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Virginia Olper Monis
Gloria di Sole
Il guardaboschi aveva una figlia così pallida, così pallida e così bella, che la chiamavano Chiaro di Luna, benchè avesse nome Nannina.
La sua mamma quando fu per morire, poco dopo averla data alla luce, chiamò la fata Giglia, sua matrina, per raccomandarle la figliuola. La fata Giglia aveva sfiorate le guance della piccina con le sue dita, che parevano i petali del fiore di cui portava il nome, e le gote avevano preso la tinta del giglio candido; poi, baciatala sulla fronte con le labbra scolorite, aveva mormorato: -Tu amerai il Sole e non potrai amare che il Sole. -
E Nannina crebbe con una tal sete di sole, che non ne era mai sazia. Prima ancora che potesse parlare e camminare, fissava sempre la luce, sempre la luce, e quando la tenevano in braccio, s'inquietava se non la portavano fuori, al sole, verso cui tendeva le manine. Tutto il giorno era gaia, ma quando il Sole tramontava, cominciava a piangere, nè si sapeva il perchè, e la durava tutta notte; quando il primo raggio entrava a baciare la sua culla, batteva le manine con grida di gioia; poi s'addormentava per più ore.
Aveva sedici anni, quando un dì, come il consueto, se ne stava sul limitare del bosco, fuori delle volte ombrose, guardando sulla larga strada; la giornata era grigia e la fanciulla era triste. Quand'ecco, in fondo alla strada, improvvisamente apparire una luce abbagliante come il Sole; era il Re Fulgente, il giovine Re che era salito allora sul trono per la morte di suo padre e di sua madre. Un mago gli aveva fabbricata la corazza, che risplendeva sul suo petto come un vero Sole, e nessuno poteva guardarla senza rimaner accecato.
Nannina pure abbassò gli occhi, mentre la raggiante corazza si avanzava, e il cuore le batteva stranamente di gioia. Re Fulgente, seguito dalla sua Corte, si avvicinava, e quando scorse quella fanciulla così pallida e così bella, fermò il destriero, e chiese a voce alta: - Chi è mai questa candida fanciulla?
- Sire, è la figliuola del vostro guardaboschi.
- Come ti chiami, fanciulla bella? -
La voce del Re, forte e soave ad un tempo, la fece tremar tutta, ond'ella, sempre china la testa, rispose timidamente:
- Mi chiamo Chiaro di Luna.
- Mio dolce lume, - esclamò il Re, - guardami e parlami!
Egli s'era fatto dare da un valletto una sciarpa nera, con la quale copriva il bruciante fulgore della corazza per non accecare chi gli parlava. Ella, nel suo timido cuore trovò un gran coraggio, e guardò in faccia il Re. Oh, il volto del Re era più bello e più luminoso del Sole stesso!
Ella cadde involontariamente in ginocchio e balbettò. - Maestà!... - senza poter dire di più. Allora parlò il Re, e le parve una musica di paradiso:
- Chiaro di Luna, tu sei mia fidanzata, e ti porto meco alla Corte, dove ci sposeremo. -
Ma il primo ministro, che si chiamava Tenebroso, intervenne: - Maestà, voi non potete sposare la figlia di un guardaboschi; la principessa di Spagna vi è destinata, lo sapete...
- Gli è ciò che vedremo, - rispose il Re alteramente; - intanto questa fanciulla venga con me. -
Ordinò a due giovani scudieri di scender di sella:
- Andate dal guardaboschi, e ditegli che il suo Re gli fa l'onore di portare a Corte la sua figliuola, che l'affiderà a saggia matrona, e se saprà rendersi degna di lui, la sposerà fra un anno. -
I due scudieri partirono e il Re fece salire su di uno de' cavalli la pallida donzella e sull'altro il più vecchio e il più fido dei suoi scudieri: - Pena la vita se le accade disgrazia!
Quando furono giunti alla Corte, il Re chiamò Donna Prassede, una saggia vedova, ch'era stata dama della defunta Regina, e le consegnò la fanciulla:
- Donna Prassede, voi la custodirete e le insegnerete le nobili arti d'una principessa; amatela come figliuola, e se la renderete degna di un Re, la sposerò fra un anno. -
Donna Prassede abbracciò la fanciulla, promise, e la condusse ne' suoi appartamenti.
