Edizione Italiana
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    Vittoria Colonna

    Capitolo del trionfo di Cristo

    Poichè ’l mio Sol, d’ eterni raggi cinto,
    Nel bel cerchio di latte fè ritorno,
    Dalla propria virtute alzato e spinto;
    Già sette volte avea girato intorno
    I segni, ove ne fa cangiar stagione,
    Chi porta seco in ogni parte il giorno;
    E lasciando ’l nemico d’ Orione,
    Spronando i suoi corsier, leggier entrava
    Ad albergar col suo saggio Chirone.
    Tutta ornata di rose allor alzava
    Gli occhi a licenziar l’ ultime stelle
    L’ aurora, e i bei crin d’ or larga mostrava;
    Quand’ io le voglie alla ragion rubelle
    Conobbi, essendo ’l dì, che ’l duolo antico
    Fa, che con maggior forza io rinnovelle.
    Allor del pianto amaro al dolce amico
    Pensier, che mi consola, e ben può darmi
    Tutto quel bene, onde ’l mio cor nutrico,
    Stanca mi volsi, e ricordar pur parmi,
    Ch’ egli allor preso avea l’ usate penne
    Per poter poi da terra alta levarmi;
    Ma più che nettar dolce un sonno venne,
    E l’ alma, quasi del suo carcer fuore,
    Quel, che dall’ un volea, dall’ altro ottenne:
    E tanto ad alto, ove la scorse Amore,
    Volò, ch’ io vidi la mia luce ardente
    Mostrar più vivo il suo divin splendore.
    Era ancor lungi sì, ch’ un’ altra mente
    Non la vedria, che ’l piacer falso in terra
    Contra ’l dritto voler cieco consente;
    Ma colui, ch’ in un punto pace e guerra
    Può darmi e tor, tanto al suo dolce lume
    M’ avvezza, che non sempre il desio erra:
    Onde strada al mio andar fece il costume
    Di seguir l’ orme chiare, e fuggir l’ ombra,
    E diede al mio volar veloci piume:
    E giunsi al Sol, ch’ agli occhi miei disgombra
    Quel d’ ignoranza, nel che a noi mortali
    Spesso ’l veder intorno appanna e adombra.
    Ed udì dir: perchè tra tanti mali
    T’ intrichi ognor? vien meco, acciò là scorga
    Spirti, ch’ al merto tuo non sono uguali.
    Ma pria convien, che tutta umil mi porga
    Gli occhi, e intenti sì, che di quel poco
    Raggio, che in me lampeggia, almen t’ accorga:
    Onde la vista accesa a poco a poco
    Acquisti tal vigor, che non l’ offenda
    Maggior di questo assai più puro foco:
    Convien, che ’l modo e la ragion tu intenda,
    Come a chi quà su vien dolor si tolga,
    E di vero piacer la veste prenda;
    E che sappi tra noi quanto si dolga,
    Che in terra vegga alcun, ch’ abbia già amato;
    Ch’ in ver gli scogli la sua barca volga.
    Che se s’ appaga e gode ogni Beato
    Nel mirar solo il primo eterno Amante,
    Il natural desio non è cangiato
    D’ amar chi ama, anzi è ferma e costante
    Carità vera quì, che non si scema
    Pel variar dell’ opre, o del sembiante.
    Tu scorgi allor, diss’ io, com’ arde e trema
    Dinanzi ai raggi tuoi la mia virtute;
    E qual speme e timor l’ ingombri e prema.
    Di fiamme vive, e di saette acute
    Arso e punto fu il core il giorno, ch’ io
    Posi nelle tue man la mia salute.
    Vorrei gli umani error porre in oblio,
    Ch’ essendomi tu guida, a maggior cose,
    Ch’ a mio stato non lice, ergo ’l desio.
    Per man lieto mi prese, e non rispose
    Ai detti miei, ma allor seco mi strinse
    Sì, che nel suo splendor tutta m’ ascose:
    Ond’ io potea (sì del suo bel mi cinse)
    Veder quasi in un specchio quel, che ’l Cielo
    Sol per suoi prieghi agli occhi miei dipinse;
    Ma pria sentì, com’ un squarciar di velo
    A me d’ intorno, e caldo e puro vento
    Tutta infiammarmi d’ amoroso gielo.
    Fa, ch’ io possa ridir quel, che pavento,
    Tu che lo stato, e la salute al mondo
    Amor donasti, e sei di te contento.
    Io vidi allor un carro tal, ch’ a tondo
    Il Ciel, la terra, il mar cinger parea
    Col suo chiaro splendor vago e giocondo;
    Sovra l’ Imperador del Cielo avea
    Quel, che scese fra noi per noi scampare
    Del servir grave, e della morte rea.
    E come molti empir l’ invidie avare
    De’ beni altrui, superbi trionfando,
    Vil voglie d’ un ingordo empio regnare;
    Costui vinse e donò ’l suo Regno, quando
    In sacrificio se medesmo diede,
    Col puro sangue il nostro error lavando.
    Sua la vittoria, e nostra è la mercede:
    Fece, che vita abbiam del suo morire
    Noi, ch’ eravam del gran nemico prede.
    Io avea già di tanto aspro martire
    Da mille inteso, e in mille carte letto;
    E con sospir di quel solea gioire:
    Però dinanzi a sì novo cospetto
    Non mi fu dunque la mia scorta presta
    A trar d’ errore e dubbio l’ intelletto.
    Io vedea l’ onorata e sacra testa,
    Che suole aver di stelle ampia corona,
    Di spine averla acute ora contesta:
    E piagata la man, che toglie e dona
    Al Ciel corso, al Sol luce, ai mortal vita,
    Qui virtù, là su gloria eterna e buona.
    Su gli omer santi, acciò ch’ al Ciel gradita
    Sia l’ umil nostra spoglia, io vidi ’l legno,
    Ch’ a pianger sempre il primo error m’ invita;
    Quel del nostro gioir securo pegno,
    Ch’ adorar con le man giunte si deve,
    Perch’ ei sostenne il nostro ver sostegno.
    Non fu alle sante spalle il peso greve,
    Quanto dovrebbe, oimè, del nostro affanno
    Tal rimembranza farne spesso lieve!
    Sul carro, alla man destra, in real scanno
    La Vergin era d’ ogni virtù esempio,
    Per cui possiam fuggir l’ eterno danno.
    Costei fu innanzi a tutti i tempi Tempio
    A Dio sacrato, e vidi, e sapea come
    Con umiltà calcò ’l superbo e l’ empio.
    Ai santi piè colei, che simil nome
    Onora, vidi ardendo d’ amor lieta
    Risplender cinta dell’ aurate chiome;
    La mosse a pianger qui ben degna pieta;
    Onde ’l Ciel vuol, che con egual misura
    In vece del dolor la gloria or mieta:
    Poi ch’ ella resse la sua fe secura,
    Non volse ’l piè fedel, nè strinse ’l pianto;
    Ma con cor fermo, e con pietosa cura
    Sola rimase, e dentro al suo bel manto
    Mille chiare virtù davan conforto
    All’ alta voglia, al grande animo santo.
    Al sepolcro cercando il Signor nostro,
    L’ apparve vivo, e diede alto e felice
    Al gran mar delle sue lagrime porto.
    Beata lei, che ’l frutto e la radice
    Sprezzò del mondo, e del suo Signor ora
    Altra dolcezza e sempiterna elice.
    Io che da un altro Sol più vaga aurora
    Illustrata vedea, con altro caldo
    Di quel, che i nostri fiori apre e ’ncolora,
    Tenni qui gli occhi fisi, e ’l pensier saldo.


    FINE




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