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Vincenzo Monti
Prometeo
(canto I)
L'accorto Prometéo, l'inclito figlio
a cantar di Giapeto il cor mi sprona,
e quanti sopportò travagli e pene
per amor de' mortali, e qual raccolse
di largo beneficio empia mercede,
se la diva, cui tutta a parte a parte
la peregrina istoria è manifesta,
del suo favor m'aita, e non ricusa
sovra italico labbro alcuna stilla
d'antica derivar greca dolcezza.
Ma de' suoi duri memorandi affanni
qual dapprima dirò? Forse la pena
del celeste suo furto, e di Pandora
il fatal vaso e la fatal sembianza
che di poca favilla al sol rapita
fe' sopra il rapitor l'alta vendetta?
O primamente del regal suo padre
canterem la magnanima caduta
e con lui tutta del titanio seme
sterminata la gloria e la speranza,
quando il forte Giapeto incontro a Giove
stette e gran pezza del poter di sue
folgori in cielo dubitar lo fece?
Certo il grande conflitto, onde prostrata
giacque d'Uran la generosa prole,
che di sorte minor ma non d'ardire
del ciel paterno la ragion perdéo,
di gran suono potrebbe empir la cetra
e dar molta al mio crin delfica fronda.
Ma lunge troppo il canto andrìa; né penne
per sì gran volo alle mie terga or sento.
E già sull'erto Caucaso mi chiama
de' liberi miei carmi disioso
il solitario Prometéo, che, seco
le rie vicende nel pensier volgendo
di sua stirpe infelice, e l'ire ancora
del superbo oppressor temendo accese
(ché nel cor de' potenti a lunga prova
ratto nasce lo sdegno e tardo muore),
su quell'orride balze sconosciuti
tragge misero eroe giorni dolenti:
se non che, quando sotto il sacro velo
delle tranquille tenebre notturne
tace del biondo Ipperion la luce,
ei, sovra il sommo della rupe assiso,
delle stelle che son lingua del fato
alle armoniche danze il guardo intende;
e, con lor ragionando, i vaghi errori
co' numeri ne frena e le fatiche,
primo degli astri assalitor felice.
Felice, se voler d'empio destino
alla sciagura del suo lungo esiglio
non aggiungea compagno Epimetéo;
l'incauto Epimetéo stolto fratello,
pel cui folle consiglio su la terra
versò l'uomo ingannato il primo pianto
e de' morbi sentì la punta acuta.
Come volgesse un sì gran danno il fato
ditelo, o sante Muse; e far vi piaccia
al ver che teme di mostrar la fronte
de' vostri accenti un verecondo velo.
Vita vivendo incolta orrenda e dura
l'umana gente, di pudore in tutto
d'accorgimento e di ragion spogliata;
e mal soffrendo del saturnio Giove
il superbo pensier, che alla tremenda
sua deità né tempio ancor sorgesse,
né altar fumasse né suonar s'udisse
su le labbra terrene il suo gran nome;
di sé mandar quaggiù prese consiglio
la conoscenza alfine e la paura,
e dell'alma del par che delle membra
le consonanti qualità diverse,
ond'abito novello e più gentile
dell'uom vestisse la mortal natura.
Vols'anco il guardo agli animanti; e manche
le facoltà veggendone e d'emenda
necessitose, sì che nulla omai
differenza avvisar sapea tra loro
che di membra e di pelo e di figura,
pietà n'ebbe il gran padre; e di lor pure
fatto pensoso noverarli a parte
del nuovo beneficio in cor concluse.
Agl'imperi di Giove obbediente
scese adunque Mercurio in aureo vase
il celeste tesor seco recando,
e di partirlo fra mortali e bruti
al saggio Prometéo diè norma e cura
ed allo stolto Epimetéo; ché tale
era il senno di Giove ed il consiglio.
Meravigliò turbossi a quel comando
il maggior Giapetìda; e, perché tutti
e di prudenza e di saper vincea,
arretrarsi modesto ed escusarsi
e non atto chiamarsi a tanta impresa,
del cui solo pensiero il cor tremava.
Ma l'altro, che di senno e d'intelletto
avea povero il capo e nondimeno
presuntuosi indocili e superbi
i pensieri nudrìa (ché d'ignoranza
ostinato figliuol sempre è l'orgoglio),
si trasse innanzi baldanzoso, e, nullo
timor prendendo del fatale incarco,
sopra l'omero suo l'assunse, e disse:
- Onorato di Maia egregio figlio,
all'olimpo ti rendi; e questa reca
non ingrata novella al tuo signore,
che del provvido suo supremo cenno
esecutor lasciasti Epimetéo. -
Disse: e Mercurio i bei talari aperse,
caro dono d'Apollo, onde volando
le preste superava ale de' venti;
e, della verga da Pluton temuta
agitando le serpi, in un baleno
fra le nubi si spinse, e sparve agli occhi.
