emerse,
le Muse a salutar si fu condutta,
e l'arte insegnò lor dolce e soave
che dell'alma e del cor volge la chiave.
Più volubili allor l'inclite dive
mandar dal labbro d'eloquenza i fiumi;
allor con voci più sonanti e vive
la densa celebrar stirpe de' numi;
quanti le selve e de' ruscei le rive
e de' monti frequentano i cacumi,
quanti ne nutre il mar, quanti nel fonte
del nettare lassù bagnan la fronte.
Primamente cantar l'opre d'Amore;
non del figliuol di Venere impudico,
che tiranno dell'alme feritore
la virtù calca di ragion nimico;
ma delle cose Amor generatore
il più bello de' numi ed il più antico,
che forte in sua possanza alta infinita
pria del tempo e del moto ebbe la vita.
Ei del caòsse sulla faccia oscura
le dorate spiegò purpuree penne,
e d'Amor l'aura genitrice e pura
scaldò l'abisso e fecondando il venne.
Del viver suo la vergine Natura
i fremiti primieri allor sostenne,
e da quell'ombre già pregnanti e rotte
l'Erebo nacque e la pensosa Notte.
Poi la Notte d'amor l'almo disìo
sentì pur ella, e all'Erebo mischiosse;
e dolce un tremor diede e concepìo,
e doppia prole dal suo grembo scosse;
il Giorno, io dico, luminoso e dio,
e l'Etere che lieve intorno mosse;
onde i semi si svolsero dell'acque,
della terra, del fuoco, e il mondo nacque.
Quindi la Terra all'Etere si giunse
mirabilmente, e partorinne il Cielo,
il Ciel che d'astri il manto si trapunse
per farne al volto della madre un velo.
Ed ella allor più bei sembianti assunse:
l'erbe, i fior si drizzaro in su lo stelo;
chiomarsi i boschi, scaturiro i fonti,
giacquer le valli, e alzar la testa i monti.
Forte muggendo allor le sue profonde
sacre correnti l'Oceàn diffuse,
e maestoso colle fervid'onde
circondò l'Orbe, e in grembo lo si chiuse.
Poi con alti imenei nelle feconde
braccia di Teti antica dea s'infuse
e di Proteo fatidico la feo
e di Doride madre e di Nereo,
e dei fiumi taurini e dei torrenti,
e di molte magnanime donzelle,
cui del cielo son noti i cangiamenti
e del sol le fatiche e delle stelle
Predir sann'anco lo spirar de' venti
e il destarsi e il dormir delle procelle,
san come il tuono il suo ruggito metta
e le prest'ale il lampo e la saetta.
San quale occulta formidabil esca
pasce i cupi tremuoti e li commove;
san qual forza i vapori in alto adesca
e dell'arsa gran madre in sen li piove
come il flutto si gonfi e poi decresca,
e cento di natura arcane prove;
ché natura alle vaghe Oceanine
tutte le sue rivela opre divine.
E son tremila, di che il grembo ha pieno,
del canuto Oceàn l'alme figliuole,
che l'etiopio pelago e il tirreno
fanno spumar con libere carole.
Ed altre dell'Egeo fendono il seno,
altre quell'onda in cui si corca il sole,
là dove Atlante lo stridore ascolta
del gran carro febeo che in mar dà volta.
Altre ad aprir conchiglie, altre si dànno
dai vivi scogli a svellere coralli;
per le liquide vie tal altre vanno
frenando verdi alipedi cavalli
Qual tesse ad un Triton lascivo inganno,
qual gl'invola la conca: e canti e balli
e di palme un gran battere e di piedi
tutte assorda le cave umide sedi.
Così cantar dell'orbe giovinetto,
gli alti esordii le Muse e l'incremento;
e un insolito errava almo diletto
sul cor de' numi all'immortal concento.
Poi disser come dal profondo petto
la Terra suscitò nuovo portento a,
col Ciel marito nequitosa e rea,
che i suoi figli, crudel, spenti volea.
Quindi i Titani di cor fero ed alto
con parto ella creò nefando e diro
congiurati con Oto ed Efialto
ad espugnar l'intemerato Empiro.
La gioventù superba al grande assalto
con grande orgoglio e gran possanza usciro,
e fragorosa la terra tremava
sotto i vasti lor passi, e il mar mugghiava.
Ma Piracmon dall'altra parte e Bronte,
co' lor fratelli affumicati e nudi,
sudor gocciando dall'occhiuta fronte
per la selva de' petti ispidi e rudi,
cupamente facean l'eolio monte e
gemere al suon delle vulcanie incudi,
i fulmini temprando onde far guerra
Giove ai figli dovea dell'empia Terra.
Tutte di ferro esercitato e greve
son l'orrende saette; ed ogni strale
tre raggi in sé di grandine riceve
e tre d'elementar foco immortale,
tre di rapido vento e tre ne beve
d'acquosa nube, e larghe in mezzo ha l'ale.
