Edizione Italiana
    Library / Literary Works

    Vincenzo Monti

    La Musogonia

    Cor di ferro ha nel petto, alma villana
    chi fa de' carmi alla bell'arte oltraggio,
    arte figlia del cielo, arte sovrana,
    voce di Giove e di sua mente raggio.
    O Muse, o sante dee, la vostra arcana
    origine vuo' dir con pio linguaggio,
    se mortal fantasia troppo non osa
    prendendo incarco di celeste cosa.

    Ma come in pria v'invocherò? Tespìadi
    dovrò forse nomarvi o Aganippee?
    O titolo di caste Eliconìadi
    più vi diletta o di donzelle Ascree?
    So che ninfe Castalie e Citerladi
    chiamarvi anco vi piace e Pegasee;
    e vostro sulle rive d'Ippocrene
    di Pleridi e il nome e di Camene.

    Qualunque suoni a voi più dolce al core
    di sì care memorie, a me venite;
    e qual fuvvi tra' numi il genitore
    e qual la madre tra le dee mi dite:
    ché ben privo è di senno e mentitore
    chi di seme mortal vi stima uscite;
    né Sicion a sue figlie or più vi chiama,
    né d'Osiride serve invida fama.

    Ma il maggior degli dèi, l'onnipossente
    Giove di nembi adunator v'è padre,
    e a lui vi partorì diva prudente
    Mnemosine di forme alme e leggiadre;
    diva del cor maestra e della mente,
    e del caro pensier custode e madre,
    all'Erebo nipote, e della bei la
    Temi e del biondo Iperion sorella.

    Reina della fertile Eleutera
    sovente errava la titania dea
    per la selva beota, e di Plera
    visitava le fonti e di Pimplea.
    Sotto il suo piè fiorìa la primavera;
    e giacinti e melisse ella cogliea,
    amor d'eteree nari, e quel che verno
    unqua non teme, l' amaranto eterno.

    Il timo e la viola, onde il bel suolo
    soavemente d'ogni parte oliva
    va depredando la sua mano, e solo,
    solo del loto e del narciso e' schiva;
    ché argomento amendue di sonno e duolo
    crescon di Lete su la morta riva,
    ed uno di Morfeo le tempie adombra,
    l'altro il crin bianco delle Parche ingombra.

    Fiori adunque mietea l' avventurosa
    ilari e vivi, e se 'n dolea 'l terreno:
    ella sovente un'infiammata rosa
    al labbro accosta ed un ligustro al seno;
    e il candor del ligustro e l'amorosa
    de' fior reina al paragon vien meno,
    e dir sembra: Colei non è sì vaga
    che vermiglia mi fe' colla sua piaga

    Ma la varia beltate, onde natura
    le rive adorna de' ruscelli e il prato,
    l'antica non potea superba cura
    acchetar, di che porta il cor piagato.
    Incessante la punge ed aspra e dura
    la memoria del cielo abbandonato,
    alla cara pensando olimpia sede
    venuta in preda di tiranno erede.

    Quindi nell'alto della mente infissi
    stanle i fratelli al Tartaro sospinti,
    ivi in quei tenebrosi ultimi abissi
    dal fiero Giove di catene avvinti.
    E molto è già che in quell'orror son vissi,
    né gli sdegni lassù son anco estinti;
    ché nuova tirannia sta sempre in tema,
    e cruda è sempre tirannia che trema.

    Arroge, che del suo minor germano
    novella più non intendea, da quando
    re Giove usurpator figlio inumano
    dal tolto Olimpo lo respinse in bando;
    né sapea che Saturno iva di Giano
    per le quete contrade occulto errando,
    ai nepoti d'Enotro a,
    al Lazio amico,
    del secol d'oro portator mendico.

    In tante d'odio e d'ira e di cordoglio
    altissime cagioni ella smarrito
    del gran titanio sangue avea l'orgoglio;
    e fior parea depresso, abbrividito,
    quando soffiar dall'iperboreo scoglio
    si sente d'Orizìa l'aspro marito,
    e tutta carca di soverchia brina
    l'odorosa famiglia il capo inchina.