Ma del fraterno temerario ardire
dolente Prometéo con amendue
le man coprissi vergognando il volto;
e, poiché tanta ad impedir follìa
opra invan fe' di preghi e di consigli,
s'involò sospirando; e al ciel converso
- O Sole, ei disse, o tu che tutte osservi
maestoso e tranquillo in tua carriera
de' mortali le cure e de' celesti,
se nell'ampio tuo corso unqua t'avvegna
fuggitivo e ramingo in su la terra
mirar qualcuno di mia stirpe oppressa,
fammi fede con esso, o Sole amico,
che niuna colpa nella colpa io m'ebbi
dell'incauto fratello. Oh aure oh venti
che dell'etra non pur scorrete i campi
ma battete le penne anco sotterra
e le bufere generate in grembo
del morto regno, se di voi taluno
là penetrar può dove il mio gran padre
nel procelloso tartaro profondo
di non giuste catene avvinto giace,
a lui portate le mie voci, e conto
gli fate, o venti, il mio destin crudele:
ma non gli dite del minor suo figlio
la demenza fatal; ché acerba al core
sarìa del prode genitor ferita
più che il cielo perduto, e sempiterno
di tristezza argomento e di vergogna. -
Così dicendo dileguossi; e mesta
apparve al suo dolor l'aria e la luce.
Lieto frattanto dell'assunta impresa,
e dell'alto suo senno persuaso,
impose mano all'opra Epimetéo.
E primamente congregati i bruti,
senza misura liberal fu loro
dei tesori di Giove, e così larga
quella sua stolta cortesia, che tutto
scoperse il vaso in un momento il fondo.
Dell'uomo allor si risovvenne; e gli occhi
dentro l'urna ficcando, e sotto e sopra
scotendola veloce onde un avanzo
una reliquia ritrovarvi ancora
della celeste dote, esser del tutto
già consumata la conobbe alfine.
A quella vista stupefatto e muto,
le pupille abbassò; tremògli il core,
gli tremar le ginocchia, e di man cadde
il vasello fatal, che cupamente
risonò rotolando in sul terreno.
Indi qual meglio seppesi, e dell'uomo
iniquamente del suo aver frodato
le rampogne temendo e le querele,
senza far motto, senza levar ciglio,
pauroso e confuso allontanossi.
Come fanciul che, quando manco il teme,
còlto repente dalla madre in fallo,
di vergogna s'imporpora, e la mano
paventando severa che più volte
gli fe' le orecchie dolorose e rosse
queto queto s'arretra, e con obliquo
occhio guatando al rischio suo s'invola:
d'Epimetéo tal era in quel momento
il fuggir l'arrossire e la paura.
Or che farà l'insano? A qual de' numi
o de' mortali chiederà consiglio,
e con qual fronte? perocché del pari
al cielo ei fece ed alla terra oltraggio.
Misero! non gli avanza in quello stato
altro più scampo che del buon germano
implorar la pietà. Deposta adunque
vergogna e tema (ché nel cor d'un folle
la tema sempre e la vergogna è breve),
a lui smarrito appresentossi e mesto;
ed intero narrando il suo fallire
- Deh! porgi, disse, all'error mio riparo,
dolce fratello, se non vuoi che l'ira
mi percota di Giove e mi distrugga;
ch'egli ha ben d'onde fulminarmi, e troppo
abbonda la ragion del mio castigo. -
Ed in queste parole il delinquente,
siccome vereconda verginetta,
singhiozzando e pregando lagrimava.
A quel pianto commosso, a quella doglia
il generoso Prometéo rispose:
- Dura mi chiedi e perigliosa impresa,
miserando fratello; ed obliasti
che da gran tempo dell'ingiusto Giove
il sospetto m'osserva e la vendetta,
da che spersi noi tutti e fulminati
e dell'Olimpo eternamente privi
noi miseri Titani ha quel superbo
del fulmine signor, che vinti ancora
tuttavolta ne teme e ne persegue
iniquamente; perocché spietati
fa la tema i tiranni, i quai demenza
estimano l'amor santo del giusto
e prudenza di regno esser crudeli.
Quindi il barbaro in me da quel momento
dell'oppresso Giapeto il sangue aborre,
e, più che il sangue di Giapeto, il core
che fermo e puro mi riscalda il seno,
e l'intelletto di saper nutrito
ond'anco ai numi m'avvicino e tutta
senza vel mi si mostra la natura.
L'invidia, fratel mio, col suo veleno
assale ancor degl'immortali il petto:
e dove in trono non s' asside il giusto,
colpa divien, che mai non si perdona,
dell'ingegno l'altezza e la virtude,
e fortunata è l'ignoranza sola.