Poi di lampi una livida mistura,
e di tuoni vi cola e di paura;
e di furie e di fiamme e di fracasso
che tutto introna orribilmente il mondo.
Prende il nume quest'arme e move il passo:
il ciel s'incurva e par che manchi al pondo.
Sentinne il re Pluton l'alto conquasso,
e gli occhi alzò smarrito e tremebondo;
ché le volte di bronzo e i ferrei muri
all'impeto stimò poco securi.
Da' fulmini squarciata e tutta in foco
stride la terra per immensa doglia.
Rimbombano le valli, e caldo e roco
con fervide procelle il mar gorgoglia.
Vincitrice, di Giove in ogni loco
la vendetta s'aggira; e par che voglia
sotto il carco de' numi il gran convesso
slegarsi tutto dell'Olimpo oppresso.
E in cielo e in terra e tra la terra e il cielo
tutto e' vampa e ruina e fumo e polve.
Fugge smarrita del signor di Delo
la luce, e indietro per terror si volve.
Fugge avvolta ogni stella in fosco velo,
ed urtasi ogni sfera e si dissolve:
e immoto nell'orribile frastuono
non riman che del Fato il ferreo trono.
Ma coraggio non perde la terrestre
stirpe, né par che troppo le ne caglia.
Di divelte montagne arman le destre,
e fan con rupi e scogli la battaglia.
Odonsi cigolar sotto l'alpestre
peso le membra, e ognun fatica e scaglia.
Tre volte a all'arduo ciel diero la scossa,
sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.
E tre volte il gran padre fulminando,
spezzò gl'imposti monti e li disperse,
e dalle stelle mal tentate in bando
nel Tartaro cacciò le squadre avverse:
nove giorni le venne in giù rotando,
e nel decimo al fondo le sommerse;
orribil fondo d'ogni luce muto,
che da perpetui venti è combattuto.
E tanto della terra al centro scende,
quanto lunge
dal ciel scende la terra.
Di pianto in mezzo una fiumana il fende,
di ferro intorno una muraglia il serra:
e di ferro son pur le porte orrende
che Nettuno vi pose in quella guerra.
I Titani là dentro eterna e nera
mena in volta la pioggia e la bufera.
Ivi Giapeto si rivolve e Ceo,
e l'altra turba che i celesti assalse;
ivi Gige, ivi Coto e Briareo
cui la forza centimana non valse.
Fuor dell'atra prigion restò Tifeo a,
ch'altramente punirlo a Giove calse:
su l'ineffabil mostro in giù travolto
lanciò Sicilia tutta; e non fu molto.
Peloro la diritta e gli comprime
Pachin la manca e Lilibeo le piante:
schiaccia l'immensa fronte Etna sublime,
di fornaci e d'incudi Etna tonante.
Quindi come il dolor dal petto esprime
e mutar tenta il fianco il gran gigante,
fumo e foco dal sen mugghiando erutta.
Ne trema il monte e la Trinacria tutta.
Del sacrilego ardir sortì compagna
Encelado a Tifeo la pena e il loco.
Gli altri sulla flegrea vasta campagna a
rovesciati esalar di Giove il foco:
Ond'ivi ancor la valle e la montagna
mandan fumo e rumor funesto e roco.
Della divina Creta alcun satolle
fe' del suo sangue le feconde zolle.
E tu pur desti agli empii sepoltura,
terribile Vesevo e, che la piena
versi rugghiando di tua lava impura
vicino ahi troppo! alla regal Sirena.
Deh sul giardin d'Italia e di natura
i tuoi torrenti incenditori affrena;
e questa d'Acheloo leggiadra figlia
non far che per te meste abbia le ciglia.
Poco è forse alla misera il tiranno
giogo che il collo già le curva e doma,
e incatenata il piè, carca d'affanno
indarno sospirar sotto la soma,
se fecondo tu pur di strazio e danno
il manto non le bruci e l'aurea chioma?
Deh non crescer ferite al suo bel volto:
Pompea ti basti ed Ercolan sepolto.
Il sacro delle Muse almo concento
del ciel rapiti gli ascoltanti avea.
Tacean le dive; e desioso e attento
ogni nume l'orecchio ancor porgea.
Del nettare il ruscello i piè d'argento
fermare anch'esso per udir parea,
e lungo l'immortal santissim'onda
né fior l'aure agitavano né fronda.
Qual dell'alba discende il queto umore
sull'erbe sitibonde in piaggia aprica,
tal discese agli dèi dolce sul core
la rimembranza della gloria antica.
Rammentò ciaschedun del suo valore
in quel duro certame la fatica.
Polibote a Nettuno e gli Aloìdi
di gran vanto fur campo ai Latonìdi.
Favellò del crudel Porfirione,
alto scotendo la fulminea clava,
l'indomato figliuol d'Anfitrione,
e con superbo incesso il capo alzava.
Ma delle Muse l'immortal canzone
te più ch'altri, o Minerva, dilettava,
te che il primo recasti, o dea tremenda,
soccorso al padre nella pugna orrenda.