Giocondi scorrevano i giorni di Nannina, vestita da principessa, occupata nelle gentili opre della danza, del liuto, de' vaghi ricami sugli aurei veli, sempre pensando al gran Re suo fidanzato. Egli ogni giorno, quando il Sole spariva all'orizzonte, veniva ad intrattenersi con lei, sotto gli occhi di Donna Prassede, e ogni dì, al lume fulmineo de' suoi occhi, ella acquistava nuova grazia e nuova intelligenza. Ei le diceva incantato:
- Chiaro di Luna, mio dolce lume! -
Ed ella, con adorazione, mormorava: - Gloria di Sole, Gloria di Sole! Re Fulgente, Re potente, siete il mio Sole! -
Così trascorsero sei lune felici, senza nube alcuna che offuscasse il sereno cielo de' fidanzati.
Ma il Re di Spagna, che si era lusingato di dare in isposa la sua figliuola al Re Fulgente, furibondo che questi avesse ritirata la sua mezza promessa, trovò un pretesto per muovergli guerra. Il Re Fulgente dovette partire alla testa del suo esercito, lasciando le cure dello Stato nelle mani del primo ministro, il Tenebroso.
L'ultima sera il Re rimase più a lungo con la principessa Chiaro di Luna e con Donna Prassede, e benchè fosse notte inoltrata e la nera sciarpa coprisse la corazza fiammeggiante, che non lo abbandonava mai, il grande splendore che usciva dal suo volto e soprattutto da' suoi occhi, illuminava la stanza, fino al di fuori de' gotici veroni.
- Donna Prassede, - egli disse, - fra un mese la guerra sarà terminata, io avrò vinto e debellato il mio nemico; se al mio ritorno troverò questo puro giglio sempre degno del mio amore e del trono, io non indugerò più oltre le nozze.
- Gloria di Sole, - mormorò la dolce Chiaro di Luna, - questa speranza m'inonda l'anima di gioia e mi farà sopportare con coraggio la tua lontananza. Se al tuo ritorno tu non mi trovassi degna di te e del trono, i più crudeli tormenti non basteranno a punirmi. Parti, e io passerò i miei giorni a pregare, perchè tu ritorni salvo e vittorioso. -
Con le candide braccia gli cinse il collo, ed egli le pose sulla fronte immacolata un bacio, che a lei parve un suggello di fuoco
- In questo segno vincerò! - egli disse; - e partì.
Ma un infido valletto aveva assistito a questa scena commovente, e, partito il Re per la guerra, raccontò ogni cosa al primo ministro, il quale aveva sempre visto di mal occhio tali nozze con la povera figlia del guardaboschi.
- Se la trova degna di sè e del trono, la sposerà al suo ritorno; bisogna dunque impedirlo. -
Così disse Sua Eccellenza Tenebroso; ed era uomo da spuntarla a qualunque costo.
Ora avvenne che un figliuolo di Donna Prassede, il quale era sempre stato debole e malaticcio, piccino e mal fatto, sicchè lo chiamavano Ragno, morta una zia da cui era stato allevato, tornò a sua madre dal lontano castello. Donna Prassede, che, per necessità del suo ufficio presso la Regina, a malincuore se n'era separata anni prima, lo accolse tutta commossa e lo mise a fianco di Nannina, come un fratello.
Ragno aveva diciotto anni, ma era rimasto piccolo come un bambino, brutto e contorto nel corpo, ma fino d'intelligenza e buono come la pasta dolce. Egli subito volle un gran bene a Nannina, e com'ella era ancora un po' fanciullona, per distrarsi della lontananza del Re fidanzato, giuocava con lui le lunghe ore. Però molte altre ore occupava a pregare e a ricamare una vaghissima sciarpa per l'amato, con gigli d'argento e soli d'oro, legati fra loro da nastri azzurri. Ricamando pensava:- È passato un minuto, un minuto di meno. - E nella sua impazienza si rallegrava. Ma nell'ombra c'era chi lavorava a suo danno.
Il ministro Tenebroso non dormiva, e poichè mancavano oramai pochi giorni al ritorno del Re vittorioso, egli macchinò un infernale disegno, onde perdere Chiaro di Luna.