Quindi non già tem'io di te, fratello,
ché te dall'ira del crudel tiranno
l'insipienza tua pone in sicuro;
né duolmi no del tuo destin, ché poche
son le pene ove poco è l'intelletto:
dell'uom ben duolmi, un infinito a cui
dannaggio partorì la tua stoltezza,
sì che fatto è minor del bruto istesso.
Ed io tel dissi, sconsigliato; e tu,
e tu fede negasti a mie parole.
Qual dunque adesso a tanto error salute?
Poco ti parve agli animai largito
aver scaltrezza ardir prudenza e senno
e del futuro il sentimento ancora,
che il più bello il più grande e prezioso
hai lor profuso de' celesti doni;
l'istinto io dico, quel divino occulto
non mai fallace e sempre vivo istinto,
che, con tacito cenno imperioso
ciò che nuoce insegnando e ciò che giova
dirittamente il bruto alla verace
sua natural felicità conduce.
Ciò che ieri gli piacque, anco domani
gli piacerà. De' suoi pochi desiri
il termine sta fisso; e ciò ch'ei trova
il suo bisogno a satisfar bastante,
sempre buon lo ritrova e sempre bello.
Fortunato, che l'arte ei non conosce
funesta e ria di fabbricar sventure,
l'orribil arte di crear le brame.
Fortunato, che docile la terra,
e liberal gli partorisce il cibo,
né col rastro gli è d'uopo e coll'aratro
piagar sudando alla ritrosa il seno,
né della vite spremere i funesti
dolci veneni ad ammorzar sua sete.
E fortunato ancor, che contro i nembi
contro il furor de' verni e l'aspro morso
dell'algente aquilon né vestimento
indossar gli è mestieri né la fiamma
ricercar di Vulcano entro la selce
e de' lor rami dispogliar le piante.
A lui spontanee l'erbe e senza l'uopo
di chimico tormento la segreta
lor medica virtù fan manifesta.
A lui la pioggia il vento e la procella
del lor muto appressar mandano il segno,
perché cauto ne scampi o se n'allegri;
e a lui la terra (meraviglia a dirsi!)
i suoi profondi scuotimenti avvisa,
quando a darle travaglio alza il tridente
l'irato Enosigéo. Fuggendo allora
atterrito per tutta la campagna,
con fioche voci e con lunghi lamenti
all'ignaro mortal predice e grida
il vicin crollo della madre antica,
ed accorto fa lui del suo periglio,
dell'uom non meno che di sé pietoso.
Né la virtù soltanto a lui si svela
or innocente or ria che nelle fibre
de' vegetanti imprigionò natura;
né sol degli elementi ei sente e dice
i vicini tumulti (ahi nostro danno,
che il sapiente favellar del bruto
capir non puote in intelletto umano!):
ma fra l'immenso popolo diverso
de' suoi simìli chi nel cuor gli desta
dell'amico ad un tratto e del nemico
la conoscenza? E quale iddio lo sforza
a tremar di paura innanzi a questo,
e innanzi a quello saltellar di gioia?
Chi tal gli diede e tanto e sì sublime
accorgimento, e ne lasciò l'uom privo?
Fu la tua cieca largitate, o caro
malaccorto fratello. Ahi che alla mano
che lo profuse più non torna il dono!
E taccio che partecipe del lampo
della diva ragion lo festi ancora;
la qual se pigra e languida e confusa
nell'animante scintillar si vede,
colpa è sol forse di sue membra a cui
non fu del tatto liberal natura,
né della lingua all'imperfetto guizzo
permise la volubile parola.
Nudo intanto ed inerme e degl'insetti
al pungolo protervo abbandonato,
l'uom, de' venti trastullo e delle piogge,
or tremante di gelo or da' cocenti
raggi del sole abbrustolato e bruno,
ovunque fermi ovunque volga il piede,
sia laddove d'Ammon ferve l'arena
sia dove ha cuna e dove ha tomba il sole,
dappertutto di vesti è l'infelice
il molle corpo a ricoprir dannato;
furando adesso la sua spoglia al solo
quadrupedante, per furarla un giorno
al vermicciuol pur anco ed alla pianta.
Se talor tanto la gentil sua cute
tollerando s'indura che gli eterni
ghiacci pur giunga a sostener d'Arturo,
e invan la pioggia lo flagelli invano
d'Orizia il punga l'ispido marito;
quanto affanno gli val quanto conflitto
quel penoso trionfo? e quanta insieme
natìa beltate al suo sembiante è tolta?
Squallido, bieco, rabbuffato ed irto,
di fiera il volto ei tien, di fiera il pelo;
e l'uom nell'uomo tu ricerchi indarno.