    Sol che il nome tremendo oda talvolta
    del saturnio signor la sconsolata
    tutta nel volto turbasi, e per molta
    paura indietro palpitando guata.
    Ma che? la Parca indietro era già volta,
    e decreto correa che alfin placata
    del patrio ciel ricalcherìa le soglie
    Mnemosine di Giove amante e moglie.

    Sotto vergine lauro un giorno assisa
    di Piera ei la vede alla sorgente.
    La vede; e d'amor pronta ed improvvisa
    per le vene la fiamma andar si sente,
    e dalle vene all'ossa; in quella guisa
    che d'autunno balen squarcia repente
    la fosca nube e con veloce riga
    di lucido meandro i nembi irriga.

    Per quell'almo adempir dolce disìo
    che Venere gli pose in mezzo al core,
    che farà il caldo innamorato iddio?
    Che far dovrà, che gli consigli, Amore?
    Amor, che già scendea propizio e pio,
    manifestossi in quella all'amatore;
    e gli sorrise così caro un riso,
    che di dolcezza un sasso avrìa diviso.

    Ed umile pigliar sembianza e panno a
    l'esortò di pastore e portamento.
    Villano e illiberal parea l'inganno
    al gran Tonante, e ne movea lamento.
    Oh! gli rispose quel fanciul tiranno,
    oh! che dirai, superbo e frodolento,
    quando giovenco gli agenorei liti
    empirai di querele e di muggiti?

    Quando di serpe vestirai la squamma,
    e or d'aquila le piume ora di cigno?
    Quando pioggia sarai, quando una fiamma,
    e l'erba calcherai con piè caprigno?
    Sì dicendo lo tocca e più l'infiamma,
    e il bel labbro risolve in un sogghigno.
    Pensoso intanto di Saturno il figlio
    né mover chioma si vedea né ciglio.

    Stavansi muti al suo silenzio i venti,
    muta stava la terra e il mar profondo;
    languìa la luce delle sfere ardenti,
    parea sospesa l'armonia del mondo.
    Allor l'idalio dio delle roventi
    folgori gli togliea di mano il pondo,
    arme fatali che trattar sol osa
    Giove e Palla Minerva bellicosa.

    Ed or le tratta Amore, e nella mano
    guizzar le sente irate a, e non le teme;
    e appiè d'un'elce
    le depon sul piano,
    che tocco fuma, e l'elce suda e geme.
    Ne pute l'aria intorno e da lontano
    invita i nembi; e roco il vento freme,
    dir sembrando: Mortal, vattene altrove,
    ché il fulmine tremendo e' qui di Giove.

    Fatto inerme così l'egìoco nume
    tutta deposta la sembianza altera,
    di pastorel beoto il volto assume,
    e questa di sue frodi è la primiera.
    S'avvìa lunghesso il solitario fiume:
    la selva si rallegra e la riviera,
    e del dio che s'appressa accorta l'onda
    più loquace a baciar corre la sponda.

    Guida al fervido amante è quell'alato
    garzon che l'alme a suo piacer corregge,
    contro cui poco s'assecura il fato,
    il fato a cui talor rompe la legge.
    Egli alla diva l'appresenta, e aurato
    dardo allor tolto dalla cote elegge;
    e al vergin fianco di tal forza tira,
    ch'ella tutta ne trema e ne sospira.

    Loda il volto gentil, le rubiconde
    floride guance e il bel tornito collo;
    loda le braccia vigorose e tonde,
    e l'omero che degno era d'Apollo;
    bel sorriso, bel guardo, e vereconde
    care parole, e tutto alfin lodollo.
    Amor sì dolce le ragiona al core,
    che in lui questo pur loda, esser pastore.

    Verrà poscia stagion ch'altre due dive
    faran la scusa del suo basso affetto,
    quando Anchise del Xanto in su le rive
    e quel vago d'Arabia giovinetto
    famoso incesto delle fole argive,
    la dea più bella stringeransi al petto;
    e sul sasso di Latmo Endimione
    vendicherà Callisto ed Atteone.

