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Vittoria Madurelli Berti
Epigrammi
Dedica
AL CHIARISSIMO SIGNORE
FRANCESCO D.r BELTRAME
IMPERIALE REGIO AGGIUNTO ALLA DELEGAZIONE PROVINCIALE DI VICENZA
L’AUTRICE
A chi do il lepido nuovo libretto,
Ch’or vien dal nitido torchio perfetto?
A Te che volgere, Signor, non tardi
A queste inezie vorrai gli sguardi;
Chè Tu di Pallade coli gli studj,
Tu sulle pagine pur geli e sudi:
Tu del bicipite vocal Permesso
Ogni recondito scorri recesso;
E Febo-Apolline Ti die’ tal cetra,
Ch’alto ne suonano Pindo e Libetra.
Te nuovo Sofocle gemer più volte
Udir le attonite sceniche volte;
Ed a Te plaudere udissi intanto
Il Calidonio sire del canto.
Tu caro a Temide, a Sofia caro,
Per più d’un utile lavor preclaro,
Questi ricovera, benchè mal tersi,
Quali essi sieno poveri versi.
E voi, Pieridi, faconda schiera,
Fate il mio picciolo libro non pera.
I.
Lidia dice ogni sera
Veder nella sua stanza la versiera:
Che stolta creatura!
Egli è lo specchio che le fa paura.
II. A BELLA.
Perchè sei ricca e bella,
Tu sei superba, o Bella;
Ma donna ricca, bella ed orgogliosa,
O Bella, è brutta cosa.
III. ALLA STESSA.
Perchè sei bella, un epigramma bello
Mi chiedi; ma s’è bello, tu non sai
Che più di tua bellezza ei vale assai?
IV. DA ANONIMO FRANCESE. SOPRA UNA DONNA CHE PARLAVA SENZA LINGUA.
Che una donna vi sia,
Che senza lingua parli,
Stupor non è, qual fia
Se l’abbia e che non ciarli.
V. AD UN GALANTE.
Leggiero muovi il passo,
Guardi leggiero a basso;
È leggiero il mantello,
Leggiero il tuo cappello,
Leggiero il carrozzino,
Leggiero l’ombrellino:
Si vede daddovero
Che sei tutto leggiero.
VI. A BELLA DONNA.
Se quanto bella sei,
Sciocca non fossi ancora,
Piacer potresti allora.
VII. DA MARZIALE.
Se ti nego il mio libro, ho gran ragione,
Perchè il tuo mi daresti in guiderdone.
VIII. AD UN PROGETTISTA.
Di far castelli in aria
Il tempo or s’è compito,
Poichè tu n’hai ripieno l’infinito.
IX. AD UNA POETESSA.
Quando vai camminando per la via
T’agita Febo, oppure frenesia?
X. DA MARZIALE.
Trenta epigrammi qui ci son cattivi:
Se tanti sono i buoni,
Fra gli ottimi, o lettore, il libro scrivi.
XI. DALLO STESSO.
Rosso il crin, guercio, zoppo, e nero il volto,
Zoilo, se tu sei buono, egli è pur molto.
XII. A SCRITTORE DI FAVOLE.
Son le tue favole celebri rese,
Talchè la favola sei del paese.
XIII. DA OVENO.
Ad ognuno che legge, ovver che ascolta,
Se credessi piacer, sarei ben stolta;
Ma ad alcuno spiacer sopporto in pace;
A me pur anche ogni lettor non piace.
XIV. DALLO STESSO.
Tutto, da lor degenere,
Aulo, tu devi appunto agli avi tuoi;
Nulla i nipoti a te dovran dappoi.
XV. A SCRITTORE DI COMMEDIE.
Vuoi che sul libro delle tue commedie
Per le risa il lettor divenga matto?
Ponci per antiporta il tuo ritratto.
XVI.
Le larve per le maschere
Si tingono di biacca e di cinabro;
Or se quante son femmine
Che n’han dipinte le mascelle e il labbro,
Dato mi fosse di poter mostrarve,
Quante galanti diverriano larve!