Né de' mali suoi tanti è qui la trista
serie conclusa. Primamente l'aria
co' vagiti a ferir l'invia natura
di tuttequante idee povero e nudo.
Misero! il solo de' viventi, il solo
cui d'aita sprovvisto in sul medesmo
limitar della vita aspra madrigna
la gran madre abbandona e della Parca
al severo governo lo rassegna.
Egro piangente derelitto ei dunque
né l'alimento suo né la materna
poppa conosce, a suggere la morte
pronto al par che la vita. Se vien manco
l'opra un istante della pia nutrice,
qual nauseoso miserando obbietto!
Uopo è dal corpo tenerello e nudo
degli elementi allontanar l'insulto,
uopo è il passo insegnargli e la favella.
Né migliora, crescendo, il suo destino.
Se vuol la piena traversar d'un fiume,
pria del nuoto imparar l'arte è costretto.
Se del ventre i latrati acquetar brama,
la dolce stilla del materno seno
mutar gli è forza nel caonio frutto,
e coll'aspro cinghial nella foresta
miseramente disputarsi il vitto.
Verrà poi tempo, è ver (ché l'alma Temi
delle sorti potente e del futuro
a me nell'antro del Parnaso il disse,
e molte rivelò meravigliose
dell'oscuro avvenir tarde vicende),
tempo verrà che Cerere divina,
delle provvide leggi ispiratrice,
dal ciel recando una gentil sua pianta,
cortese ne farà dono alla terra;
e dagli alati suoi serpenti addotto
Trittolemo inviando, un cotal figlio
di Metanira, a propagarne il seme
e l'uso ad insegnar del curvo aratro,
farà col senno e l'arte e la pietade
all'uom corretto abbandonar le querce
ed abborrir dell'irte fiere il cibo.
Ma parergli ben caro un sì bel dono
gli farà di Giunon l'aspro marito:
perocché dio severo, i petti umani
sollecitando con pungenti cure,
comanderà di tutte l'erbe inique
l'empio parto alla terra, onde penoso
del frutto cereal venga l'acquisto.
Di triboli e di felce orridi i campi
si vedran largamente. Aspra boscaglia,
l'ispido cardo e la sdegnosa ortica
abbonderà per tutto; e dei sudati
nitidi cólti si faran tiranni
l'ostinata gramigna il maledetto
loglio e le vote detestate avene;
le quai proterve alla divina pianta
il delicato corpo soffocando
e involando l'umor del pio terreno,
ingiusta le daran morte crudele.
Né fian già questi gli avversari soli.
Che palpitar di tema e di sospetto
il faticoso agricoltor faranno.
Allorché volte al rapitor cornuto
dell'agenorea figlia il sol le terga
de' fratelli Ledéi la spera infiamma,
e susurrando la matura spiga
le bionde chiome inchina e chiamar sembra
l'operoso villano a corne il frutto,
ecco nuovi terrori all'infelice,
ecco nuovi perigli e nuovi affanni.
La saltante gragnuola il caldo vento
i torrenti le selve e le voraci
torme pennute gli saran sovente
di lagrime cagione e di sospiri.
So ben che, quando di Dodona il vitto
in altro vitto cangeran le genti,
nuove sembianze ancora e nuovo rito
prenderà l'universo. All'auree stelle
darà figura allor sentiero e nome
l'audace navigante. Allor recise
dai patrii gioghi scenderan le querce,
che su i flutti volando andran superbe
co' venti a rinnovar la lite antica
e in remote a portar barbare terre
merci a vicenda e, più d'assai che merci,
costumanze e follie, morbi ed errori.
In uso volgerà dell'uomo allora
i suoi fuochi Vulcan, de' quai nascose
l'invido Giove nella fredda selce
gli elementi immortali. Le sue care
forme divine scoprirà natura;
germoglieran gli affetti e tutte insomma
si schiuderanno del desir le fonti,
che dovran l'uman cuore impetuose
irrigar sempre e non sbramarlo mai.
Generato il desir, tosto pur fia
generato il bisogno. E questo sozzo
mostro ingegnoso, col dolore al fianco
che acuto il punge, e col piacer da fronte
che dolce il chiama e l'aspra via gl'infiora,
s'ammoglierà non pigro alla malvagia,
che tutto vince, indomita fatica;
e con vile connubio alle pudiche
arti darà la prima vita, all'arti
di turpe genitor figlie vezzose.