    In poter dunque di due tanti dèi
    congiurati in suo danno, Amore e Giove,
    cess'ella al frodo, e castitate a lei
    porse l'ultimo bacio, e mosse altrove.
    Forniro il letto allegri fiori e bei
    spontaneo–nati ed erbe molli e nuove
    e intonar consapevoli gli augelli
    il canto nuzial fra gli arboscelli.

    Facean tenore alle lor dolci rime
    l'aure fra i muti e ancor non dotti allori,
    e il vicino Parnaso ambe le cime
    scotea, presago de' futuri onori.
    Le scotea Pindo ed Elicon sublime,
    che i lor boschi sentian farsi canori;
    e Temide di Vesta in compagnia
    dall'antro a Febo già dovuto uscìa.

    Tre volte e sei l'onnipossente padre
    della figlia d'Urano in grembo scese,
    ed altrettante avventurosa madre
    di magnanima prole il dio la rese:
    di nove io dico vergini leggiadre,
    del canto amiche e delle belle imprese:
    Melpomene che grave il cor conquide,
    e Talìa che l'error flagella e ride;

    Calliopea che sol co' forti vive,
    ed or ne canta la pietade or l'ira;
    Euterpe amante delle doppie pive,
    e Polinnia del gesto e della lira;
    Tersicore che salta, e Clio che scrive,
    Erato che d'amor dolce sospira;
    ed Urania che gode le carole
    temprar degli astri ed abitar nel sole.

    A toccar cetre, a tesser canti e balli
    si dier concordi l'inclite donzelle,
    e pei larghi del ciel fulgidi calli
    al padre s'avviar festose e belle.
    Dalle rupi ascendeva e dalle valli
    il soave concento all'auree stelle,
    e l'ineffabil melodia le note
    rendea men dolci dell'eteree rote.

    Tacquero vinte al canto pellegrino
    le nove delle sfere alme sirene,
    quelle che viste da Platon divino
    cingono il ciel d'armoniche catene.
    e già l'olenio raggio era vicino,
    e in nubi avvolta di tempesta piene
    la gran porta apparìa, donde ritorno
    fan gl'immortali all'immortal soggiorno.

    Alla prole di Temi, alle vermiglie
    ore l'ingresso i fati ne fidaro,
    pria che lor poste in man fosser le briglie
    del carro che a Feton costò sì caro.
    Per questa di Mnemosine le figlie
    carolando e cantando oltrepassaro,
    e bisbigliar di giubilo improvviso
    fer la cittade dell'eterno riso.

    Dagli alberghi di solido adamante
    tutta de' numi la famiglia uscìa,
    e dell'empiro fervida e sonante
    sotto i piedi immortali era la via.
    All'affollarsi, al premere di tante
    eteree salme cupo si sentìa
    tremar l'Olimpo; e nel segreto petto
    Giove un immenso ne prendea diletto.

    Alle nuove del cielo cittadine
    surse dal trono; per la man le strinse,
    e le care baciò fronti divine
    come paterna tenerezza il vinse.
    Poi diè lor d'oro il seggio e di reine
    l'adornamento, e il crin di lauro avvinse,
    d'eterno lauro che d'accanto all'onda
    del nettare dispiega alto la fronda.

    Strada e lassù regal sublime e bianca,
    che dal giunonio latte il nome toglie:
    de' più possenti numi a destra e a manca
    vi son gli alberghi con aperte soglie.
    Ma dove più del ciel la luce è stanca
    confuso il volgo degli dèi s'accoglie:
    le Nebbie erran laggiù canute i crini,
    e l'ignee Nubi delle nebbie affini,

    e i Turbini rapaci, e le Tempeste
    co' Zefiri che l'ali han di farfalle,
    tal menando un rumor che la celeste
    ne risuona da lunge ampia convalle.
    Un più liquido lume infiora e veste
    le sponde intanto di quel latteo calle.
    ivi i palagi del Tonante sono,
    ivi le ròcche tutte d'oro e il trono.

    Ed in questa del ciel parte migliore
    Giove accolse le Muse, e alle pudiche
    liberal concedette il genitore
    splendide case eternamente apriche:
    a cui d'accanto la magion d'Amore
    sorge con quella delle Grazie amiche,
    dive senza il cui nume opra e favella
    nulla è che piaccia e nulla cosa è bella.