Scrisse al Re che la principessa gli era infedele, e che amava il figlio di Donna Prassede, che s'era fatto un bellissimo giovine; se non credeva, venisse a vedere.
Ora bisogna sapere che il ministro, che era astuto piú del diavolo, molti anni prima s'era fatti fabbricare da un briccone di mago suo amico, un paio di occhiali che facevano vedere tutto quello che il ministro voleva a chi li metteva sul naso. Vivendo il Re padre, ch'era baggeo un tantino, con la scusa che era miope, lo aveva indotto a portarli sovente, e con tal mezzo gli aveva fatto vedere e stravedere, e fare ogni cosa a suo modo. Ma al giovine Re Fulgente, che non era miope e non era baggeo, non gli era riuscito di farglieli inforcare mai; però sapendo che chi è dominato da una passione, è cieco, sperava di dargliela a bere stavolta.
E così fu. Il Re arrivò in incognito, di buon mattino, dopo aver viaggiato tutta la notte a spron battuto sul suo destriero; era vestito da semplice cavaliere, con l'elmetto e la visiera calata che gli nascondeva la faccia; lo seguiva il suo fido scudiero, ch'era muto come un pesce. Fingendosi un massaggiero del Re, egli si fece subito introdurre dal primo ministro, che, da quel volpone che era, se lo aspettava, ma finse la più gran sorpresa nel riconoscerlo.
- Se ciò che mi hai scritto non è vero, la tua testa rotolerà sul patibolo come una palla da giuoco, - disse il Re con voce terribile. - Tenebroso non si sgomentò nè punto nè poco.
- Sta bene, Vostra Maestà vedrà co' suoi occhi. -
Egli condusse il Re su di una altissima torre, dalla quale si dominavano tutte le terrazze del castello, guardando dai pertugi che erano ai quattro lati. Dal lato del giardino si scorgeva benissimo, benchè a una certa distanza, la terrazza di Donna Prassede, sulla quale Nannina e Ragno solevano venire a trastullarsi in giochi innocenti.
E vennero infatti, e il Re riconobbe la sua pallida principessa dalla slanciata figura, ma l'altro gli parve un bambino.
Maestà, la distanza è grande e voi non potete distinguer bene. Con questi occhiali vedrete come con un bel cannocchiale. - Il Re impaziente di veder bene, inforcò gli occhiali, e vide un bel giovane che trattava la principessa come si farebbe con la sorella o con la fidanzata; sorella non era, dunque? Essi si rincorrevano; si gettavano, scherzando, delle foglie e dei fiori raccolti dai vasi che adornavano il terrazzo; si pigliavano poi per mano, e si abbracciavano, senza un riguardo al mondo.
- Ho visto abbastanza, - disse il Re ritirandosi tutto fremente di terribile ira. - Gli scellerati saranno puniti come si meritano. Tu non fiatare fino al mio ritorno, pena la vita!
Tenebroso si fregava le mani nascostamente: - Ah, ah! la guardaboschi sarà restituita alle sue selve; quella superba di Donna Prassede sarà punita, e il Re sposerà la principessa di Spagna. -
Fu annunziato il solenne ritorno del Re dalla guerra, e furono bandite grandi feste per riceverlo. Chiaro di Luna, benchè stupita che non lo avesse fatto sapere a lei per prima, si apprestò con grande allegrezza ad incontrarlo: ella era ben degna di lui, e fra un mese sarebbe stata sua sposa.
Vestita di un abito tessuto d'argento e ricamato di perle fine, co' capelli intrecciati con file di brillanti, ella andò ad incontrare il suo Re alle porte della città; le era a fianco Donna Prassede, nobilmente vestita di velluto color viola; andavano innanzi due fanciulline bianco-vestite, che reggevano ghirlande di fiori e la ricca sciarpa, ricamata dalla principessa nell'assenza dell'amato. Ragno, vestito da paggio, sosteneva il lungo strascico argentato della principessa; uno stuolo di giovani damigelle la seguiva; ed era un mirabile corteo a vedersi.
I raggi ardenti che partivano dalla magica corazza del Re, seguito da' suoi guerrieri, lo annunziarono vicino; tutti chinarono il capo, per forza, e le fanfare suonarono alte nell'aria. La principessa teneva in mano un sol fiore, un giglio, emblema della sua fata protettrice, e della candida fede serbata; il destriero del Re si fermò davanti a lei, ed ella, sempre chini gli sguardi, offerse al Re, suo fidanzato, il fiore, con queste parole:
- O mio Re adorato, o mio Sole, gradite un profumato pegno della mia fede.