Dall'antico suo stato a mano a mano
dunque l'uom tolto, ed innocente in prima
nelle selve gli augei nell'onde i pesci
insidiando; e poi fidando avaro
il frumento alla terra, al mar la vita;
reggitor della sua, poscia di molte
congregate famiglie; indi le mura
e le leggi ponendo in sua difesa;
indi in sen di natura in sen di Giove
spingendo il guardo, e all'un strappando e all'altra
l'oscuro vel che li tenea nascosi;
alfin dal seggio, in che gli avea locati
il suo primo timor, cacciando i numi,
e sé stesso mettendo in quella vece
dalla forza protetto e dal terrore;
l'uom, dico, a tanta di pensieri altezza
e delle cose alla cagion salito,
sé stesso, ahi folle! estimerà felice:
e misero più fia, quanto più lunge
l'arte vedrassi allontanar natura.
Sorgeran le città, si cangeranno
in superbi palagi le divelte
rupi, e morbide coltri e aurate travi
difenderanno de' mortali il sonno.
Più lauto il cibo più gentil la veste
troveranno le membra, e su le labbra
verrà d'amico più frequente il nome,
e più stretti gli amplessi e più soavi
faransi i modi e più cortesi i detti:
ma più bugiardo batterà nel petto
il cor pur anco, e latreran più vivi
i suoi rimorsi; più fugaci i sonni,
più fugace la vita; e con avaro
confin divisi si vedranno i campi,
e risonar la barbara parola
s'udrà del tuo del mio. Sovra le mense
manderan l'erbe i lor veleni, e colme
delle madrigne ne saran le tazze
e le tazze de' regi. Infame ordigno
diverranno di morte il bronzo e il ferro;
e, più del ferro e più del bronzo infame,
l'oro esecrato a tutte colpe il varco
spalancherà, poiché divelto un giorno
un rio demon l'avrà dal violato
sen della terra, che il chiudea gelosa,
del suo parto fatal forse pentita.
Di Temide per lui calcata e franta
si vedrà la bilancia, ed il delitto
lieto esultar dell'innocenza oppressa:
per lui mendica la virtù, per lui
ricco–vestita l'ignoranza, mute
d'onor le leggi, e con nefandi incensi
adorata la colpa e il ciel tradito.
Luogo sarà nelle cittadi impuro,
d'ogni vizio sentina, a cui di corte
daran nome i mortai, d'abisso i numi.
Quell'avversaria d'ogni patto, e d'ogni
scelleranza maestra e consigliera,
Ambizion vi sederà reina:
né in veruna così, siccome io veggo
nella man di costei, fabbro di mali
sarà l'empio metallo, onde la cruda
non pur la terra comprerà ma il cielo.
Quindi (iniquo mercato!) alla superba
l'amico un giorno venderà l'amico,
la consorte il marito, e la sua patria
sacrilego ed infame il cittadino;
a lei spergiuro le battaglie e il sangue
de' suoi prodi guerrieri il capitano;
a lei le ròcche il traditor custode,
e la voce de' numi il sacerdote.
E per lei nelle fervide fucine
suda Vulcano, in omicidi arnesi
le pacifiche falci figurando
e i vomeri innocenti: e Marte intanto
lo scudo imbraccia e la grave asta impugna,
e l'ugna de' cavalli procellosi
sanguinando per tutta la campagna,
di pianti allaga e di delitti il mondo.
Oh Marte! oh guerra! orribil mostro, nato
(chi 'l crederia?) nel cielo; ove d'olimpo
i cardini scuotesti, e colla tua
sanguigna face violasti il puro
delle vergini stelle almo candore,
e le prime saette in man ponesti
contro Saturno di Saturno al figlio;
oh guerra! oh delle Furie la più ria,
la più ria delle Furie e la più antica!
Al tremendo tuo nome il ciel si turba
per la memoria della prisca offesa,
e sbigottita palpita natura.
D'amor di caritate i santi nodi
tu rompesti primiera, e contro i padri
i figli armasti ambiziosi e crudi,
e i fratelli azzuffasti co' fratelli.
Le sitibonde glebe e ber sol use
le lagrime dell'alba tu con altre
stille disseti, e con allegro piede
squarciate membra calpestando e bocche
spiranti e petti palpitanti ancora
in tiepida di sangue atra laguna,
con fiera gioia a quell'orror sorridi,
crudele!, e l'inno di vittoria intuoni;
mentre sulla tua gota a calde gocce
gronda sangue l'allòr che ti corona.
Ahi! che tu sulle stesse are de' numi
sovente arruoti i tuoi pugnali, ed osi
santificar le colpe e temeraria
la vendetta arrogarti anco del cielo,
del ciel che tutta a sé serbolla ed alto
all'uom gridò - Mortal, perdona ed ama. -
E l'uom, sordo a quel grido e dai sonori
serpi d'Aletto flagellato e spinto,
l'un si squarcia coll'altro, e la più bella
a struggere dell'opre s'affatica
in che tanto pensier pose natura.