XVII. DA MARZIALE.
Scrivi pur contro me, ch’io tel permetto:
Nulla scrive colui che non vien letto.
XVIII. DELLO STESSO. A DIODORO.
Festeggia il tuo natal tutto il Senato;
Ma veruno non sa che tu sia nato.
XIX. DALLO STESSO.
Tu, seguace di Venere,
Hai Pallade dipinta, Artemidoro;
E come vuoi che piaccia il tuo lavoro?
XX.
Non basta certo per difesa agli occhi
Sparger d’acqua la polve in Campo Marzio;
Convien levare il fumo a certi cocchi.
XXI. DA GOMBAUD.
Se non vuoi colle donne aver de’ guai,
Non le fuggire, Albin; guardale assai.
XXII.
Taccia Silvio i poeti di follia:
Se fosse ver, gran vate egli saria!
XXIII. A FORONIDE.
Ad Elena simile io ti direi,
Poichè, dal bello in fuori,
Perfettamente rassomigli a lei.
XXIV. DA OVENO.
Schiavo a doppia ignoranza, o Lino, stai;
Non sai nulla, e nol sai.
XXV. PER UN CANE CHE TRADUCE ALCUNE PAROLE IN LATINO.
Maraviglia ella è certa,
Che tu dal Tosco nel Latin converta
Quel vocabolo e questo;
Ma poi non è miracolo codesto;
Chè se tanto non san certi dottori,
Cani, qua! tu, son tanti traduttori.
XXVI. DA MARZIALE.
Del vate Teodoro
La biblioteca ha divorato il foco:
E Febo sofferì tanto disdoro?
Ah Numi ben dappoco!
Oh gran fallo! oh sciagura! E per qual fato
Con essa anco il padron non s’è bruciato?
XXVII. DA OVENO.
Non v’ha, diceva un pappagallo, al mondo
Un altro augello al par di me facondo;
A cui soggiunse un’oca: e dove trovi
Altro che meco a scrivere si provi?
XXVIII. DA AUSONIO.
Infelice Didon! di due mariti
Misera negli amori:
Muor l’uno, e fuggi; fagge l’altro, e muori.
XXIX.
Apollo un tempo fu a guidar gli armenti;
E per questo addivien ch’anco oggidì
Ha tra’ seguaci suoi tanti giumenti.
XXX.
A ragion, non ad arte,
Le donne fansi giovani:
Son fanciulle di senno una gran parte.
XXXI. DA AMALTEO.
Ad Alcon la luce manca,
A Leonilla l’altra manca
E l’un l’altro i Dei del ciel
Vincer può col viso bel.
Or la vaga tua pupilla,
Bel figliuol, dona a Leonilla:
Tu così sarai Cupido,
E la Diva ella di Gnido.
XXXII. DA MARZIALE.
Solo i poeti antichi a te son grati;
Da te i morti sol vengono lodati:
Ma da tanto non sei, scusa, o Vacerra,
Che per piacerti io voglia andar sotterra.
XXXIII. DALLO STESSO.
Taide losca vuol trarre
Quinto alle nozze sue:
Ella è priva d’un occhio, ei d’ambedue.
XXXIV.
Quando Prometeo col rapito foco
Nel rozzo uman cerèbro
Diede al buon senno loco,
Certo a que’ dì non v’erano galanti;
Chè son stupidi ancora tutti quanti.
XXXV.
Bellissimo davvero il tuo libretto;
Chè della legatura
Non può darsi lavoro il più perfetto.
XXXVI.
Se bello e tutto ciò, di cui vi sia
Fra le parti armonia,
Poichè si bene in te risponde l’alma
Alla corporea salma,
Tu alle Furie sebben paja sorella,
Possiamo tuttavia chiamarti bella.
XXXVII.
Se come Teseo Arianna, infido amante
Te, Venustilla, abbandonò il servente,
Non isparger però lagrime tante,
Chè Bacco hai per supplente.