- Olà, guardie, gettate in un carcere la traditrice! -
Queste terribili parole piombarono come un fulmine sul capo della disgraziata, che cadde nelle braccia di Donna Prassede; le guardie le separarono e le arrestarono entrambe.
Quanto al bel giovane, che il Re aveva veduto con la principessa, egli lo cercò invano: nessuno sapeva che esistesse un altro figlio di Donna Prassede; bensì al Re mostrarono Ragno vestito da paggio, ma egli non se ne curò e lo lasciò libero.
Chiaro di Luna fu gettata in un carcere tetro ed oscuro, dove a lei, che adorava il Sole, pareva di morire di minuto in minuto.
- Oh! senza sole, senza luce come posso io vivere? -
Ma la sua maggior pena non era questa, bensì che il Re la stimasse traditrice della fede data; e notte e dì, piangente, sospirosa, esclamava: - Re Fulgente, Re potente, credi a me! -
Ma il Re non l'udiva e non voleva vederla.
La principessa aveva freddo, aveva freddo nel suo abito d'argento ed implorava: - Gloria di Sole, Gloria di Sole, riscaldami! -
Ma il Re Fulgente non l'udiva e non voleva venire.
La principessa si dava alla disperazione, quando una notte, nella oscurità rotta solo da pallidi riflessi, vide apparire, candida e luminosa, la fata Giglia, sua madrina.
- Oh, fata Giglia, salvatemi, salvatemi! - esclamò la poveretta.
- Cara fanciulla, - disse la fata, - tua madre non ebbe una buona idea raccomandandoti a me; io sono la fata della Malinconia, e alla corte delle fate, come anche fra gli uomini, la malinconia non ha prestigio, è sfuggita da tutti; anche nel regno delle fate, è fata Allegria che impera e che domina l'animo della nostra regina. Il mio potere è assai limitato; le gaie fate e i maghi astuti sono tutti più forti di me. Però, se io non posso darti immediatamente la felicità, posso darti la costanza, che è una delle più rare e più belle virtù. Ama, sopporta e spera! -
Ed in un raggio di luna la bianca, fata scomparve. Nannina subito s'addormentò, e dormì placidamente, sognando il suo Re. A cert'ora la svegliò un tocco leggiero, come una carezza di piuma sulla guancia; vi portò la mano, e prese fra le dita un insetto; alla mite luce che la sua persona spandeva intorno, riconobbe un piccolo ragno, che era sbucato da una fessura della parete.
- Sono Ragno, il tuo fratellino; la fata Giglia mi ha mandato a te; comandami!
- «Ragno, ragnetto.
Buone nuove aspetto».
- E buone nuove sono, - parlò il ragno.
Ella lo accarezzò lungamente, ed egli le spiegò come la fata gli avesse dato il potere di cambiar figura, per venire a consolarla e ad aiutarla.
- A casa ho un frutto d'oro, toccando il quale io posso tornar uomo o cambiarmi in ragno ogni qualvolta lo voglio. Dimmi, che posso fare per te, sorellina cara?
- Va' dal Re mio sposo, digli che notte e dì piango, e lo imploro di ascoltarmi un momento solo. -
Ragno promise e se n'andò per la fessura donde era venuto.
Che cosa disse, che cosa fece per indurre il Re ad acconsentire al desiderio della prigioniera, nessuno lo seppe mai. Fatto sta che il Re acconsenti; ma però non intendeva perdonare, anzi!
La sera stessa, quando la nera oscurità del carcere era rotta solo dai pallidi riflessi, che il corpo della principessa spandeva, la porta girò sui cardini rugginosi, e una luce abbagliante inondò la nuda cella, e fece fremere la donzella, che si mise ginocchioni, tutta avvolta nel suo abito d'argento:
- O mio Re, o mio sposo, sono innocente, lo giuro! -
- Or bene, se sei innocente, guardami e il fuoco della mia corazza non ti offenderà. -
Ella arditamente levò gli sguardi sulla persona del Re Fulgente; subito con un grido acutissimo si portò la mano agli occhi e cadde svenuta sul duro terreno.