Sangue corrono i campi, e sangue i fiumi;
sangue si vende, oh dio!, sangue si compra,
e tradimento e forza a piè del trono
fan l'orrendo contratto. Occulta intanto
e d'atro velo ricoperta il viso,
la celeste pietà di porta in porta
va, delle spose scapigliate e degli
orfani figli e de' padri cadenti
asciugando le lagrime furtive;
furtive, e agli occhi e al mesto cor sol note,
poiché aperto dolor già fatto è colpa.
Deh, santissima dea! se chiusi in terra
sono i cuor de' tiranni alle tue voci,
se dei traditi vacillanti troni
ferma è pur la ragion, che d'altre piaghe
solcar si debba dell'Europa il petto,
perché tutto nell'angliche catene
gema Nettuno e fornicar si vegga
con peggior drudi l'agenorea figlia,
deh! tu squarcia le nuvole, e passaggio
dell'oppresso universo apri alle grida.
L'ale impenna ai sospiri, e nell'orecchio
del maggior nume come tuon li spingi.
Destalo: ed egli le saette impugni
già troppo neghittose, e sul tonante
carro immortal di sua giustizia assiso,
della terra, che tutta peccatrice
furiando delira e si distrugge,
la gran contesa a giudicar discenda. -
Così parlava il ben veggente e giusto
delle caucasee rupi abitatore;
e, tutto foco i rai, foco le gote,
del remoto futuro entro gli abissi
spingea le luci, che l'antica Temi
lunga stagion gli avea nella divina
grand'arte de' profeti esercitate.
E in quel sacro furor l'alma rapito
che i secoli sormonta e tutto al guardo
il turbine veloce e la ruina
dell'umane vicende sottomette,
mentre signor del fato e del suo libro
col più tardo avvenir parla il pensiero,
vedea quel saggio fra tempeste e nembi
sopra libere penne al ciel levarsi
della terra i sospiri, e seguitarli
con obliqui occhi e con incerto passo
(quali il greco cantor poscia le vide)
le dolorose ed umili Preghiere,
di lagrime per via bagnando il viso
e tutto alla pietà movendo il cielo.
Abbracciar le ginocchia le vedea
d'un dio maggior di Giove, a cui salire
distinto non sapeva il suo concetto
né nomarlo il suo labbro; e questo dio
stender la destra alle dolenti dive,
ed inchinar sovr'esse i maestosi
suoi neri sopraccigli, onde le chiome
d'ambrosia rugiadose tremolando
sulla fronte immortal diero una scossa
che tutto fece traballar l'olimpo.
Poi dalla grande orribile farètra,
che Morte ed Ira sue ministre al piede
rinfrescando gli vanno e mai non votasi,
il fulmine prendea, con cui tremendo
ai mortali ragiona il suo disdegno.
E tosto innanzi un giovinetto eroe
gli comparìa, che il gesto e il portamento
avea di Marte, e Marte egli non era.
Tricolor cinto gli fasciava il fianco
superbamente, e tricolor cimiero
gli ondeggiava sul capo. La sua fronte,
di cortesia temprata e di fierezza,
profondi palesava alti pensieri;
alla fronte di Giove simigliante,
quando Pallade ancor non partorita
gli affaticava l'immortal cerébro.
L'ineffabile nume onnipossente
a lui quindi facea queste parole:
- Prendi, invitto guerrier, prendi securo
la folgore di Dio. Per me la vibra
su gli ostinati troni, omai di troppo
sangue vermigli; col mio strale in pugno,
a chieder pace a supplicar gli sforza;
e finisca per te del mondo il pianto. -
Così dicendo, il fulmine supremo
gli consegnò; né della man mutata
accorgersi parea l'arme divina,
ma più terribil anzi e più sdegnosa
guizzar nel pugno del novello erede.
Ed ei con braccio vigoroso e saldo
su i germanici campi la vibrava
fieramente. Al nitrito al calpestìo
de' gallici cavalli risonavano
le retiche montagne, e attrita e pesta
sotto l'ugne ferrate si scaldava
la vindelica neve. Non potea
stupefatto raggiungere il pensiero
di sue vittorie il volo, e non ardìa
darle tutte la Fama alla sua tromba,
paventando bugiarda esser tenuta.
Al fragor de' suoi tuoni, al truce lampo
de' tremendi suoi sguardi e di sua spada,
ivan l'onde dell'Istro impaurite,
e con volo di timida colomba
fuggia scema dell'ali e degli artigli
la bellicosa degli augei reina.
Tremava tutta e si battea la guancia,
del contumace suo furor pentita,
la superba Lamagna; e del suo sangue
tinto e satollo alfin sorgea l'olivo.
All'apparir che fea sulle gelate
noriche vette l'arbore divina
esultava la terra, e rispettosi
a baciarla venieno a carezzarla
con molli penne d'ogni parte i venti.
