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Vincenzo Monti
La visione di Ezechiello
Dedica
In lode dell’abate Francesco Giannotti predicatore in Ferrara. Al cardinale Scipione Borghese legato a latere di Ferrara.
Eminent.mo e Rever.mo Principe.
Le opere insigni non han bisogno di appoggio. Basta il nome di chi le scrisse o il pregio de’ libri per interessare l’attenzione di chiunque. Ma uno scherzo poetico, che nè dal merito della poesia nè dalla età dell’autore e neppur dalla mole può lusingarsi di richiamare a sè l’altrui sguardo, uop’è che porti in fronte l’augusto nome d’un rispettabile Mecenate. Soglion così talvolta gli avveduti architetti negli sconci ed irregolari edifizi ornar più che mai l’esterno aspetto, per interessare con la speciosità almeno della nobil facciata l’occhio del passeggero. Il solo nome d’un graziosissimo principe, che è la delizia di questa città e che rende assai più belle co’ personali suoi pregi le ferme glorie dell’illustre sua famiglia, saprà conciliare a’ miei versi quella benevolenza, che altronde sperano invano. Che se mai questo stesso rende più colpevole la mia arditezza ch’io presenti a V.E. un sì meschino parto de’ miei scarsi talenti; ricordatevi, principe eminentissimo, che i vostri pari non sono mai più gloriosi, che quando sono benefici. Tal che se non basta per mia difesa il nome del chiarissimo oratore che è l’oggetto di questi versi, compiacetevi almeno di voi medesimo che con quell’aria di placidissima serenità che vi brilla sul viso, tacitamente mi faceste coraggio, perchè soddisfacessi un antico mio desiderio di riprotestarmi dinanzi al pubblico tutto col più rispettoso e profondo ossequio
Di Vostra Eminenza,
Ferrara, il 7 aprile 1776,
Umil.mo Dev.mo Obb.mo servo. Vincenzo Monti.
Poema
Et dimisit me in medio campi, qui erat plenus ossibus
(Ezech. XXXVII, 1).
Colà dove il real padre Eridàno
Dai campi ocnei scendendo urta con fiero
Corno la riva alla dritta mano,
A respirar d’un venticel leggiero
I molli fiati che venían dal monte
Mi trassi in compagnia del mio pensiero.
Del chiaro sole mi fería la fronte
Il raggio mattutin, tal che più schietto
Non comparve giammai su l’orizzonte.
Vista sì dolce all’affannato petto
Di mie cure togliea l’aspro tormento,
Insolito spirando almo diletto:
Quando mugghiar dall’aquilone io sento
E repente appressarsi un procelloso
Turbo, forier di notte e di spavento.
Celossi il dì sereno; e al minaccioso
Passar del nembo l’onda risospinta
Si sollevò dall’imo gorgo ascoso.
E quindi in giro strascinata e spinta
Dal vorticoso vento ecco scagliarsi
Nube di lampi incoronata e tinta,
E tutta a me dintorno avvilupparsi,
E in un baleno colle gravi some
Dell’oppresse mie membra alto levarsi.
A quel trabalzo per terror le chiome
Mi si arricciaro: ed io da tergo intanto
Voce sentii, che mi chiamò per nome.
— Scrivi, gridò, quel che tu vedi. — Al santo
Suon di queste parole un terso vetro
Si fe tosto la nube in ogni canto.
Guardai davanti, e mi rivolsi indietro:
E campo d’insepolte inaridite
Ossa m’apparve abbominoso e tetro.
O voi che sani d’intelletto udite
Gli alti portenti e il favellare arcano,
Quel ch’io già scrivo nel pensier scolpite.
Vidi. In aspetto spaventoso e strano
Di scheletri facea l’orrida massa
Funesto ingombro al desolato piano.
L’altere ciglia in riguardarli abbassa
Il fasto umano, e baldanzosa in atto
Morte col piede li calpesta e passa.
Io timido mi stava e stupefatto
All’oggetto feral: quando spiccossi
Un lampo, e corse per l’immenso tratto.
Tremò del ciel la porta, e spalancossi:
S’incurvâr rispettosi i firmamenti:
E dalle sfere un cherubin calossi.
Volò su le robuste ale de’ venti.
Carche di foco e fumo avea le spalle
E un cerchio in fronte di carboni ardenti.
Venìa rotando per l’etereo calle
Di baleni una pioggia; e ritto alfine
Fermossi in mezzo alla tremenda valle.
Ne misurò col guardo ogni confine;
Fe poscia un cenno colla destra: e innante
Uom gli comparve di canuto crine.
Era placido e grave il suo sembiante;
E lunga a lui dagli omeri una vesta
Sacerdotal scendea fino alle piante.