XXXVIII.
Un tempo i Numi irati
In bestie trasformavano i viventi:
Or lupi e talpe e nottole e giumenti
In uomini si veggon trasformati.
XXXIX. DA NEUFCHATEAU.
Del preside Cleon qui il cener posa,
Che facea di giustizia mercatura,
Estimando che fosse sconciatura
Donar per nulla una sì rara cosa.
XL.
Antonietta in inglese
E in alemanno parla, ed in francese:
Ond’ha tre lingue pronte,
Come Cerbero appunto in Flegetonte.
XLI.
Sta dieci ore a lisciarsi Eleonora,
Per esser vista a messa un quarto d’ora.
XLII. DA LE MONNOYE.
Tu di me dici male, io ben di te;
E non crede nessun nè a te, nè a me.
XLIII.
Con volanti destrier su cocchi aurati
Vantasi Fatuo divorar le vie;
Ma per ciò fare i beni ha divorati.
XLIV. A DUE AMICHE GALANTI.
Chi non diravvi a Pallade dilette,
S’ell’ama le civette?
XLV.
Marzia è grande maestra senza fallo:
Ha insegnato a parlare a un pappagallo.
XLVI. A RUSTICO.
Senza nemici alcun non v’ha che sia:
N’hai tu pur uno, ed è la Cortesia.
XLVII. A VETUSTILLA.
Il tuo ritratto è bello, e in vero assai
T’assomiglia, poichè non parla mai.
XLVIII. AD UN PSEUDO-AVVOCATO.
Io calco il foro, vai dicendo al mondo;
E n’hai ragion, chè gli sei grave pondo.
XLIX. ALLO STESSO.
Ei fu racconto vero
Di quel che al cimitero
Vide uno spettro andar girando intorno:
Tu ci fosti in quell’ora ed in quel giorno.
L. DA MARZIALE.
Sei bella: il so; fanciulla sei: gli è vero;
Sei ricca: ognun s’accorda nel pensiero;
Ma se troppo lodar ti vuoi, Fabulla,
Non sei ricca, nè bella, nè fanciulla.
LI. DALLO STESSO.
Muove liti Diodoro in ogni lato,
Sebbene afflitto sia dalla podagra;
Ma quando ha da pagare l’avvocato,
Il suo male convertesi in chiragra.
LII. DALLO STESSO.
Vuoi poeta sembrar, e nulla reciti;
Ma sii qual vuoi, Mamerco,
Purchè nulla tu dica, io più non cerco.
LIII. DALLO STESSO.
Son miei que’ versi, è vero;
Ma allora che tu recitar li vuoj,
Cominciano esser tuoi.
LIV.
Scrive de’ pizzicagnoli
Nelle botteghe, ovver degli speziali,
Certo tale sonetti e madrigali:
Cosi i suoi versi un dì non si dorranno,
Se ov’ebber culla anche la tomba avranno
LV.
Se a’ tempi nostri Archiloco
Avesse a saettar tutti i Licambi,
Vorrebbergli ogni dì sei mila jambi.
LVI.
Cogli occhiali oggidì vanno i Zerbini;
E la ragione è soda:
Son ciechi d’intelletto i poverini.
LVII. DA OVENO.
Che la fortuna sia propizia spesso
Al tristo, all’ignorante,
Se a me nol credi, credilo a te stesso.
LVIII. DA ANONIMO FRANCESE.
Sciocco ti crede, e n’ha ragion Selvaggio,
Perchè tu il credi saggio.
LIX. DA GOMBAUD.
T’è sì amica Fortuna,
Qual se a Virtude ell’abbia
Giurato di far rabbia.
LX.
Se nell’Odrisie selve
Al suo canto traeva Orfeo le belve,
Tu, Lidia, come puoi torcere il naso,
S’odi alcun verso recitare a caso?
LXI.