Sulle pannonie rupi alto sferzando
i destrier rugiadosi in sul mattino
la salutava il Sole, e con soave
riso di luce dal mortal suo sonno
tutto svegliava a nuova vita il mondo.
Riconducean secure al pasco antico
l'allegre pastorelle i cari armenti.
Affilava cantando il villan duro
il curvo dente di Saturno, e lieto
l'ore affrettava di troncar la spica;
ché d'oltraggio guerrier più non temea.
Qua stringesi una madre al seno il figlio
cui già spento piangea, né al ciel si sente
più lamentarse del fecondo grembo.
Là del salvo marito al collo gitta
una tenera sposa ambe le braccia,
e, sull'adusto affaticato petto
le ferite cercando, con pietosa
bocca le bacia, e colla man le tenta
ripugnante d'orror. Odesi altrove
risonar d'inni il tempio e, sciolte in fumo
van l'odorate lagrime sabée
lassù le nari a rallegrar de' numi.
E per le piazze intanto e per le vie
un trambusto di danze e di guerrieri
cantici e ludi; un esclamar per tutto,
un abbracciarsi, un fremere di gioia,
che di dolce follìa l'alme rapisce.
E in cotanta esultanza ecco novello
di letizia argomento; ecco Minerva
che la sazia di sangue pesante asta
depon placata, e ne' cecropii prati
le vergini cavalle a pascer manda
il trifoglio divin, mentre lo scudo
stan nel fiume a lavar d'Argo le figlie.
Ed essa la gran dea per l'ampie sale
de' peripati l'attiche lucerne
raccende, in nembo d'erudita polve
strascinando il regal paludamento.
Riviver liete d'ogni parte vedi
d'Academo le selve, e in gran frequenza
correr l'Arti a sudar nei sacri arringhi.
Quindi un picchio incessante un cigolìo
di scalpelli e di marmi, un mescolarsi
di colori e pennelli onde operose
prendon le tele sentimento e vita;
poi di cetre un fragor, che vario e dolce
scorre sull'alme e giù dal balzo arriva
del beato Elicona. Ivi seduto
fra le pudiche aganippee fanciulle
lo stesso di Latona inclito figlio
di quel famoso giovinetto i forti
fatti cantava e le fatiche e l'ira,
con questo carme innamorando il cielo.
- Chi è colui che rapido qual folgore
scende dal monte, e sguardi formidabili
vibra in sembianze giovanili e tenere?
Lo precorre Bellona; e sotto il fervido
calpestar dei fumanti atri cornipedi
tremano l'Alpi, e su le porte cozie
l'italo genio spaventato affacciasi,
memore ancor dell'ardimento punico.
Oh del primo maggior secondo Annibale,
pochi sono i tuoi forti, e non si coprono
di ferro il petto né l'aìta affidali
di numidi elefanti, ma del gallico
valor l'usbergo portano sull'anima,
e l'arte sanno di morire o vincere.
Oh val di Dego orrenda! oh gioghi indomiti
di Montenotte! oh re de' fiumi Erìdano!
E tu Mincio fatal, che di cadaveri
le tue lagune già vedesti crescere
e dal nido natìo smarrita e pallida
l'ombra involarsi del cantor di Mantova;
e voi dell'Adda iniqui ponti, e d'Arcoli
ostinate pianure; e voi di Rezia
fieri dirupi, e dell'estremo Norico
risonanti fucine ove fa gemere
Vulcano a Marte la tedesca incudine;
dove son, rispondete, i vostri eserciti?
Dove i duci i cavalli e i tuoni e i fulmini
de' vostri bronzi? e il fior più scelto e vivido
della bionda Lamagna? Ohimè! l'italico
campo del sangue di quei prodi impinguasi,
e vagar l'insepolte ombre si veggono
sdegnosamente e fremere sull'Adige
di germanica strage ingombro e turgido.
Salve, o madre d'eroi, salve, terribile
francese Libertà! salve, magnanimo
campion che chiudi in fior di membra altissimo
vigor di senno! A te dinanzi attonita
tace la terra: ma dolente mòstrati
le non ben rotte sue catene Ausonia,
e di spezzarle interamente prégati.
Deh l'ascolta per dio! deh forte avvolgile
la man nel crine venerando, e salvala;
ch'ella t'è madre, e le materne lagrime
al cor d'un figlio la pietà comandano.
Poi sull'olimpo che t'aspetta il nèttare
vien co' numi a libar fra Giove ed Ercole. -
Questi accenti sposava alla sua cetra
il signor delle Muse; e, mentre i boschi
di Pindo e Citeron molce il suo canto,
tacciono i sacri ruscelletti, e l'aure
non osano di far rissa e bisbiglio.