Quando rinvenne, si credette ancora nel carcere, poichè non vedeva pur un bagliore di luce; ma il letto era morbido e dei singhiozzi risuonavano al suo orecchio; ella chiese fiocamente: - Dove sono? -
Si sentì abbracciare il capo e una voce rispose: - Presso tuo padre, mia Nannina! -
- Chi mi ha condotta?
- Le guardie del Re.
- Oh! re crudele, che m'hai tolto il più prezioso bene, la luce degli occhi, io ti amo ancora. O Sole, o Sole, Gloria di Sole, torna a me! -
Allora suo padre, credendo che ella invocasse il sole che brillava sui campi, la condusse fuori, nel vasto cortile fiorito che circondava la casetta. La fanciulla, sentendone il calore, parve un po' riconfortata, e su di un basso sgabello, appoggiata al muro, stette fino a che il sole non iscomparve dietro agli alberi del bosco.
Così ogni giorno, per un mese intero. Ella pensava: -
Il mio soggiorno alla Corte del Re fu un sogno? No, non fu sogno, fu cosa vera, poichè io adoro sempre il mio Re. - E allora si gettava ginocchioni con la faccia al Sole che non poteva più vedere, e chiamava con angoscia: - Gloria di Sole, Gloria di Sole, ridonami la luce! -
E intanto i caldi raggi le infondevano coraggio.
- Ama, sopporta e spera! - le aveva detto la fata Giglia.
Avvenne che un giovane pastore dei dintorni, che molto avea pianto quando il Re aveva portata Nannina alla Corte per farla sua sposa, saputo delle tristi vicende di lei, le si presentò e disse: - Un re ti ha respinta e un pastore ti raccoglie. Benchè cieca, vuoi tu esser mia sposa?
- Siete buono, o Fidelio, ma io ho dato la mia parola al Re Fulgente: io amo il Sole, e non posso amare che il Sole.
Intanto alla Corte del Re, accadevano strane cose. Il Re, partitosi dal carcere con la crudele soddisfazione di aver punita l'infedele, non credendo alla sua innocenza, ma non osando farla morire, aveva ordinato che fosse riportata a suo padre. Ma subito s'era accorto che la gente poteva guardarlo tranquillamente, senza rimaner accecata. Ahimè, la magica corazza aveva perduto il suo splendore, ed egli stesso, il Re, si sentiva senza prestigio, immiserito e privo di coraggio!
Si dovevano riprendere le ostilità col Re di Spagna, ma Re Fulgente mandava le cose per le lunghe, consigliato da Sua Eccellenza Tenebroso; ora che al Re si era indebolita anche la vista, gli faceva sovente inforcare le lenti, con le quali vedeva e stravedeva tutto quello che il ministro voleva.
Donna Prassede fu messa a morte, come quella che aveva mancato al dovere assunto verso il Re di custodire santamente la sua fidanzata, e Ragno, il povero Ragnetto, benchè il Re non sospettasse che fosse lui quel bel giovane che aveva veduto giocare con la principessa Chiaro di Luna, fu mandato in esilio da un momento all'altro, e ciò solamente perchè egli si era intromesso nella faccenda; nè si capiva come avesse fatto a parlare con la principessa rinchiusa nel fondo di una prigione, sotto catenaccio.
Dopo queste punizioni, il Re non si sentì più felice; la perdita del prodigioso potere della corazza, mettendolo a livello degli altri uomini, lo avviliva orribilmente. Era divenuto così triste e cupo, da esserne quasi malato; e intanto il primo ministro faceva alto e basso e trionfava: e il popolo mormorava:
- «Re Fulgente è un pecorone.
Tenebroso è il suo padrone.»
La cosa non poteva durare. Gli amici del Re pensarono che, se la corazza aveva perduto il suo potere, bisognava trovare il mago che l'aveva fatta; ma dove trovarlo? Il mago era stato amico della Regina madre, e, per farle piacere, aveva regalato al principe Fulgente la portentosa corazza, quando egli compiva quindici anni, ma da allora nessuno l'aveva più veduto; la Regina era morta e non poteva parlare.