Mi chiese un antiquario a qual stagione
Sia da fissar l’origine
Della conversazione:
Io dissi del Diluvio ai dì fatali,
Poichè allor con quattr’uomini
Stavano accolti insiem tanti animali.
LXII. AD UN ARCHITETTO.
Per tempio arso e distrutta
Erostrato è famoso:
Tu il se’ qual lui per tempio or or costrutto.
LXIII.
Sta con un libro in man, per far la dotta,
Alla finestra tutto giorno Isotta:
Quel le cadde una volta, e fu trovato;
Ma non era nè scritto, nè stampato.
LXIV.
Di gettar gravi pietre senza novero
Deucalion gia lasso,
Volle provar se il sovero
I portenti operasse anch’ei del sasso:
Gittonne un picciol tronco, e in sull’istante
Il primo ne sortì leggier galante.
LXV. AL FIGLIO DEL MIO SPOSO.
Sei bello più del figlio
Dell’alma Dea di Gnido,
Perchè non hai sul ciglio
La benda di Cupido.
LXVI.
Suole in conversazion donna galante
Trattenersi col cane e coll’amante:
Se ci fosse il marito in compagnia,
Che bel quadro di bestie si faria!
LXVII.
Se, qual la grandin può, valesse ancora
A discacciar le tenebre la paglia,
Direi che molti portano a quest’ora
D’essa bianco tessuto ampio cappello,
Il bujo a diradar del lor cervello.
LXVIII. DA OVENO.
Elogi a cotant’asini
Vengon stampati ognora;
Nè il tuo si stampa ancora?
LXIX. DALLO STESSO.
Il futuro veridici i profeti
Han predetto, e il passato
Menzogneri raccontano i poeti.
LXX. DA MARZIALE.
Se fai talvolta un epigramma bello,
Io ti lodo, o Sabello;
Ma non per meraviglia
Inarcherò le ciglia,
Chè farne un, due, non è fatica molta,
Come avviene a comporne una raccolta.
LXXI. DA AUSONIO.
Per compra libreria tu il dotto fai:
Compra la cetra ancor; vate sarai.
LXXII. DA MARZIALE.
Loda Berga i miei versi, e li declama:
Chi averli in mano, e chi in saccoccia brama;
Ne viene ad un stupore;
Noja a un altro, vergogna, odio, livore:
Così appunto vogl’io;
Ora piace a me pure il libro mio.
LXXIII. DALLO STESSO.
Ha Taide bianchi i denti,
Lecania maculati:
Proprj gli ha questa, e quella gli ha comprati.
LXXIV. DALLO STESSO.
Giura Filone a casa
Non aver mai cenato:
E ne son persuasa;
Ch’ei mai non cena se non è invitato.
LXXV. DALLO STESSO.
Tu vuoi, Paulla, sposar Prisco, ed hai
Proprio del senno assai
Più che donna non suole:
Egli e saggio non meno, e non ti vuole.
LXXVI. DALLO STESSO.
Se quanti Ligia in capo ha crini suoi,
Tant’anni avesse poi,
Ella, per fede mia,
Trilustre al più saria.
LXXVII.
A Natura tua bellezza,
Devi a Sorte la ricchezza:
Io bell’alma mi formai,
Aurea cetra io m’acquistai:
Or di noi qual è, Nigella,
La più ricca, la più bella?
LXXVIII. DA MARZIALE.
Tutte, senz’una compierne, intraprende
Sertorio le faccende;
E sol l’opra compone
Quando alla bocca un ciottolon si pone.
LXXIX. DA AUSONIO.
L’asta avea in mano, in testa
Di Gradivo la cresta
Venere un dì che Palla ebbe incontrata,
Che l’ebbe in sul momento
Disfidata con riso al fier cimento.
Ma Ciprigna le disse: oh! sei ben stolta
Se mi dispregi armata:
Sai che ignuda ti vinsi un’altra volta.