Né alle sacre cavalle, in mar tergesti
i polverosi fianchi insanguinati,
né il gradito a gustar le conducesti
fresco trifoglio a ne' cecropii prati,
s'ai Terrigeni in pria morder non festi
la sabbia in Flegra, e non fur pieni i fati,
i fati che ponean Giove in periglio
senza il braccio d'Alcide, e il tuo consiglio.
Così gl'immani anguipedi pagaro
di lor nefanda scelleranza il fio;
ai superbi così costar fe' caro
quel famoso ardimento il maggior dio.
Egra la Terra in tanto caso avaro
ai caduti suoi figli il grembo aprìo,
e di cocenti lagrime cosparse
le lor gran membra rosseggianti ed arse.
E ardea pur ella, e i folti incenerire
sul capo si sentìa verdi capelli
dal fulmine combusti e in sen bollire
l'alte vene de' fiumi e de' ruscelli:
in sospiri esalava il suo soffrire,
gli occhi alzando offuscati e non più quelli:
volea pregar, ma vinta dal vapore
la debil voce ricadea nel core.
Le volse un guardo di Saturno il figlio,
pietà n'ebbe, e le folgori depose,
e tornò col chinar del sopracciglio
il primo volto alle create cose.
Scorse le sfere col divin consiglio
e la rotta armonia ne ricompose,
alla traccia dell'orbite smarrite
richiamando le stelle impaurite.
Scorse la terra, ed alle piante uccise
ricondusse la vita e ai morti fiori;
e fuor di sue latebre il capo mise
il fonte e sciolse i trepidanti umori.
Tu il mar scorresti ancora, e il mar sorrise,
posti in silenzio i fremiti sonori.
Sdegnato lo guardasti, ed ei sdegnossi:
lo guardasti placato, ed ei placossi.
Salve, massimo Giove: o che vaghezza
d'errar ti prenda per gli eterei campi
sul carro in che Giustizia e Robustezza
sublime ti locar fra tuoni e lampi;
o che deposta la regal grandezza
pel nativo Liceo a l'orma tu stampi;
o le melie nutrici e la contrada
della tua Creta visitando vada;
o, le parlanti querce dodonee
e di Libia lasciando le cortine,
nel sen ti piaccia delle selve Idee
le stanche riposar membra divine;
o colle Muse su le rote elee
ir d'olimpica polve asperso il crine,
mentre il canto teban l'aquila molce
che su l'aureo tuo scettro in piè si folce:
tu beato, tu saggio e onnipossente,
e degli uomini padre e degli dèi:
tu provvida del mondo anima e mente,
tu regola de' casi o fausti o rei:
a te cade la pioggia obbediente:
a te son ligi i dì sereni e bei:
a te consorte è Temi e Palla è figlia,
e da te scende il saggio e ti somiglia.
Sacri sono a Gradivo i buon guerrieri,
gli artefici a Vulcano, a Febo i vati;
a Cinzia i cacciator selvaggi e feri
della sposa fedel dimenticati;
de' popoli a te, Giove, i condottieri,
e tu la mente ne governi e i fati.
Deh! l'anime supreme, in cui s'affida
l'itala libertà, soccorri e guida.
Soccorri Ausonia, che le oneste gote
di nuova vita colorando viene,
e il crin nell'elmo a chiuder torna e scuote
l'asta, i ceppi gittando e le catene.
Aìtala, gran padre; e a te devote
tante l'are arderan su queste arene,
che men poscia ti fia dolce e gradito
degli Etiòpi l'ospital convito.
Tu, magnanimo eroe, che alla dolente
dell'antico servaggio hai franti i ferri,
che in frale umana spoglia alteramente
il coraggio di un dio palesi e serri,
tu che forte del brando e della mente
l'umil sollevi ed il superbo atterri,
la ben comincia impresa alfin consuma,
e sii d'Ausonia l'Alessandro e il Numa.
Vedila, ahi lassa!, che di caldo rio
bagna la guancia vereconda e casta,
e nel seno t'addita augusto e pio
il solco ancor della vandalic'asta.
Assai pagò la dolorosa il fio
d'antiche colpe che l'han doma e guasta:
deh! più non la percota antica spada,
ché non v'ha parte intatta ov'ella cada.
Ma di leggi dotarla, e le disciolte
membra legarle in un sol nodo e stretto,
ed impedir che di sue genti molte
un mostro emerga che le squarci il petto,
e l'aquila frenar che l'ugne ha volte
contro il suo fianco e l'empie di sospetto,
sia questa, o salvator forte guerriero,
la tua gloria più cara e il tuo pensiero.
E voi di tanta madre incliti figli,
fratelli, i preghi della madre udite.
Di sentenza disgiunti e di consigli,
che sperate, infelici? e cui tradite?
Una, deh!, sia la patria, e ne' perigli
uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite.
Del discorde voler che vi scompagna
deh non rida, per Dio!, Roma e Lamagna.