Cerca di qua, cerca di là, per monti e per valli, il mago non si trovava. Il Re si provò ad invocarlo la notte, ma il mago non compariva; invece gli compariva in sogno Chiaro di Luna, vestita d'argento, vilipesa, cieca e gli gridava la sua innocenza; ma egli non voleva credere.
- Ho veduto co' miei occhi! -
Si, ma invece de' suoi occhi, eran gli occhiali di Tenebroso, ed egli non ci pensava. Però piangeva secrete lagrime, lamentandosi: - Chiaro di Luna, mio dolce lume, perchè non mi fosti fedele, che saresti mia sposa? - E intristiva sempre più, e sembrava proprio malato, e a lui niuna cosa pareva più bella.
Così non la doveva durare. Una notte, che non poteva dormire, sentì una strana carezza sulla guancia; prese in mano l'insetto e vide un ragno ch'era sbucato da una fessura della parete.
- «Ragno, ragnetto.
Buone nuove aspetto». -
- E buone nuove porto, - parlò il ragno. - Troverò il mago, e lo condurrò a te. - Poscia scomparve per la fessura di dove era venuto.
Il Re credette di aver sognato. Ma qualche giorno dopo gli fu detto che un vecchione domandava udienza; subito sperò qualche cosa di buono, e ordinò di farlo entrare. Il vecchio era sostenuto da un pastorello storto e piccino, coperto di pelli di capra, nel quale nessuno riconobbe Ragnetto. D'altronde non guardavano che il vecchio, che era così vecchio, vecchio, vecchio, che la barba e i capelli gli scendevano come un manto d'argento sulla persona curva e cadente; gli occhi, sotto alle lunghe e folte ciglia bianche, non s'aprivano mai; egli si chiamava il mago Gabrino, ed aveva duecento e dieci anni.
Ragno, consigliato dalla buona fata Giglia, lo aveva scovato in fondo alla grotta di un monte, dove piede umano non era mai penetrato. Il vecchione che da dieci anni di seguito dormiva, udito il caso del suo protetto, il Re Fulgente, capì di che si trattava, e volle secondare le buone intenzioni della bianca fata della Malinconia.
- Andiamo, - aveva detto a Ragnetto. - E in men che non si dica erano stati attaccati sei pipistrelli ad un carro, che per l'aria li trasportò alle porte della capitale, dove Re Fulgente, dopo il suo errore, languiva.
Quando il vecchione fu al cospetto del Re, gli disse - Io sono il mago Gabrino, che ha fabbricata per te la corazza raggiante.
- O padre mio, - disse il Re, commosso di gioia, - permettete ch'io vi abbracci. Ed ora, ridonate alla corazza lo splendore, alla mia persona il prestigio, al mio cuore la felicità.
- Sire, non posso, - disse con fievole voce il vecchio mago.
- Come! perchè non puoi?
- La corazza doveva perdere il suo potere se tu avessi accecato un innocente. Tua madre, credendoti un giusto, non te ne avvertì.
- Oh! che mai dici? Pensa a ciò che dici, vecchio! Io ho veduta la colpa coi miei occhi... -
- Vuoi dire con gli occhiali del tuo ministro! Un onesto mago non mente; se vuoi credere, credi; ripara il fallo, e la corazza ritroverà il suo splendore, la tua persona il prestigio, il tuo cuore la felicità. Caso diverso, io non posso nulla per te. - E se n'andò sostenuto da Ragno, che nessuno aveva riconosciuto.
Il re si chiuse nelle sue stanze e non volle vedere più alcuno. Allora una gran luce si fece fra le tenebre che il ministro gli aveva addensate intorno. Egli stesso era la causa di tutti i suoi mali, egli aveva fatta condannare una innocente, aveva vilipesa, accecata la dolce e pura Chiaro di Luna, che era degna del suo cuore e del trono!
Per tre giorni e tre notti il Re, coperto il capo di cenere, senza prender altro che acqua, fece penitenza.
Poi rimise la corazza, che era stata gettata in un canto come un ferravecchio, e disse:
- Riavrai il tuo splendore, parola di Re. -
Quel giorno la povera Nannina, assistita dal buon Fidelio, s'era fatta condurre sul limite del bosco; la giornata era grigia e la cieca era triste, più triste del solito. Invano Fidelio s'era messo a suonare il suo piffero per divertirla, ella lo udiva senza alcun piacere. A un tratto gli fe' cenno di tacere, e si mise ansiosamente in ascolto: - Non odi tu un lontano scalpitar di cavalli?