LXXX. DA SANNAZARO.
Vista Nettuno in sugli adriaci flutti
Starsi Vinegia, e tutti
Tener suggetti alle sue leggi i mari:
Or, disse, o Giove, del tuo Marte i lari
Pommi pur contro, e del Tarpeo le mura;
Se al mar la terra di prepor presumi,
Mira le due città: quella fattura
Degli uomini dirai, questa de’ Numi.
LXXXI. DA MARZIALE.
Fabulla i crini, che ha comprati, giura
Esser suoi; per ciò forse ella è spergiura?
LXXXII. A ERINNIDE.
Tre le Furie eran pria
Che al mondo fossi nata:
Quattro or sono; ed allor che morta sia,
Verrà la quarta al numero aggregata.
LXXXIII. DA MARZIALE.
Tutto prometti allora
Che tu vôti la notte otri di vino;
Ma nulla presti al nascer dell’aurora.
Ah! bevi anche al mattino.
LXXXIV. DALLO STESSO.
Ovunque, o Gellia, o vada, o torni, o vegna,
L’aer di grato odor tutto s’impregna;
Ma non sai che le droghe americane
Dariano buon odore anche al tuo cane?
LXXXV. DALLO STESSO.
A chi legge, a chi ascolta, il mio libretto
È parimenti accetto:
Sol v’hanno de’ poeti
Men del lettor discreti;
Ma non li curo, e venga pur mia cena
Ai commensali più che ai cuochi amena.
LXXXVI. DA AUSONIO.
Ecco di Rufo il simulacro: oh quanto
Gli rassomiglia! E dov’è Rufo intanto?
In cattedra. E che fa?
Ciò che la statua qua.
LXXXVII.
Non dubitar, Cornelio,
Che ognun ti creda autor di que’ sermoni:
Il dubbio ci saria, se fosser buoni.
LXXXVIII. A SORBONE.
Ad alcuno che incontri per la strada
Non ti vidi giammai render saluti:
La gente nulla ostante non ci abbada,
Perchè i muli ella sa che nascon muti.
LXXXIX.
D’ogni bell’arte io ti credea maestra
E d’ogni scienza, o Lisa,
Vedendoti ogni giorno alla finestra
Studiare un libro attentamente fisa;
Ma dissemi l’altr’jeri un tuo staffiere,
Che allora delle Dame
Solo tu attendi a leggere il Corriere.
XC. DA OVENO.
In medio virtus.
Donna galante in mezzo agli uomin’ va:
Dunque Virtù suo posto or più non ha.
XCI. DA MARZIALE.
Se ti chiama la turba de’ togati
Il primo de’ sapienti,
Non tu, le mense tue sono eloquenti.
XCII.
Ogni trino e perfetto: antico, è vero,
Baccara, è questo detto;
Tu se’ avaro, scortese, menzognero:
Dunque un tristo tu sei plusquam perfetto.
XCIII.
Il tuo ritratto in faccia a te s’oscura,
Che sei più studiata miniatura.
XCIV. DA MARZIALE.
Ama la pace; e questa la ragione,
Per cui moglie non prese Telefone.
XCV.
Sapiente e innamorato
A un tempo solo comparir tu vuoi:
Dunque cerchi qual saggio e in un da noi
Qual folle esser trattato.
XCVI. DA MARZIALE.
Tu dici agli avvocati
Che il fiato pute e ai vati;
Ma ai critici, qual tu,
Zoilo, egli pute più.
XCVII. DA OVENO.
Voi che la faccia e il seno dipingete
A gran ragion con Flacco,
Siam polve ed ombra, replicar potete.
XCVIII. DA OVENO.
Ponean le antiche genti
La fè Penelopea tra i lor proverbj;
Or è da collocarsi infra i portenti.
XCIX.
Il volto, il collo, il petto
D’unguenti e di color Elia si copre;
Eppure a suo dispetto
L’arte, che nulla fa, tutta si scopre.
C. DA MARZIALE.
Tu mi torni il mio libro ancor perfetto,
E tutto pur lo hai letto;
E il credo, e il so, e ne godo:
Anch’io lessi i tuoi versi a questo modo.