    Fra le Grazie e Cupido e le Camene
    dolce allor d'amistà patto si feo.
    Poi qual pegno d'amor a più si conviene
    ogni nume lor porse; il Tegeèo
    le sette amate disuguali avene;
    Ciprigna il mirto; i pampini Lieo;
    e a Melpomene fiera il forte Alcide
    donar l'insegna del valor si vide.

    Venne Mercurio, e alle fanciulle offerse
    la prima lira, di sua man costrutta:
    Apollo venne, e del futuro aperse
    il chiuso libro e la scienza tutta:
    Pito ancor essa a, onde il bel dire emerse,
    le Muse a salutar si fu condutta,
    e l'arte insegnò lor dolce e soave
    che dell'alma e del cor volge la chiave.

    Più volubili allor l'inclite dive
    mandar dal labbro d'eloquenza i fiumi;
    allor con voci più sonanti e vive
    la densa celebrar stirpe de' numi;
    quanti le selve e de' ruscei le rive
    e de' monti frequentano i cacumi,
    quanti ne nutre il mar, quanti nel fonte
    del nettare lassù bagnan la fronte.

    Primamente cantar l'opre d'Amore;
    non del figliuol di Venere impudico,
    che tiranno dell'alme feritore
    la virtù calca di ragion nimico;
    ma delle cose Amor generatore
    il più bello de' numi ed il più antico,
    che forte in sua possanza alta infinita
    pria del tempo e del moto ebbe la vita.

    Ei del caòsse sulla faccia oscura
    le dorate spiegò purpuree penne,
    e d'Amor l'aura genitrice e pura
    scaldò l'abisso e fecondando il venne.
    Del viver suo la vergine Natura
    i fremiti primieri allor sostenne,
    e da quell'ombre già pregnanti e rotte
    l'Erebo nacque e la pensosa Notte.

    Poi la Notte d'amor l'almo disìo
    sentì pur ella, e all'Erebo mischiosse;
    e dolce un tremor diede e concepìo,
    e doppia prole dal suo grembo scosse;
    il Giorno, io dico, luminoso e dio,
    e l'Etere che lieve intorno mosse;
    onde i semi si svolsero dell'acque,
    della terra, del fuoco, e il mondo nacque.

    Quindi la Terra all'Etere si giunse
    mirabilmente, e partorinne il Cielo,
    il Ciel che d'astri il manto si trapunse
    per farne al volto della madre un velo.
    Ed ella allor più bei sembianti assunse:
    l'erbe, i fior si drizzaro in su lo stelo;
    chiomarsi i boschi, scaturiro i fonti,
    giacquer le valli, e alzar la testa i monti.

    Forte muggendo allor le sue profonde
    sacre correnti l'Oceàn diffuse,
    e maestoso colle fervid'onde
    circondò l'Orbe, e in grembo lo si chiuse.
    Poi con alti imenei nelle feconde
    braccia di Teti antica dea s'infuse
    e di Proteo fatidico la feo
    e di Doride madre e di Nereo,

    e dei fiumi taurini e dei torrenti,
    e di molte magnanime donzelle,
    cui del cielo son noti i cangiamenti
    e del sol le fatiche e delle stelle
    Predir sann'anco lo spirar de' venti
    e il destarsi e il dormir delle procelle,
    san come il tuono il suo ruggito metta
    e le prest'ale il lampo e la saetta.

    San quale occulta formidabil esca
    pasce i cupi tremuoti e li commove;
    san qual forza i vapori in alto adesca
    e dell'arsa gran madre in sen li piove
    come il flutto si gonfi e poi decresca,
    e cento di natura arcane prove;
    ché natura alle vaghe Oceanine
    tutte le sue rivela opre divine.

    E son tremila, di che il grembo ha pieno,
    del canuto Oceàn l'alme figliuole,
    che l'etiopio pelago e il tirreno
    fanno spumar con libere carole.
    Ed altre dell'Egeo fendono il seno,
    altre quell'onda in cui si corca il sole,
    là dove Atlante lo stridore ascolta
    del gran carro febeo che in mar dà volta.