- Io nulla odo, fuor che lo stormir delle fronde nel bosco. -
Ma poco dopo anche a lui parve udire un lontano calpestio.
Alla cieca si andava illuminando il viso, come per una gran gioia: - Non senti tu il calore del sole raggiante?
- Io nulla sento, fuor che l'umida brezza che soffia dalle grige nuvole. -
Ma poco dopo, apparve in fondo alla strada una brillante comitiva di cavalieri.
- È lui, è lui! - gridava la cieca. - È il mio Re, è il mio Sole! È il mio sposo, che viene a ridonarmi la vita, e la luce. È Re Fulgente! -
Era infatti Re Fulgente, ma la corazza non isplendeva ancora del suo meraviglioso splendore. Intorno al braccio egli portava la superba sciarpa a gigli d'argento e soli d'oro ricamata dalla fedele fidanzata nella sua assenza.
Il povero Fidelio, al solo vedere il Re da lontano, spaventato, scomparve nel bosco; Chiaro di Luna si mise ginocchioni per ricevere il suo sovrano. La nobile comitiva si arrestò davanti alla povera cieca, la figlia del guardaboschi; una voce forte e soave s'intese:
- Chiaro di Luna, mio dolce lume, perdonami! -
- Gloria di Sole, io ti adoro e ti perdono! -
A queste parole, la corazza del Re, lucente appena di splendore metallico, si accese di un gran fuoco, dell'antico splendore di sole. - È il Sole, è il Sole! - gridò la cieca, benchè fosse sempre cieca.
In una portantina ricchissima fu fatta salire colei, che già chiamavano Regina, e fu portata a corte trionfalmente. Il ministro Tenebroso si mangiava le unghie, che portava assai lunghe, e in un impeto di rabbia ruppe i famosi occhiali dell'inganno, intendendo bene che non gli sarebbero più serviti per il Re, così illuminato e giusto. A Corte si fecero le nozze
Con rave composte,
Gati pelai,
Sorti scortegai:
Se la volè più longa,
Tagieve el naso e feve una tromba.
E qui la fiaba sarebbe finita; ma, se la volè più longa, c'è una coda; ed è questa: Chiaro di Luna, fra tante belle cose, non aveva ricuperata la vista.
Il Re n'era disperato e, riconosciuti i meriti di Ragno, lo pregò d'indurre i suoi amici, la fata Ciglia e il mago Gabrino, a ridonarle la vista.
Il mago rispose: - Ogni ingiustizia ha da lasciar la sua traccia.
La fata disse: - Io l'ho toccata al suo nascere con le dita candide come i petali del giglio, ed ella non poteva essere completamente felice, perchè io sono la fata della Malinconia. Nessuno è interamente felice sulla terra. Ella ama il Sole, è amata da un Re: si contenti. -
E la regina, così bella e così pallida, rimaneva cieca; quando il Re, suo sposo, se ne rimproverava, aspramente, ella rispondeva sorridendo: - Che m'importa della luce degli occhi, se ho la più bella luce dell'anima? Io sola posso tener alta la fronte davanti alla tua prodigiosa corazza raggiante: Gloria di Sole, sei tu la mia luce! -
Un anno dopo dava alla luce un principino, il principe ereditario. La fata Giglia regalò una culla tutta di fiori freschi, che avevano la magica proprietà di non appassire mai, finchè il bimbo avrebbe riposato in culla. Il vecchione Gabrino venne anche lui dalla sua remota caverna e disse alla Regina: - Vo' farti un dono; che desideri tu?
- Veder con gli occhi la mia creatura!
- Or bene, la penitenza è finita; una madre non deve esser cieca. -
Così disse il mago, e con la sua bacchetta sfiorò gli occhi di Chiaro di Luna, che tosto li riaprì alla luce. Ella subito si beò nella vista della sua creatura. Il Re, che era presente, pianse di gioia come un bambino.
-Ed ora, amici miei, sono stanco e ve la dico, - fece qual tale che raccontava fiabe:
Chi più ne ha, più ne metta,
Che per me ho la gola secca
E vo a berne una foglietta.