Chinò la faccia riverente onesta
Quell’ignoto ministro. E il cherubino
La mano gli posò sopra la testa;
Poi staccossi dal capo aureo divino
Un acceso carbon diffonditore
Di spirito possente e pellegrino,
E i labbri gli toccò. L’igneo calore
Avvampò su le guance, e via discese
Più violento a ribollir nel core.
E dopo, il portentoso angelo prese
Di mele un favo; e su la bocca intero
Del buon servo lo sciolse e lo distese:
— Parla, quindi gli disse in tuon severo,
Parla a quest’ossa algenti: e riverito
Fia di tua voce il sacrosanto impero. —
Ed egli, ubbidiente alzando il dito,
Gridò: — Sorgete, aridi teschi, or ch’io
E membra e polpe a rivestir v’invito.
Tacque: e tosto un bisbiglio un brulichìo
Ed un cozzar di crani e di mascelle
E di logore tibie allor s’udìo.
Già tu le vedi frettolose e snelle
Ricercarsi a vicenda, e insiem legarne
Le congiunture, e vincolarsi in quelle.
Vedi su l’ossa risalir la carne,
Intumidirsi il ventre, e il corpo tutto
Di liscia pelle ricoperto andarne.
Ma giacea questo ancor vôto ed asciutto
Del vivo spirto, che dal colle eterno
Un dì si trasse a passeggiar sul flutto.
— Che fai, lento? esclamò l’angel superno.
Lo spirto eccitator d’aure viventi
Di queste salme omai chiama al governo. —
Le inspirate di Dio voci possenti
Sciolse l’altro dal labbro: e tosto venne
Quello spirto dai quattro opposti venti.
Sì dolcemente dibattea le penne,
Che soffiando nei corpi a poco a poco
Fe rizzarli su i piedi e li sostenne.
Svegliò nel petto della vita il foco,
Scosse le fibre, ed agitò le vene:
Ed ogni caldo umor corse al suo loco.
Dispensatrice di novella spene
Allor rifulse un’iride tranquilla
Su le vôlte del cielo ampie e serene.
La mia nube d’incontro arde e sfavilla
Di pacifica luce, e mi percuote
D’ineffabili raggi la pupilla.
Più forte intanto s’infiammar le gote
Di lui, che fu dal cherubin prescritto
Operator di sì bell’opre ignote:
E a quelli che, ascoltando il santo editto
Della divina inimitabil voce,
Fatto da morte a vita avean tragitto,
Piantò in faccia un feral tronco di croce;
E nel sembiante scintillò di zelo
Divorator che l’alma investe e cuoce.
Piegossi allor per riverenza il cielo
All’arbore adorato, e curvo agli occhi
Si fe coll’ale il cherubino un velo.
Al grand’esempio inteneriti e tocchi
Di penitenza i figli umilemente
Abbassaro la fronte ed i ginocchi:
E un cupo pianto udissi ed un frequente
Picchiar di petti e un sospirar, che ai numi
Come fumo ascendea d’incenso ardente.
Quindi alzò l’uom di Dio tre volte i lumi,
E favellò. Dal labbro amico e dolce
Gli uscìan soavi d’eloquenza i fiumi;
Qual mattutino venticel che molce
La fresca erbetta, e in margine al ruscello
Lambisce i fiori, li lusinga e folce.
Egli parlò d’un mansueto agnello:
E fu sì mite il suo parlar, che il core
Mi sentii tutto innamorar per quello.
Parlò della pietà del mio signore:
E fu sì caro il suo parlar, che in viso
Spirommi il fiato dell’eterno amore.
Parlò della bontà del paradiso:
E fu sì vago il suo parlar, che attenti
L’udiro i cieli e lampeggiar d’un riso.
D’una madre narrò gli aspri tormenti:
E fu sì mesto il suo narrar, che i monti
Squarciaro il fianco ai dolorosi accenti.
Poscia degli empi a sgomentar le fronti
Le parole vibrò qual furibondo
Torrente che rovescia argini e ponti.
Tuonò sul fuoco del tartareo fondo:
E fu sì forte quel tuonar, che spinto
Mi credetti all’abisso imo e profondo.
D’ira nel volto e di squallor dipinto
Tuonò nunzio di stragi e di procelle:
E Libano si scosse e Terebinto.
Tuonò sul giorno in cui verran le agnelle
Dai capretti divise, e al suon di tromba
Vedransi in cielo vacillar le stelle:
E parve un fiero turbine che romba
Tempestoso per l’aria, e alfin su i campi
Impauriti si trabalza e piomba.
Ma in questo mezzo per gli eccelsi ed ampi
Spazi d’olimpo il cherubino un nembo
Sciolse di tanti e sì focosi lampi,
Che smorto io caddi e abbarbagliato in grembo
Della mia nube che al di sotto aprissi:
E sprigionato da quel denso lembo,
Giacqui su l’erba; e quel che vidi io scrissi.