Stillavan tutti liquida fragranza
i suoi biondi capelli, e all'agitarsi
della testa immortal quante sul suolo
cadean le gocce del licor celeste
tante nascean viole ed asfodilli.
Poi, finito il cantar, dell'aurea fronte
toglieasi Febo il suo bel lauro istesso,
di poeti superbia e di guerrieri,
e dell'invitto lo ponea sul crine.
Allor dal volto dell'eroe partissi
tal di raggi e di lampi un largo nembo
che tutta di sua luce empiea la terra;
non da quella diversa che Minerva
sul capo accese del divino Achille
e tremenda a toccar gli astri giungea,
quando apparve de' Teucri all'improvviso
sul terribile fosso, e alla sua vista
si rovesciar cavalli e cavalieri
confusamente, e salva si sottrasse
dall'ettoreo furor la combattuta
esangue spoglia del diletto amico.
Tal era lo splendor che dalle care
fiere sembianze del guerriero uscìa.
Tergea l'Europa, in lui mirando, il pianto,
e, il suo possente salvator da lungi
colla manca accennando alle sorelle,
porgea lor colla destra il ramoscello
del sacro olivo, e promettea che presto
colla vindice man tolte le avrìa
dell'anglico ladrone alle catene.
Carco d'odii frattanto e di delitti,
con mozzi artigli e dischiomata giuba,
agonizzar dell'Adria si vedea
l'orgoglioso decrepito lione:
e all'avara del Tebro meretrice
dai scettrati suoi drudi abbandonata
cadean guaste dagli anni e vilipese
le tre corone al crin lascivo avvinte.
D'arcano velo circondati e chiusi
eran questi i portenti che per entro
la sacra notte del futur vedea
l'indovino Titano: e preso intanto
di stupor di rispetto e di paura
non alitava non battea palpèbra
a quell'alte parole Epimetéo.
E come, quando ne' Carpazii flutti
che avea turbati l'aquilon, se chiude
l'enfiata bocca l'iperboreo dio
e gli muor la procella in su le labbra,
a poco a poco quetasi pur anco
la discordia dell'onde, e al sol che torna
leggiadramente tremolar le vedi;
allor la rete il pescator ripiglia,
ed allegro il nocchier, lasciando il porto
e spiegando la vela, al mar di nuovo
le sue speranze crede e la sua vita:
non altrimenti di Giapeto al figlio,
poiché lo spirto racquetossi e il petto
dal profetico ardor sconvolto e scosso,
il primo volto venne il color primo.
E calmato e sereno - Or via, fratello,
datti pace, soggiunse: al tuo fallire
non disperar salute: io te n'affido,
sorgerà l'uomo dal suo basso stato,
e tanto al ciel si leverà sublime
che d'invidia n'andran pur tocchi i numi. -
Disse: e, nel cor magnanimo premendo
il suo disegno, e dal disìo soltanto
di liberar le sue promesse acceso,
verso la sacra argolica contrada
per molta terra e molto mar divisa,
come del fato lo spingea la forza,
senza più dubitar prese la via.
E doloroso di lasciar l'antico
dolce ricetto - Addio, sclamava, addio,
care selve beate, che ramingo
nel vostro sen mi riceveste il giorno
che mal del cielo disputò l'impero
il misero mio padre, e voi pietose
agli strali di Giove in quel periglio
mi nascondeste, né veruno il seppe
de' mortali gran tempo e de' celesti.
Salve, rupe sublime, ov'io solea
nei sacri della notte alti silenzi
interrogar le stelle e in quei lucenti
volti del fato esaminar le vie;
mentre queti d'intorno e rispettosi
tacean sul monte e nella selva i venti,
e sol nell'ombra mormorar da lunge
quinci il Caspio s'udìa quindi l'Eusino.
Addio, sonante Arrago; addio, veloce
onda del Gerro, alle cui fonti assiso
io salutava in oriente il sole,
e contemplar godea come all'aspetto
dell'immortal sua lampa genitrice
rivestivansi allegre e rugiadose
del deposto color l'erbette e i fiori
e tutta dal suo sonno uscìa la terra.
Voi dunque di mie veglie e di mie pene
confidenti pietosi, o boschi, o fiumi,
o spelonche, o dirupi, ricevete
del fido vostro solitario amico
i dolenti congedi. Io v'abbandono:
ma il cor che spesso l'avvenir segreto
co' suoi palpiti avvisa, il cor mi viene
significando occultamente in petto
che tornerò pur anco al vostro seno,
ed illustre darò perpetua fama
con più grandi sventure a queste rupi.
Note
Vincenzo Monti fece pubblicare questo primo canto a Bologna nel 1797. Il secondo e terzo canto non vennero invece pubblicati, e uscirono postumi.