    Altre ad aprir conchiglie, altre si dànno
    dai vivi scogli a svellere coralli;
    per le liquide vie tal altre vanno
    frenando verdi alipedi cavalli
    Qual tesse ad un Triton lascivo inganno,
    qual gl'invola la conca: e canti e balli
    e di palme un gran battere e di piedi
    tutte assorda le cave umide sedi.

    Così cantar dell'orbe giovinetto,
    gli alti esordii le Muse e l'incremento;
    e un insolito errava almo diletto
    sul cor de' numi all'immortal concento.
    Poi disser come dal profondo petto
    la Terra suscitò nuovo portento a,
    col Ciel marito nequitosa e rea,
    che i suoi figli, crudel, spenti volea.

    Quindi i Titani di cor fero ed alto
    con parto ella creò nefando e diro
    congiurati con Oto ed Efialto
    ad espugnar l'intemerato Empiro.
    La gioventù superba al grande assalto
    con grande orgoglio e gran possanza usciro,
    e fragorosa la terra tremava
    sotto i vasti lor passi, e il mar mugghiava.

    Ma Piracmon dall'altra parte e Bronte,
    co' lor fratelli affumicati e nudi,
    sudor gocciando dall'occhiuta fronte
    per la selva de' petti ispidi e rudi,
    cupamente facean l'eolio monte e
    gemere al suon delle vulcanie incudi,
    i fulmini temprando onde far guerra
    Giove ai figli dovea dell'empia Terra.

    Tutte di ferro esercitato e greve
    son l'orrende saette; ed ogni strale
    tre raggi in sé di grandine riceve
    e tre d'elementar foco immortale,
    tre di rapido vento e tre ne beve
    d'acquosa nube, e larghe in mezzo ha l'ale.
    Poi di lampi una livida mistura,
    e di tuoni vi cola e di paura;

    e di furie e di fiamme e di fracasso
    che tutto introna orribilmente il mondo.
    Prende il nume quest'arme e move il passo:
    il ciel s'incurva e par che manchi al pondo.
    Sentinne il re Pluton l'alto conquasso,
    e gli occhi alzò smarrito e tremebondo;
    ché le volte di bronzo e i ferrei muri
    all'impeto stimò poco securi.

    Da' fulmini squarciata e tutta in foco
    stride la terra per immensa doglia.
    Rimbombano le valli, e caldo e roco
    con fervide procelle il mar gorgoglia.
    Vincitrice, di Giove in ogni loco
    la vendetta s'aggira; e par che voglia
    sotto il carco de' numi il gran convesso
    slegarsi tutto dell'Olimpo oppresso.

    E in cielo e in terra e tra la terra e il cielo
    tutto e' vampa e ruina e fumo e polve.
    Fugge smarrita del signor di Delo
    la luce, e indietro per terror si volve.
    Fugge avvolta ogni stella in fosco velo,
    ed urtasi ogni sfera e si dissolve:
    e immoto nell'orribile frastuono
    non riman che del Fato il ferreo trono.

    Ma coraggio non perde la terrestre
    stirpe, né par che troppo le ne caglia.
    Di divelte montagne arman le destre,
    e fan con rupi e scogli la battaglia.
    Odonsi cigolar sotto l'alpestre
    peso le membra, e ognun fatica e scaglia.
    Tre volte a all'arduo ciel diero la scossa,
    sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.

    E tre volte il gran padre fulminando,
    spezzò gl'imposti monti e li disperse,
    e dalle stelle mal tentate in bando
    nel Tartaro cacciò le squadre avverse:
    nove giorni le venne in giù rotando,
    e nel decimo al fondo le sommerse;
    orribil fondo d'ogni luce muto,
    che da perpetui venti è combattuto.

    E tanto della terra al centro scende,
    quanto lunge
    dal ciel scende la terra.
    Di pianto in mezzo una fiumana il fende,
    di ferro intorno una muraglia il serra:
    e di ferro son pur le porte orrende
    che Nettuno vi pose in quella guerra.
    I Titani là dentro eterna e nera
    mena in volta la pioggia e la bufera.

