Edizione Italiana
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    Vincenzo Monti

    Sulla morte di Giuda

    CONTENUTO: Gittato il prezzo del tradimento, Giuda s’andò ad impiccare; e l’anima uscí dal corpo, bestemmiando Gesú e il proprio delitto (1-8). Allora Giustizia l’afferrò e, tinto il dito nel sangue di Gesù, scrisse in fronte al maledetto sentenza di dannazione eterna (9-14). — Piombò l’anima nell’abisso, mentre il nero corpo ondeggiava al vento. Gli angeli, tornanti su la sera dal Calvario, vistolo da lungi, inorriditi, si velarono dell’ali la faccia (15-22). Ma i demoni, fatta la notte, calarono l’appeso e lo portarono giù in inferno (23-28). — Congiunta di nuovo l’anima al corpo, su la nera fronte apparve scritta in rosso l’orribile sentenza, che atterrí gli stessi perduti (29-36). Giuda, vergognoso del suo peccato, tentò di graffiarsi via lo scritto; ma divenne piú chiaro, che parola di Dio non può cancellarsi (37-42). — Intanto uno strepito avverti della discesa di Gesú all’inferno (4346). Giuda lo incontrò e lo guatò senza far parola, ma poi ruppe in un dirotto pianto (47-50). Sul nero corpo folgoreggiò la luce divina: ma fra’ due s’interpose Giustizia, e il Nazareno volse il guardo e s’allontanò (51-56). — «Eccovi quattro sonetti sulla morte di Giuda.... Se non vi piaceranno non ve ne manderò piú». Queste parole del Monti all’ab. Franc. Torti (Resn. Ep., p. 69) tolgono ogni dubbio su la questione se l’ultimo di questi sonetti fosse non fosse scritto dal M. Fu certamente; e venne recitato insieme agli altri tre in Arcadia, nel venerdì santo del 1788. Da questi sonetti (gli elementi drammatici che fanno la sostanza dei quali trasse da un episodio che si prolunga per parecchi libri del Messia: cfr. Zumb. p. 8 e segg. e Messia VII, 142, 160 e segg. e IX, 744, 765) ebbero indirettamente origine le famose contese fra il M. e Franc. Gianni (cfr. la nota al v. 126 del c. I della Masch.). Nel maggio 1788 il Monti all’accademia de’ Forti improvvisò un idillio (probabilm. Eloisa alla tomba di Abelardo), che eccitò l’ira del Gianni presente; il quale, vantandosi d’essere il primo degli improvvisatori d’allora, per punire quella che a lui sembrò soverchia audacia, venne nel pensiero d’improvvisar subito un sonetto su la morte di Giuda (vedilo in nota), «che vincesse i quattro letti in Arcadia dal segretario dei Braschi». Cfr. Vicchì VI, p. 482. Lide trae. — In quanto al metro, è opportuno recare queste giuste parole dello Zumb. (p. 482): «Per opera del M., ripigliò il sonetto tutte quelle dolci tempre e tutta quella grazia che gli erano proprie, ed ebbe eziandio quella varietà di atteggiamenti e di colori, onde il felicissimo poeta seppe far bella mostra pur nei singoli componimenti di una specie stessa. E due sono, fra molte altre, le precipue forme che qui assume il sonetto. L’una, descrittiva e drammatica, stringe nel suo giro una storia, un ordine di fatti piú o meno maravigliosi; come si vede in quelli su la morte di Giuda... La seconda e migliore specie è quella cui appartengono, fra gli altri, i sonetti di genere intimo».

    I

    Gittò l’infame prezzo, e disperato
    L’albero ascese il venditor di Cristo;
    Strinse il laccio, e col corpo abbandonato
    Dall’irto ramo penzolar fu visto.
    Cigolava lo spirito serrato
    Dentro la strozza in suon rabbioso e tristo,
    E Gesú bestemmiava e il suo peccato
    Ch’empiea l’Averno di cotanto acquisto.
    Sboccò dal varco al fin con un ruggito.
    Allor Giustizia l’afferrò, e sul monte
    Nel sangue di Gesú tingendo il dito,
    Scrisse con quello al maledetto in fronte
    Sentenza d’immortal pianto infinito,
    E lo piombò sdegnosa in Acheronte.

    II

    Piombò quell’alma all’infernal riviera,
    E si fe’ gran tremuoto in quel momento.
    Balzava il monte, ed ondeggiava al vento
    La salma in alto strangolata e nera.
    Gli angeli, dal Calvario in su la sera
    Partendo a volo taciturno e lento,
    La videro da lunge; e per spavento
    Si fêr dell’ale agli occhi una visiera.
    I demoni frattanto all’aer tetro
    Calâr l’appeso, e l’infocate spalle
    All’esecrato incarco eran ferètro.
    Cosí, ululando e schiamazzando, il calle
    Preser di Stige; e al vagabondo spetro
    Resero il corpo nella morta valle.

    III

    Poiché ripresa avea l’alma digiuna
    L’antica gravità di polpe e d'ossa,
    La gran sentenza su la fronte bruna
    In riga apparve trasparente e rossa.
    A quella vista di terror percossa
    Va la gente perduta: altri s’aduna
    Dietro le piante che Cocito ingrossa,
    Altri si tuffa nella rea laguna.
    Vergognoso egli pur del suo delitto
    Fuggía quel crudo, e stretta la mascella,
    Forte graffiava con la man lo scritto.
    Ma piú terso il rendea l’anima fella;
    Dio fra le tempie glie l’avea confitto,
    Né sillaba di Dio mai si cancella.

    IV

    Uno strepito intanto si sentía,
    Che Dite introna in suon profondo e rotto;
    Era Gesú, che in suo poter condotto
    D’Averno i regni a debellar venía.
    Il bieco peccator per quella via
    Lo scontrò, lo guatò senza far motto:
    Pianse alfine, e da’ cavi occhi dirotto
    Come lava di foco il pianto uscía.
    Folgoreggiò sul nero corpo osceno
    L’eterea luce, e d’infernal rugiada
    Fumarono le membra a quel baleno.
    Tra il fumo allor la rubiconda spada
    Interpose Giustizia: e il Nazareno
    Volse lo sguardo, e seguitò la strada.




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