    Ivi Giapeto si rivolve e Ceo,
    e l'altra turba che i celesti assalse;
    ivi Gige, ivi Coto e Briareo
    cui la forza centimana non valse.
    Fuor dell'atra prigion restò Tifeo a,
    ch'altramente punirlo a Giove calse:
    su l'ineffabil mostro in giù travolto
    lanciò Sicilia tutta; e non fu molto.

    Peloro la diritta e gli comprime
    Pachin la manca e Lilibeo le piante:
    schiaccia l'immensa fronte Etna sublime,
    di fornaci e d'incudi Etna tonante.
    Quindi come il dolor dal petto esprime
    e mutar tenta il fianco il gran gigante,
    fumo e foco dal sen mugghiando erutta.
    Ne trema il monte e la Trinacria tutta.

    Del sacrilego ardir sortì compagna
    Encelado a Tifeo la pena e il loco.
    Gli altri sulla flegrea vasta campagna a
    rovesciati esalar di Giove il foco:
    Ond'ivi ancor la valle e la montagna
    mandan fumo e rumor funesto e roco.
    Della divina Creta alcun satolle
    fe' del suo sangue le feconde zolle.

    E tu pur desti agli empii sepoltura,
    terribile Vesevo e, che la piena
    versi rugghiando di tua lava impura
    vicino ahi troppo! alla regal Sirena.
    Deh sul giardin d'Italia e di natura
    i tuoi torrenti incenditori affrena;
    e questa d'Acheloo leggiadra figlia
    non far che per te meste abbia le ciglia.

    Poco è forse alla misera il tiranno
    giogo che il collo già le curva e doma,
    e incatenata il piè, carca d'affanno
    indarno sospirar sotto la soma,
    se fecondo tu pur di strazio e danno
    il manto non le bruci e l'aurea chioma?
    Deh non crescer ferite al suo bel volto:
    Pompea ti basti ed Ercolan sepolto.

    Il sacro delle Muse almo concento
    del ciel rapiti gli ascoltanti avea.
    Tacean le dive; e desioso e attento
    ogni nume l'orecchio ancor porgea.
    Del nettare il ruscello i piè d'argento
    fermare anch'esso per udir parea,
    e lungo l'immortal santissim'onda
    né fior l'aure agitavano né fronda.

    Qual dell'alba discende il queto umore
    sull'erbe sitibonde in piaggia aprica,
    tal discese agli dèi dolce sul core
    la rimembranza della gloria antica.
    Rammentò ciaschedun del suo valore
    in quel duro certame la fatica.
    Polibote a Nettuno e gli Aloìdi
    di gran vanto fur campo ai Latonìdi.

    Favellò del crudel Porfirione,
    alto scotendo la fulminea clava,
    l'indomato figliuol d'Anfitrione,
    e con superbo incesso il capo alzava.
    Ma delle Muse l'immortal canzone
    te più ch'altri, o Minerva, dilettava,
    te che il primo recasti, o dea tremenda,
    soccorso al padre nella pugna orrenda.

    Né alle sacre cavalle, in mar tergesti
    i polverosi fianchi insanguinati,
    né il gradito a gustar le conducesti
    fresco trifoglio a ne' cecropii prati,
    s'ai Terrigeni in pria morder non festi
    la sabbia in Flegra, e non fur pieni i fati,
    i fati che ponean Giove in periglio
    senza il braccio d'Alcide, e il tuo consiglio.

    Così gl'immani anguipedi pagaro
    di lor nefanda scelleranza il fio;
    ai superbi così costar fe' caro
    quel famoso ardimento il maggior dio.
    Egra la Terra in tanto caso avaro
    ai caduti suoi figli il grembo aprìo,
    e di cocenti lagrime cosparse
    le lor gran membra rosseggianti ed arse.

    E ardea pur ella, e i folti incenerire
    sul capo si sentìa verdi capelli
    dal fulmine combusti e in sen bollire
    l'alte vene de' fiumi e de' ruscelli:
    in sospiri esalava il suo soffrire,
    gli occhi alzando offuscati e non più quelli:
    volea pregar, ma vinta dal vapore
    la debil voce ricadea nel core.

    Le volse un guardo di Saturno il figlio,
    pietà n'ebbe, e le folgori depose,
    e tornò col chinar del sopracciglio
    il primo volto alle create cose.
    Scorse le sfere col divin consiglio
    e la rotta armonia ne ricompose,
    alla traccia dell'orbite smarrite
    richiamando le stelle impaurite.

    Scorse la terra, ed alle piante uccise
    ricondusse la vita e ai morti fiori;
    e fuor di sue latebre il capo mise
    il fonte e sciolse i trepidanti umori.
    Tu il mar scorresti ancora, e il mar sorrise,
    posti in silenzio i fremiti sonori.
    Sdegnato lo guardasti, ed ei sdegnossi:
    lo guardasti placato, ed ei placossi.

    Salve, massimo Giove: o che vaghezza
    d'errar ti prenda per gli eterei campi
    sul carro in che Giustizia e Robustezza
    sublime ti locar fra tuoni e lampi;
    o che deposta la regal grandezza
    pel nativo Liceo a l'orma tu stampi;
    o le melie nutrici e la contrada
    della tua Creta visitando vada;

    o, le parlanti querce dodonee
    e di Libia lasciando le cortine,
    nel sen ti piaccia delle selve Idee
    le stanche riposar membra divine;
    o colle Muse su le rote elee
    ir d'olimpica polve asperso il crine,
    mentre il canto teban l'aquila molce
    che su l'aureo tuo scettro in piè si folce:

    tu beato, tu saggio e onnipossente,
    e degli uomini padre e degli dèi:
    tu provvida del mondo anima e mente,
    tu regola de' casi o fausti o rei:
    a te cade la pioggia obbediente:
    a te son ligi i dì sereni e bei:
    a te consorte è Temi e Palla è figlia,
    e da te scende il saggio e ti somiglia.

    Sacri sono a Gradivo i buon guerrieri,
    gli artefici a Vulcano, a Febo i vati;
    a Cinzia i cacciator selvaggi e feri
    della sposa fedel dimenticati;
    de' popoli a te, Giove, i condottieri,
    e tu la mente ne governi e i fati.
    Deh! l'anime supreme, in cui s'affida
    l'itala libertà, soccorri e guida.

    Soccorri Ausonia, che le oneste gote
    di nuova vita colorando viene,
    e il crin nell'elmo a chiuder torna e scuote
    l'asta, i ceppi gittando e le catene.
    Aìtala, gran padre; e a te devote
    tante l'are arderan su queste arene,
    che men poscia ti fia dolce e gradito
    degli Etiòpi l'ospital convito.

    Tu, magnanimo eroe, che alla dolente
    dell'antico servaggio hai franti i ferri,
    che in frale umana spoglia alteramente
    il coraggio di un dio palesi e serri,
    tu che forte del brando e della mente
    l'umil sollevi ed il superbo atterri,
    la ben comincia impresa alfin consuma,
    e sii d'Ausonia l'Alessandro e il Numa.

    Vedila, ahi lassa!, che di caldo rio
    bagna la guancia vereconda e casta,
    e nel seno t'addita augusto e pio
    il solco ancor della vandalic'asta.
    Assai pagò la dolorosa il fio
    d'antiche colpe che l'han doma e guasta:
    deh! più non la percota antica spada,
    ché non v'ha parte intatta ov'ella cada.

    Ma di leggi dotarla, e le disciolte
    membra legarle in un sol nodo e stretto,
    ed impedir che di sue genti molte
    un mostro emerga che le squarci il petto,
    e l'aquila frenar che l'ugne ha volte
    contro il suo fianco e l'empie di sospetto,
    sia questa, o salvator forte guerriero,
    la tua gloria più cara e il tuo pensiero.

    E voi di tanta madre incliti figli,
    fratelli, i preghi della madre udite.
    Di sentenza disgiunti e di consigli,
    che sperate, infelici? e cui tradite?
    Una, deh!, sia la patria, e ne' perigli
    uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite.
    Del discorde voler che vi scompagna
    deh non rida, per Dio!, Roma e Lamagna.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2024 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact